Quando Hollywood non si preoccupava di
mostrare crimine, sesso e violenza,
di Luigi Muneratto
TR-04
29.05.2020
Di tutti i periodi che il cinema mondiale ha attraversato nel corso della sua storia, il cosiddetto “cinema classico hollywoodiano” (1930-1960 circa) è senza dubbio il più coerente e unitario. Il cinema statunitense di quegli anni è infatti regolato da norme estetiche, formali, narrative, produttive, ideologiche estremamente rigide: i grandi studios hanno per lungo tempo il monopolio dell’industria cinematografica, dalla produzione alla distribuzione nelle sale. Il sistema dei generi impone ai registi di adattare il proprio stile al canone di riferimento, e lo star system mette al centro della scena attori e attrici come stelle da venerare, attorno alle quali si crea un vero e proprio mito.
Tra gli aspetti più interessanti c’è la censura, imposta dall’alto su tutti i film prodotti in quegli anni per mezzo di un codice di norme da seguire, noto come Codice Hays. Il codice aveva l’obiettivo di impedire che i film hollywoodiani abbassassero gli “standard morali” degli spettatori, ovviamente secondo un’ideologia cristiana, conservatrice e patriottica. Senza entrare nel dettaglio, tra i temi proibiti troviamo: l’esaltazione/giustificazione della violenza e del crimine, l’abuso di droghe e alcol, la messa in ridicolo della religione e dello Stato, tutti gli aspetti lascivi o “perversi” della sessualità, ovvero nudità, adulterio, relazioni tra persone di etnia diversa, omosessualità. (Clicca qui per leggere una trascrizione del testo inglese originale)
Molto è stato scritto, e molto altro si potrebbe dire su questo argomento. È interessante osservare come, ad esempio, i grandi registi di quel tempo siano stati capaci di trovare sempre nuove strade per far emergere la propria voce all’interno del sistema, a volte stravolgendo le regole, altre volte aggirandole, innovando tecniche e modi narrativi (come le famose e raffinate ellissi visuali di Lubitsch, per fare intendere l’intimità senza mostrarla).
Ma c’è un periodo particolare che per molti aspetti sfugge a tutto quello che si diceva poco sopra sulla questione della censura: gli anni del Pre-Codice, dal 1930 al 1934. In breve, il Codice Hays aveva avuto una lunga gestazione, e già dal 1927, in concomitanza con la nascita del cinema sonoro, esisteva una lista di “Don’ts and Be Carefuls”, che raccoglieva una serie di temi proibiti e di suggerimenti per i registi; da questa nascerà poi, nel 1930, il testo ufficiale del Codice, scritto da due cattolici, l’editore Martin Quigley e il prete gesuita Daniel A. Lord. Bisognerà però aspettare il 1934 perché il Codice ottenga un potere coercitivo: da quell’anno, ogni film prodotto a Hollywood dovrà passare dall’ufficio della censura e ottenere un sigillo di approvazione per poter essere distribuito.
Nei cinque anni di transizione dalla scrittura del Codice alla sua entrata in vigore, quindi, il cinema hollywoodiano conosce un momento di anarchia artistica, potendo toccare e mettere in scena tutti quei temi che per quasi trent’anni saranno proibiti e fortemente osteggiati dalla censura. Gli anni dal ’30 al ’34, per quanto poco conosciuti, offrono così uno spaccato di quello che il cinema avrebbe potuto essere, anticipando di molto i tempi, e aprendo una crepa nel rigido tessuto morale degli Stati Uniti d’America.
Tre sono gli ambiti in cui la Pre-Code Hollywood si prende le maggiori libertà: sessualità, violenza e critica delle istituzioni.
A livello visivo, ci si accorge subito che i corpi delle attrici e degli attori sono mostrati in modo molto diverso da quanto ci si aspetterebbe da un film degli anni trenta. La nudità non è un tabù, così come non lo sono le allusioni sessuali che ne derivano. Questo implica, dato il contesto, che siano soprattutto i corpi femminili ad ottenere le attenzioni della camera e ad attirare il voyeurismo dello spettatore. Ne sono un esempio le celebri commedie musicali di Busby Berkeley, visionario nell’unire le coreografie dei balli a complessi movimenti di camera. Qui i corpi femminili diventano veri e propri oggetti sessuali in serie, come mostrano queste inquadrature (tratte da 42nd Street e Gold Diggers of 1933):
Non mancano però anche esempi in cui i corpi maschili affiancano quelli femminili, come Tarzan and His Mate (1934), che, oltre ad alcune scene di nudo integrale della protagonista, mette in mostra per tutto il film il corpo seminudo dell’attore e campione olimpionico Johnny Weissmuller:
Ma veniamo ora a uno dei film più celebri e controversi del Pre-Codice: Baby Face (1933), con Barbara Stanwyck nei panni della protagonista. In breve, il film racconta la storia di una ragazza che, appena quattordicenne, viene costretta da suo padre ad andare a letto con i clienti del bar dove lavora; dopo aver resistito alle molestie di un uomo, decide di andarsene in città, dove comincia la propria scalata sociale: la sua unica arma sarà il proprio corpo, con cui seduce di volta in volta datori di lavoro e persone che possono servirle per i suoi scopi.
L’elemento controverso, in questo caso, non risiede tanto nelle immagini, quanto nei dialoghi allusivi o esplicitamente riferiti a proposte sessuali. Un piccolo esempio, tratto da una conversazione tra la protagonista e il suo futuro datore di lavoro:
«Have you had any experience?»
«Plenty. I’d rather wait in there [gettando lo sguardo su uno stanzino adiacente]. I hate crowds, don’t you?»
«The boss won’t be back for an hour»
«So then, why don’t we go in and talk this over?» [quindi lo precede nello stanzino sulle note di Saint Louis Blues].
Dialoghi di questo tipo sono impensabili per un film dei decenni successivi, e furono considerati talmente immorali da essere una delle cause principali dell’entrata in vigore del Codice nel 1934. Quello di Baby Face, peraltro, non è un caso isolato. Ecco uno spezzone tratto da Red-Headed Woman (1932) in cui Jean Harlow, aggredita e minacciata da un uomo, lo bacia e lo sfida a schiaffeggiarla di nuovo, perché «le piace». Poi quando l’uomo le chiede di nuovo di darle la chiave, lei la infila nella camicetta, e la dissolvenza lascia intendere il seguito.
Sulla stessa linea, troviamo questo dialogo tratto da The Beast of the City, tra una donna interpretata sempre da Jean Harlow e l’uomo che la sta minacciando stringendola per un braccio:
«That hurts a little bit»
«And you don’t like to be hurt, do you?»
«Oh I don’t know, kind of fun sometimes if it’s done in the right spirit» [avvicinandosi e sorridendo con aria di sfida].
La presenza di personaggi così liberi e sfrontati, soprattutto femminili, può essere letta secondo due prospettive. Da un lato, agli occhi di uno spettatore moderno questi tratti possono sembrare un po’ stereotipati, e tutto sommato anche retrogradi. Queste donne si mostrano disposte a tutto per raggiungere i propri scopi, anche a vendere il proprio corpo, e portano con sé l’idea antica di una femminilità diabolica, tentatrice, spregiudicata, cosa che serviva a connotarle negativamente. Se torniamo al dialogo di Baby Face, è evidente come le dinamiche siano ribaltate rispetto a una situazione realistica: come è noto, soprattutto in ambito hollywoodiano, è spesso e volentieri l’uomo in una posizione di potere a sfruttare il proprio status per ottenere favori sessuali dalle sue sottoposte, e non il contrario.
Tuttavia, provando a calarsi nel contesto storico e sociale in cui uscirono questi film, ci si accorge della loro portata quasi rivoluzionaria rispetto ai propri tempi. L’esistenza di tali storie rende questi film molto meno edulcorati, patinati e convenzionali di tutto il cinema classico hollywoodiano che verrà dopo, compresi i grandi capolavori che hanno fatto la storia del cinema; i personaggi femminili, nella loro sfrontatezza, ottengono una dignità e una centralità che non ritroveranno per molto tempo.
Sono numerosi anche i personaggi omosessuali messi in scena, altro soggetto proibito dall’entrata in vigore del Codice. Nella maggior parte dei casi, come sottolinea giustamente Thomas Doherty, autore del principale testo di riferimento sul Pre-Codice, questi personaggi sono denigrati, e non esistono se non come macchiette ridicole e di contorno. Ecco un esempio tratto da Call Her Savage (1932).
Ma anche qui non mancano le eccezioni. Si potrebbero citare i numerosi ruoli di Marlene Dietrich, una vera e propria icona di quegli anni con la sua orgogliosa ambiguità sessuale, come nella famosa scena del bacio in Morocco (1930):
Un altro esempio di personaggio omosessuale complesso, anche se meno esplicito, può fare da ponte per introdurre un secondo filone di film che ha fatto la storia del Pre-Codice. Sto parlando dei gangster movies, un genere noto in primis per la sua violenza e per la mancanza di rispetto verso istituzioni e forze dell’ordine: film che faranno scuola, basti pensare ai celebri film di Coppola, De Palma e Scorsese dagli anni ’70 in avanti. C’è in particolare un trittico composto da Little Ceasar (1930), The Public Enemy (1931) e Scarface (1932, da cui è tratto il remake con Al Pacino) che ha segnato l’immaginario del gangster violento e spietato, ispirato a personaggi reali come Al Capone e John Dillinger.
In The Public Enemy, ad esempio, troviamo una delle scene più iconiche di violenza “gratuita” del Pre-Codice, quando James Cagney colpisce al volto la sua ragazza con un pompelmo, in un momento di rabbia misogina:
Il più interessante dei tre film è però il primo, Little Ceasar. Qui infatti, oltre alla tipica storia del giovane ragazzo di quartiere che si fa strada nel mondo della criminalità con la violenza, uccidendo nemici e poliziotti, è presente anche un sottotesto omosessuale che rende la trama ancora più complessa e più problematica agli occhi della censura. Il protagonista Rico, interpretato dal grande Edward G. Robinson, ha infatti una relazione ambigua con il suo amico Joe: sono molto amici, ma il primo vuole scalare le gerarchie del crimine, mentre il secondo vuole fare il ballerino e inizia a frequentare una donna. La crescente gelosia di Rico per Joe, così come la sua lotta interiore nei suoi confronti, sono evidenti, e il finale del film non fa che confermare questa ipotesi. Violenza, sfida aperta all’autorità, esaltazione della vita criminale, “perversioni” sessuali: il capostipite del genere gangster raccoglie in sé quasi tutti gli elementi più sconvenienti e sgraditi alla morale comune del proprio tempo, ergendosi come baluardo della libertà narrativa ed espressiva del cinema.
C’è un film in particolare, tra i più belli del periodo, che rappresenta l’ultima categoria, quella della critica sociale: I Am a Fugitive from a Chain Gang (1932). Anche questo, come Little Ceasar, è a sua volta capostipite di un genere, il film carcerario (The Great Escape, Midnight Express, Escape from Alcatraz, tra i film che più gli sono debitori; oppure, in chiave parodistica, Take the Money and Run).
A differenza dei gangster movies, qui il tema centrale non è tanto l’esaltazione della violenza criminale, quanto la denuncia della violenza delle istituzioni e dell’inefficienza della giustizia statunitense, cosa che rende questo film ancora più sovversivo e quindi inaccettabile agli occhi dei futuri censori. Già dalle prime scene (per non dire del finale: merita di essere visto), è lasciato intendere come sia la società stessa che porta i delinquenti a diventare tali. Il protagonista finisce in carcere per un delitto che non ha commesso, e nel corso del film il sadismo dei carcerieri prevarrà anche sulle prove evidenti della sua innocenza. La detenzione e i lavori forzati sono mostrati in tutta la loro disumanità, tra le torture, gli atti punitivi e la morte di chi non riesce a reggere i ritmi massacranti che gli sono imposti.
«Their crime is worse than mine», arriverà a dire il protagonista davanti all’abuso di potere dei suoi aguzzini, che lo tengono in carcere per il puro piacere della vendetta. Bisognerà aspettare decenni per un film tanto sfacciato e feroce nei confronti delle istituzioni, e anche il celebre 12 Angry Men (1957), con la sua critica della pena di morte, non suona tanto attuale come questo film del 1932, che nel mostrare senza filtri l’ingiustizia e la disperazione umana ricorda piuttosto certi film neorealisti del dopoguerra.
Il Pre-Codice apre quindi uno spiraglio su un cinema destinato a sparire di lì a poco: un breve periodo che sfuggì al controllo delle istituzioni e che dimostrò con largo anticipo le potenzialità sovversive della settima arte. Il pregiudizio secondo cui il cinema classico hollywoodiano è un cristallo perfetto, ma ormai troppo lontano dal nostro modo di fare cinema, trova qui la sua smentita.
Quando Hollywood non si preoccupava di mostrare crimine, sesso e violenza,
di Luigi Muneratto
TR-04
29.05.2020
Di tutti i periodi che il cinema mondiale ha attraversato nel corso della sua storia, il cosiddetto “cinema classico hollywoodiano” (1930-1960 circa) è senza dubbio il più coerente e unitario. Il cinema statunitense di quegli anni è infatti regolato da norme estetiche, formali, narrative, produttive, ideologiche estremamente rigide: i grandi studios hanno per lungo tempo il monopolio dell’industria cinematografica, dalla produzione alla distribuzione nelle sale. Il sistema dei generi impone ai registi di adattare il proprio stile al canone di riferimento, e lo star system mette al centro della scena attori e attrici come stelle da venerare, attorno alle quali si crea un vero e proprio mito.
Tra gli aspetti più interessanti c’è la censura, imposta dall’alto su tutti i film prodotti in quegli anni per mezzo di un codice di norme da seguire, noto come Codice Hays. Il codice aveva l’obiettivo di impedire che i film hollywoodiani abbassassero gli “standard morali” degli spettatori, ovviamente secondo un’ideologia cristiana, conservatrice e patriottica. Senza entrare nel dettaglio, tra i temi proibiti troviamo: l’esaltazione/giustificazione della violenza e del crimine, l’abuso di droghe e alcol, la messa in ridicolo della religione e dello Stato, tutti gli aspetti lascivi o “perversi” della sessualità, ovvero nudità, adulterio, relazioni tra persone di etnia diversa, omosessualità. (Clicca qui per leggere una trascrizione del testo inglese originale)
Molto è stato scritto, e molto altro si potrebbe dire su questo argomento. È interessante osservare come, ad esempio, i grandi registi di quel tempo siano stati capaci di trovare sempre nuove strade per far emergere la propria voce all’interno del sistema, a volte stravolgendo le regole, altre volte aggirandole, innovando tecniche e modi narrativi (come le famose e raffinate ellissi visuali di Lubitsch, per fare intendere l’intimità senza mostrarla).
Ma c’è un periodo particolare che per molti aspetti sfugge a tutto quello che si diceva poco sopra sulla questione della censura: gli anni del Pre-Codice, dal 1930 al 1934. In breve, il Codice Hays aveva avuto una lunga gestazione, e già dal 1927, in concomitanza con la nascita del cinema sonoro, esisteva una lista di “Don’ts and Be Carefuls”, che raccoglieva una serie di temi proibiti e di suggerimenti per i registi; da questa nascerà poi, nel 1930, il testo ufficiale del Codice, scritto da due cattolici, l’editore Martin Quigley e il prete gesuita Daniel A. Lord. Bisognerà però aspettare il 1934 perché il Codice ottenga un potere coercitivo: da quell’anno, ogni film prodotto a Hollywood dovrà passare dall’ufficio della censura e ottenere un sigillo di approvazione per poter essere distribuito.
Nei cinque anni di transizione dalla scrittura del Codice alla sua entrata in vigore, quindi, il cinema hollywoodiano conosce un momento di anarchia artistica, potendo toccare e mettere in scena tutti quei temi che per quasi trent’anni saranno proibiti e fortemente osteggiati dalla censura. Gli anni dal ’30 al ’34, per quanto poco conosciuti, offrono così uno spaccato di quello che il cinema avrebbe potuto essere, anticipando di molto i tempi, e aprendo una crepa nel rigido tessuto morale degli Stati Uniti d’America.
Tre sono gli ambiti in cui la Pre-Code Hollywood si prende le maggiori libertà: sessualità, violenza e critica delle istituzioni.
A livello visivo, ci si accorge subito che i corpi delle attrici e degli attori sono mostrati in modo molto diverso da quanto ci si aspetterebbe da un film degli anni trenta. La nudità non è un tabù, così come non lo sono le allusioni sessuali che ne derivano. Questo implica, dato il contesto, che siano soprattutto i corpi femminili ad ottenere le attenzioni della camera e ad attirare il voyeurismo dello spettatore. Ne sono un esempio le celebri commedie musicali di Busby Berkeley, visionario nell’unire le coreografie dei balli a complessi movimenti di camera. Qui i corpi femminili diventano veri e propri oggetti sessuali in serie, come mostrano queste inquadrature (tratte da 42nd Street e Gold Diggers of 1933):
Non mancano però anche esempi in cui i corpi maschili affiancano quelli femminili, come Tarzan and His Mate (1934), che, oltre ad alcune scene di nudo integrale della protagonista, mette in mostra per tutto il film il corpo seminudo dell’attore e campione olimpionico Johnny Weissmuller:
Ma veniamo ora a uno dei film più celebri e controversi del Pre-Codice: Baby Face (1933), con Barbara Stanwyck nei panni della protagonista. In breve, il film racconta la storia di una ragazza che, appena quattordicenne, viene costretta da suo padre ad andare a letto con i clienti del bar dove lavora; dopo aver resistito alle molestie di un uomo, decide di andarsene in città, dove comincia la propria scalata sociale: la sua unica arma sarà il proprio corpo, con cui seduce di volta in volta datori di lavoro e persone che possono servirle per i suoi scopi.
L’elemento controverso, in questo caso, non risiede tanto nelle immagini, quanto nei dialoghi allusivi o esplicitamente riferiti a proposte sessuali. Un piccolo esempio, tratto da una conversazione tra la protagonista e il suo futuro datore di lavoro:
«Have you had any experience?»
«Plenty. I’d rather wait in there [gettando lo sguardo su uno stanzino adiacente]. I hate crowds, don’t you?»
«The boss won’t be back for an hour»
«So then, why don’t we go in and talk this over?» [quindi lo precede nello stanzino sulle note di Saint Louis Blues].
Dialoghi di questo tipo sono impensabili per un film dei decenni successivi, e furono considerati talmente immorali da essere una delle cause principali dell’entrata in vigore del Codice nel 1934. Quello di Baby Face, peraltro, non è un caso isolato. Ecco uno spezzone tratto da Red-Headed Woman (1932) in cui Jean Harlow, aggredita e minacciata da un uomo, lo bacia e lo sfida a schiaffeggiarla di nuovo, perché «le piace». Poi quando l’uomo le chiede di nuovo di darle la chiave, lei la infila nella camicetta, e la dissolvenza lascia intendere il seguito.
Sulla stessa linea, troviamo questo dialogo tratto da The Beast of the City, tra una donna interpretata sempre da Jean Harlow e l’uomo che la sta minacciando stringendola per un braccio:
«That hurts a little bit»
«And you don’t like to be hurt, do you?»
«Oh I don’t know, kind of fun sometimes if it’s done in the right spirit» [avvicinandosi e sorridendo con aria di sfida].
La presenza di personaggi così liberi e sfrontati, soprattutto femminili, può essere letta secondo due prospettive. Da un lato, agli occhi di uno spettatore moderno questi tratti possono sembrare un po’ stereotipati, e tutto sommato anche retrogradi. Queste donne si mostrano disposte a tutto per raggiungere i propri scopi, anche a vendere il proprio corpo, e portano con sé l’idea antica di una femminilità diabolica, tentatrice, spregiudicata, cosa che serviva a connotarle negativamente. Se torniamo al dialogo di Baby Face, è evidente come le dinamiche siano ribaltate rispetto a una situazione realistica: come è noto, soprattutto in ambito hollywoodiano, è spesso e volentieri l’uomo in una posizione di potere a sfruttare il proprio status per ottenere favori sessuali dalle sue sottoposte, e non il contrario.
Tuttavia, provando a calarsi nel contesto storico e sociale in cui uscirono questi film, ci si accorge della loro portata quasi rivoluzionaria rispetto ai propri tempi. L’esistenza di tali storie rende questi film molto meno edulcorati, patinati e convenzionali di tutto il cinema classico hollywoodiano che verrà dopo, compresi i grandi capolavori che hanno fatto la storia del cinema; i personaggi femminili, nella loro sfrontatezza, ottengono una dignità e una centralità che non ritroveranno per molto tempo.
Sono numerosi anche i personaggi omosessuali messi in scena, altro soggetto proibito dall’entrata in vigore del Codice. Nella maggior parte dei casi, come sottolinea giustamente Thomas Doherty, autore del principale testo di riferimento sul Pre-Codice, questi personaggi sono denigrati, e non esistono se non come macchiette ridicole e di contorno. Ecco un esempio tratto da Call Her Savage (1932).
Ma anche qui non mancano le eccezioni. Si potrebbero citare i numerosi ruoli di Marlene Dietrich, una vera e propria icona di quegli anni con la sua orgogliosa ambiguità sessuale, come nella famosa scena del bacio in Morocco (1930):
Un altro esempio di personaggio omosessuale complesso, anche se meno esplicito, può fare da ponte per introdurre un secondo filone di film che ha fatto la storia del Pre-Codice. Sto parlando dei gangster movies, un genere noto in primis per la sua violenza e per la mancanza di rispetto verso istituzioni e forze dell’ordine: film che faranno scuola, basti pensare ai celebri film di Coppola, De Palma e Scorsese dagli anni ’70 in avanti. C’è in particolare un trittico composto da Little Ceasar (1930), The Public Enemy (1931) e Scarface (1932, da cui è tratto il remake con Al Pacino) che ha segnato l’immaginario del gangster violento e spietato, ispirato a personaggi reali come Al Capone e John Dillinger.
In The Public Enemy, ad esempio, troviamo una delle scene più iconiche di violenza “gratuita” del Pre-Codice, quando James Cagney colpisce al volto la sua ragazza con un pompelmo, in un momento di rabbia misogina:
Il più interessante dei tre film è però il primo, Little Ceasar. Qui infatti, oltre alla tipica storia del giovane ragazzo di quartiere che si fa strada nel mondo della criminalità con la violenza, uccidendo nemici e poliziotti, è presente anche un sottotesto omosessuale che rende la trama ancora più complessa e più problematica agli occhi della censura. Il protagonista Rico, interpretato dal grande Edward G. Robinson, ha infatti una relazione ambigua con il suo amico Joe: sono molto amici, ma il primo vuole scalare le gerarchie del crimine, mentre il secondo vuole fare il ballerino e inizia a frequentare una donna. La crescente gelosia di Rico per Joe, così come la sua lotta interiore nei suoi confronti, sono evidenti, e il finale del film non fa che confermare questa ipotesi. Violenza, sfida aperta all’autorità, esaltazione della vita criminale, “perversioni” sessuali: il capostipite del genere gangster raccoglie in sé quasi tutti gli elementi più sconvenienti e sgraditi alla morale comune del proprio tempo, ergendosi come baluardo della libertà narrativa ed espressiva del cinema.
C’è un film in particolare, tra i più belli del periodo, che rappresenta l’ultima categoria, quella della critica sociale: I Am a Fugitive from a Chain Gang (1932). Anche questo, come Little Ceasar, è a sua volta capostipite di un genere, il film carcerario (The Great Escape, Midnight Express, Escape from Alcatraz, tra i film che più gli sono debitori; oppure, in chiave parodistica, Take the Money and Run).
A differenza dei gangster movies, qui il tema centrale non è tanto l’esaltazione della violenza criminale, quanto la denuncia della violenza delle istituzioni e dell’inefficienza della giustizia statunitense, cosa che rende questo film ancora più sovversivo e quindi inaccettabile agli occhi dei futuri censori. Già dalle prime scene (per non dire del finale: merita di essere visto), è lasciato intendere come sia la società stessa che porta i delinquenti a diventare tali. Il protagonista finisce in carcere per un delitto che non ha commesso, e nel corso del film il sadismo dei carcerieri prevarrà anche sulle prove evidenti della sua innocenza. La detenzione e i lavori forzati sono mostrati in tutta la loro disumanità, tra le torture, gli atti punitivi e la morte di chi non riesce a reggere i ritmi massacranti che gli sono imposti.
«Their crime is worse than mine», arriverà a dire il protagonista davanti all’abuso di potere dei suoi aguzzini, che lo tengono in carcere per il puro piacere della vendetta. Bisognerà aspettare decenni per un film tanto sfacciato e feroce nei confronti delle istituzioni, e anche il celebre 12 Angry Men (1957), con la sua critica della pena di morte, non suona tanto attuale come questo film del 1932, che nel mostrare senza filtri l’ingiustizia e la disperazione umana ricorda piuttosto certi film neorealisti del dopoguerra.
Il Pre-Codice apre quindi uno spiraglio su un cinema destinato a sparire di lì a poco: un breve periodo che sfuggì al controllo delle istituzioni e che dimostrò con largo anticipo le potenzialità sovversive della settima arte. Il pregiudizio secondo cui il cinema classico hollywoodiano è un cristallo perfetto, ma ormai troppo lontano dal nostro modo di fare cinema, trova qui la sua smentita.