TR-52
05.03.2022
Alcuni film irrealizzati, per chi studia un autore o è fan di un regista, diventano ancora più leggendari dei film effettivamente presenti nella sua filmografia. È il caso ad esempio di Napoleon per Stanley Kubrick, dell'epopea sull'assedio di Stalingrado per Sergio Leone, di Tecnicamente dolce o Destinazione: Verna per Antonioni, del Viaggio di G. Mastorna per Fellini. In misura diversa e con specificità tutte sue, questo vale anche per il Porno-Teo-Kolossal pasoliniano. In occasione del centenario della nascita di Pasolini, analizziamo la sceneggiatura del film che, benché rimasta soltanto sulla carta, offre originali scorci su tutta la sua produzione artistica e intellettuale, e sul clima politico dell'Italia degli anni settanta.
È il 1975. In stretta successione, Pasolini annuncia un film tratto da un'opera del marchese De Sade, lo gira, butta giù una dichiarazione polemica con cui abiura alla Trilogia della Vita composta dai suoi tre film precedenti, continua a lavorare al romanzo-affresco-rivelazione Petrolio, accarezza sinceramente l'idea di "mollare tutto" e di ritirarsi a scrivere poesie nella sua torre di Chia, fronteggia il furto dei negativi del film appena girato, fa un viaggio a Stoccolma, e pochissimi giorni dopo il suo ritorno a Roma viene assassinato in circostanze tuttora misteriose sul lungomare di Ostia. Il film sadiano, Salò o le 120 giornate di Sodoma, esce postumo e resta tra le opere più contestate di P.P.P. Ogni ulteriore progetto di sceneggiatura resta, inevitabilmente, sulla carta.
1966. Pasolini ha già girato un film e sta per girare due cortometraggi con la grande maschera del comico napoletano Totò - Uccellacci e uccellini, La Terra vista dalla Luna, Che cosa sono le nuvole? - e, galvanizzato dalle possibilità espressive dell'interprete, inizia a concepire un nuovo film da girare con lui protagonista. Il trattamento che inizia a prendere forma, Le avventure del Re magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, è caratterizzato sin dall'inizio da un notevole sottotesto biblico - ma la morte di infarto di Totò nella primavera del 1967 ne impedisce la realizzazione. Lo spunto, almeno secondo Sergio Citti, era venuto da una proposta di Dino De Laurentiis: in contatto con la televisione americana, il produttore aveva proposto a Pasolini di girare uno special natalizio di un’ora.
24 settembre 1975. Mentre è ancora in corso la post-produzione di Salò, Pasolini scrive a Eduardo De Filippo. È diventato lui l'interprete designato per il ruolo che un tempo era stato pensato per Totò. Le avventure del Re Magio randagio nel frattempo è diventato il Porno-Teo-Kolossal; fra gli altri titoli momentaneamente considerati nel passare degli anni, Il Cinema, Ta kai ta, Circenses e Dromenon Legomenon, quest'ultimo un riferimento che andava a pescare a piene mani dall'immaginario misterico della religiosità pagana. A Eduardo, che lo aveva sostenuto ai tempi del processo per oscenità a cui era andato incontro con I racconti di Canterbury, Pasolini scrive “eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo”, e glielo lascia in lettura sperando “non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo, ma che mi aiuti e m’incoraggi ad affrontare una simile impresa”.
2001. Nove anni dopo la tardiva pubblicazione, incompleta e postuma, del romanzo-scandalo Petrolio, la sceneggiatura del Porno-Teo-Kolossal trova una sistemazione definitiva nei Meridiani Mondadori che stanno raccogliendo l’opera omnia di Pasolini – nello specifico, nei due volumi dei Meridiani Per il cinema curati da Walter Siti e Franco Zabagli. Anticipata già da una libera resa filmica ne I magi randagi di Sergio Citti, con Silvio Orlando, Laura Betti e Ninetto Davoli, questa versione del Porno-Teo-Kolossal è rimasta la variante ufficiale e paradossale – ancora a metà strada tra un trattamento e una sceneggiatura vera e propria - di un film che non fu. Di un film che, se Pasolini non fosse stato assassinato la notte del 2 novembre ‘75, avrebbe potuto esserci. E avrebbe rappresentato un importante prosieguo tanto della sua poetica filmica quanto della sua battaglia politica.
Ma qual era la trama del Porno-Teo-Kolossal, questo serissimo divertissement pasoliniano attorno alla Natività di Gesù? È un soggetto battuto a macchina del 1973, che ancora portava il titolo de Il Cinema, a rappresentarne un fedele riassunto attraverso le parole del suo stesso autore.
“Due personaggi che fanno un ‘viaggio’. Il viaggio è guidato da una escatologia ideologica: lo scopriremo senza volerlo, guidati da un altro falso scopo. Credendo di raggiungere un fine, si scopre la realtà così com’è, senza alcun fine.
I due personaggi sono un Re Mago, e il suo servo. Lo schema della storia è questo: il Re Mago parte per andare nel luogo dov’è nato il Messia, ma per strada gliene capitano tante che quando arriva sul Luogo, non solo il Messia è nato, ma ha trascorso la vita ed è morto, fondando una religione a sua volta finita. Il Re Mago, arrivato sul Luogo inutilmente, muore.
Il servo burbero e rozzo e incosciente, che ha accompagnato il Re Mago, in punto di morte si rivela: egli è un Angelo, e prende per mano il Re Mago per portarlo in Paradiso. Ma il paradiso non c’è. I due si voltano indietro verso il mondo della realtà, di cui hanno scoperto i valori cercandone altri.”
Questo appunto, che Pasolini stesso si era scritto, dice molto sul finale, e poco sull’effettivo svolgimento delle vicende. C’è da dire che il finale è meraviglioso, e conclude su un tono speranzoso il travagliato rapporto che Pasolini aveva avuto con la parola “utopia” e sul suo utilizzo nel gergo marxista, sin dai tempi de Le ceneri di Gramsci. Accortisi che il Paradiso non c’è, o perlomeno non c’è più, Epifanio e Nunzio – così si chiamano nel trattamento-sceneggiatura rispettivamente il Re Mago e il suo servo/angelo – non si abbattono. “Come tutte le comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata”, sentenzia Epifanio, “ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto…”.
Tutti gli studiosi e i testimoni concordano sul fatto che negli ultimi mesi della sua vita Pasolini era giunto a una cupezza profonda tanto sul piano personale quanto sul piano politico e artistico: cupezza, ben incarnata in Salò, che derivava dall’impressione di aver condotto per tutta la vita una battaglia santa ma inutile, ché il boom economico e il Sessantotto, ben lungi dal rappresentare una “liberazione” degli individui, li aveva subdolamente portati sotto un nuovo “fascismo dei consumi”, e l’Italia, dopo aver divelto le sue radici contadine, soprattutto nelle generazioni più giovani stava diventando irriconoscibile agli occhi di Pasolini. Rispetto all’horror mundi totalitario incarnato in Salò e, più dialetticamente, anche in Petrolio – “questo è il film di un uomo che voleva morire”, pare abbia detto ai tempi Goffredo Fofi, uscendo dalla prima parigina del film sadiano – il Porno-Teo-Kolossal si concede una chiusa ben più lieve.
Tuttavia, solo in apparenza il finale del Porno-Teo-Kolossal potrebbe rappresentare un ripensamento di Pasolini rispetto alle sue posizioni estreme e radicali, contro tutti e tutto, espresse tra la poesia Il PCI ai giovani!, l’articolo contro l’aborto e l’Abiura alla Trilogia della Vita pubblicata postuma. In realtà, lo sviluppo complessivo del film rappresentava una sorta di itinerario attraverso il percorso intellettuale di Pasolini stesso, dalla fascinazione per la cultura popolare, qui incarnata dalla napoletanità del personaggio di Totò/Eduardo, fino alla condanna del consumismo emerso nel post-Sessantotto. Ma per capire bene questa “trama dialettica”, ci conviene recuperare alcune delle scene più impressionanti del Porno-Teo-Kolossal.
Siamo nella prima parte del film. Dopo che si è sparsa la voce che è nato un nuovo Messia – “o’ Messia ca’, o Messia là… o’ Messia vene, o’ Messia nun vene, nun è o vero…” – il Re Mago Epifanio si mette in marcia assieme al suo servo romano Nunzio, allontanandosi dai rioni popolari di Napoli per seguire una stella cometa che è comparsa in cielo. Preso il treno, Epifanio e Nunzio arrivano a Roma Termini, soprannominata nella sceneggiatura “Sodoma Termini”: giunti in città, la Stella Cometa resta fissa nel cielo, come a ingiungere ai due di trattenersi lì.
Bastano pochi minuti perché Epifanio si accorga della particolarità di Roma/Sodoma: la maggior parte degli abitanti sono omosessuali, gay e lesbiche; i pochi etero stanno tutti confinati in un quartiere, dove anche a Epifanio e Nunzio viene consigliato di pernottare da un agente incontrato all’uscita della stazione. Per permettere alla città di avere ogni anno nuove nascite, un solo giorno all’anno viene carnevalescamente dedicato alla “Festa della Fecondazione”, in cui i due partiti degli omosessuali e delle lesbiche sono costretti alla copula; per il resto dell’anno, maschi e femmine stanno divisi, e sono previste dure pene per quelli che vengono sorpresi ad amoreggiare con un cittadino dell’altro sesso.
Arriviamo così alla Festa della Fecondazione, la scena sicuramente più impressionante di tutto il trattamento, fedelmente messa in scena da Abel Ferrara nel suo controverso biopic Pasolini con protagonista Willem Dafoe. Nel Porno-Teo-Kolossal pasoliniano, si immagina che questa Festa della Fecondazione abbia luogo al vecchio macello di Roma, l’“ammazzatore” di Testaccio dove adesso stanno gli spazi della Pelanda. “Attraverso gli occhi di Eduardo esterrefatto” – così precisa il trattamento, lasciando intendere che la scena sarebbe stata realizzata con una soggettiva indiretta libera, uno dei procedimenti stilistici più amati da P.P.P. – scopriamo dunque com’è la festa.
La descrizione che Pasolini fa della festa già sulla carta è dettagliata, e rivela appieno le conoscenze antropologiche ed etnografiche che, soprattutto grazie alla lettura di Mircea Eliade, l’intellettuale aveva accumulato negli anni. “Un grande coito annuale pubblico, per andare avanti con la specie. La cosa dentro il macello è organizzata un po’ come durante le elezioni: ci sono cioè le sezioni in cui tutti i giovanotti capaci di generare si presentano a fare il loro dovere; e così le ragazze”. Non solo: “c’è un Re della Festa della Fecondazione, e una Regina della Festa della Fecondazione. Intorno a loro più grande la ressa e l’allegria. Essi sono gli ultimi a congiungersi al coro”.
A un primo sguardo, sembra proprio che “a Sodoma, la tolleranza è reale, la mitezza è reale, la comprensione degli altri è reale; e tutto è fondato su una reale democraticità”, al punto che nella città “trovano posto anche minoranze di qualsiasi tipo” – così spiega la Regina di Sodoma a Epifanio, in quanto notabile straniero in visita. Tuttavia, “improvvisamente si sente scoppiare un grande tumulto. La festa ha qui il suo grande risvolto” e inizia a rivelare il suo fondamento sacrificale.
Infatti, anche se le minoranze eterosessuali sono protette – e relegate nel loro specifico quartiere – due giovani, un ragazzo e una ragazza, che qualche scena prima nel film erano stati sorpresi assieme, vengono puniti coram populo nello Stadio Torino di Roma. La punizione consiste in uno stupro di gruppo, di stampo rigidamente omosessuale: prima tre ragazze costringono all’amplesso la ragazza “colpevole”, poi tre ragazzi sodomizzano il maschio. La tolleranza a Sodoma non è così ampia quanto i suoi abitanti credono: chi “esce dalle file”, chi trasgredisce i confini già posti, viene comunque punito.
Epifanio e Nunzio sono sconvolti dalla scena ma, fortunatamente, proprio in quel momento la Stella Cometa ricomincia a muoversi nel cielo: devono andare altrove, a portare i loro doni al Messia nascente. Il Re Mago e il suo servo fanno appena in tempo a uscire da Sodoma, che subito i “fulmini di Dio” colpiscono la città e inizia a divampare un terribile incendio: proprio come nella scena biblica. Epifanio e Nunzio fuggono via, risoluti – memori della fine della moglie di Lot – a non voltarsi neanche indietro, verso la città che brucia.
Se nell’immaginario del Porno-Teo-Kolossal Roma sta a Sodoma, Milano corrisponde invece a Gomorra. E rispetto alla produzione cinematografica e ancor più saggistico-pamphlettistica di Pasolini, la descrizione della Festa della Fecondità di Sodoma sembra legarsi alle sue riflessioni sull’ambiguità violenta del concetto di tolleranza: “la tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale”, aveva scritto P.P.P. in uno degli articoli raccolti poi nelle Lettere Luterane. Allo stesso modo, la Milano/Gomorra del Porno-Teo-Kolossal sembra mettere in scena efficacemente le riflessioni di P.P.P. sulle ambiguità del Sessantotto, del consumismo e della “liberazione sessuale” – esemplificate da celebri polemiche che, dalle pagine del Corriere della Sera, Pasolini mosse prima contro l’occupazione di Valle Giulia, poi contro il fenomeno dei “capelloni” in generale, infine contro la pubblicità dei jeans Jesus.
“È una città molto moderna, Gomorra [Milano, appunto]”, riconosce sin da subito la descrizione, “con le sconfinate distese di fabbriche bianche e asettiche”, “ma gli occhi di Epifanio e Nunzio si spalancano soprattutto su alcune apparizioni curiose”, mentre il treno si avvia alla stazione: in parecchi luoghi della città si vedono infatti “interi reggimenti, si può dire, di giovani: tutti nudi. Se ne stanno fermi, nei loro cortili, nelle loro aule, nelle loro piazzette, come in attesa di qualcosa – qualcosa di misterioso. Un mistero, però, ‘civile’: o istituzionale, o religioso, è chiaro”.
Come arrivano in stazione, Epifanio e Nunzio assistono a diversi stupri di gruppi di donne – incluse le figlie di Lot, l’unico altro superstite, assieme a loro, della distruzione di Sodoma, proprio come nel racconto biblico. Il Re Mago e il servo trovano fortunosamente rifugio in un taxi, e il tassista, napoletano come loro, spiega ai due come stanno le cose in quest’immaginifica Milano: “evidentemente – come dalla cappa di piombo del suo cielo – Gomorra è dominata da un furibondo e pazzesco amore per la carne femminile”, e “la cosa più tremenda che possa succedere a Gomorra è quella di essere ‘ricchioni’: quella di amarsi tra uomini”.
La seconda parte del Porno-Teo-Kolossal, quella ambientata a Milano, non è immaginifica quanto il suo segmento romano, ma è forse ancora più precisa nell’instaurare parallelismi e affinità tra il Pasolini regista – o, in questo caso, solo sceneggiatore – e il Pasolini intellettuale, quello che infiammava gli animi scrivendo i suoi editoriali “corsari” sul Corriere della Sera. Come a Sodoma c’è la Festa della Riproduzione, a Gomorra si consuma la Grande Festa dell’Iniziazione, in cui i maschi diciottenni della città devono perdere la verginità: così “assistiamo ad una specie di invasione di Gomorra da parte di questi giovani diciottenni; i quali rappresentano evidentemente una scena mitica, una scena simbolica”, uno stupro centauresco delle donne della città. “Gomorra è l’Utopia della Città della Violenza” e, Pasolini precisa in nota, della “violenza neocapitalistica, che rende i giovani o estremisti o criminali”.
Registi che siano stati specificatamente anche intellettuali ce ne sono stati molto pochi, nella storia del cinema italiano ed europeo: autori cinematografici della stessa generazione di Pasolini, come Fellini o Antonioni, pur essendo molto attenti alle trasformazioni in atto nella società e nella sensibilità italiane non hanno lasciato molto di scritto, men che meno con il rigore politico e la vis polemica che caratterizzava gli articoli di P.P.P. poi confluiti tra gli Scritti corsari e le Lettere luterane. Nella precisazione che a Gomorra, una città eterosessuale fino al parossismo, si considera l’omosessualità come una delle più infamanti colpe, si ritrova la stessa ansia che Pasolini aveva espresso nel suo intervento “corsaro” contro il diritto all’aborto, in cui sosteneva che il consumismo aveva reso il coito eterosessuale un obbligo sociale coatto e inculcato, continuando a tenere ai margini, anzi, fuori dal discorso pubblico, l’omosessualità. E in quella “violenza neocapitalistica, che rende i giovani o estremisti o criminali”, non è difficile rintracciare l’eco dei versi, che pure Pasolini aveva a suo modo ripudiato, de Il PCI ai Giovani!, la poesia contro l’occupazione di Valle Giulia pubblicata nel giugno del Sessantotto.
Detto questo, il finale del secondo atto del Porno-Teo-Klossal è analogo al primo: anche Gomorra viene distrutta, in una scena degna della Bibbia, stavolta non da un fuoco celeste ma da un’improvvisa e rapidissima epidemia di peste. Un terzo atto del film è ambientato a Parigi, trasposta da P.P.P. in Numanzia, una città della Spagna rasa al suolo da Scipione Emiliano ai tempi della Repubblica romana: nella lettura immaginifica di Pasolini, questa Numanzia parigina è una “città socialista” assediata da un non meglio specificato esercito fascista. Anche le vicende belliche della caduta di Numanzia per come sono re-immaginate da Pasolini sono interessanti, ma ciò che conta di più è trovare, tra le righe del trattamento, anche Numanzia definita, stavolta esplicitamente, una “Città-Utopia”.
Dopo che, allontanatisi anche da Numanzia, Epifanio e Nunzio trovano la grotta di Ur/Betlemme vuota, e scoprono da un “ragazzino arabo” che “sì, il Messia è nato, ma è passato tanto tempo, è anche morto e dimenticato”, il servo del Re Mago si rivela essere un angelo, e porta con sé Epifanio verso il Paradiso. Ma come Epifanio non è riuscito a trovare in tempo la grotta dov’è nato il Messia, neanche Nunzio riesce più a trovare il Paradiso. “«Eppure stava qua», fa. «Che? ‘U Paradiso?», chiede Epifanio; ma ha già capito tutto” – è lo scambio tra i due. Allora forse è proprio al grande tema dell’Utopia che dobbiamo aggrapparci, per capire il messaggio profondo del Porno-Teo-Kolossal.
“Essere/con te e contro te; con te nel cuore/in luce, contro te nelle buie viscere”. Sono simbolicamente questi versi, lasciati da Pasolini al cuore della sua raccolta poetica Le ceneri di Gramsci, a rappresentare il travagliato rapporto con l’ideologia marxista, che – pur essendo stato cacciato dal Partito Comunista Italiano per uno scandalo sessuale nel 1952 – Pasolini continuò a professare come sua fino alla fine della sua vita. Tuttavia, nei confronti di Gramsci, il “patrono” del comunismo italiano, e, di riflesso, nei confronti del marxismo tutto, a differenza di altri intellettuali e registi del periodo Pasolini mantenne un atteggiamento eterodosso, pronto a distaccarsi dall’ortodossia comunista in nome della sua personale sensibilità. Particolare rilievo in questo senso assume la sua lotta “antistorica” per la conservazione di una religiosità popolare e, in generale, per la rivalutazione della civiltà contadina, quando, all’indomani del boom economico, si verificò un fenomeno che in seguito proprio a partire da un intervento televisivo di P.P.P. venne parafrasato come “sviluppo senza progresso”.
I primi film di Pasolini, come Accattone e Mamma Roma, descrivevano e fondamentalmente celebravano, anche idealizzandolo, il sottoproletariato romano: dopo che due film apparentemente molto lontani come la sua versione del Vangelo secondo Matteo e il più allegorico Uccellacci e uccellini gli avevano concesso un maggior affondo nell’immaginario religioso, Pasolini aveva iniziato ad avvertire un crescente disagio nei confronti del proletariato urbano e rurale da lui tanto amato, in cui adesso iniziava a vedere i germi di un nascente “conformismo”, di una mimesi nei confronti della borghesia. In un primo tempo, Pasolini si rifugiò nell’ideale di un cinema “inconsumabile”, quasi elitario, addentrandosi per la prima volta in interni borghesi con Teorema, o approfondendo il suo rapporto col mito greco tra l’Edipo re e la Medea interpretata da Maria Callas. Teorema rappresentava una critica selvaggia e beffarda nei confronti dell’universo borghese, che ancora indicava nella religiosità popolare una possibile via di salvezza; l’Edipo re e la Medea rappresentavano più forti sconfinamenti nel mito, non privi tuttavia di riferimenti politici verso il presente.
Nei primi anni settanta, l’atteggiamento di Pasolini verso il cinema e, di riflesso, verso il pubblico, cambiò ancora una volta. Nacque così quella che è passata alla storia come la sua Trilogia della Vita: il Decameron, i Racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte, tre film tratti da altrettante opere letterarie caratterizzati da una sessualità spontanea e leggera, di cui spesso erano portavoce personaggi di classi umili. Il postumo Salò o le Centoventi giornate di Sodoma, anticipato da un’Abiura della Trilogia della Vita, fu l’antitesi a questa visione idilliaca del mondo: un film tutto incentrato sul connubio tra coercizione e sessualità, nella consapevolezza che “nulla è più anarchico del potere”. Un film cupo, riflesso degli spettri personali di P.P.P., che affermava esplicitamente di non riconoscersi più nella cultura e nella società italiane dei mid Seventies – e se da un lato accusava il potere del consumismo di aver “corrotto” anche le classi sociali,un tempo più umili e sincere, dall’altro lato riconosceva anche di aver commesso un errore di idealizzazione nei confronti di un certo sottoproletariato adesso così pronto, almeno ai suoi occhi, a “imborghesirsi”. “Oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente”, si leggeva nell’Abiura.
Se Salò termina violento e beffardo, con una concatenazione di scene di torture, stupri e suicidi a cui pone fine l’immagine paradossale di due soldati fascisti che improvvisano un valzer, il finale del Porno-Teo-Kolossal sembrava potenzialmente in grado di aggiungere un ultimo spunto di riflessione nei confronti dell’utopia politica, sessuale e umana che Pasolini aveva inseguito per tutta la sua vita. Salò era il film anti-utopista per eccellenza, un film di un pessimismo assoluto, in un crescendo di cupio dissolvi: il finale del Porno-Teo-Kolossal, nell’ammissione che questo Messia non solo era nato e aveva fondato una religione, ma era anche morto e nel tempo era stato dimenticato, si riallacciava alle riflessioni affrante di Pasolini sulla secolarizzazione e sulla “fine del sacro”, eppure continuava a esprimere una flebile speranza anche nelle sue battute finali. O più che una speranza, una consapevolezza. “Come tutte le comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata, ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto…”.
Per certi versi, ci piacerebbe pensare che il cinema di Pasolini si concluda su queste battute, certo più conclusive del valzer stragista che chiude Salò. È difficile stabilire, a dire il vero, quale delle due opere venga “prima”: quella del Porno-Teo-Kolossal, che è un soggetto originale, è certamente anteriore come concezione all’idea di adattare per il cinema il romanzo di De Sade, ma dal momento che questo finale ancora faceva parte della sceneggiatura inviata a Eduardo De Filippo nel settembre del ’75, si può immaginare che questa sarebbe rimasta davvero la scena conclusiva del Porno-Teo-Kolossal, se Pasolini non fosse stato ucciso la notte del 2 novembre e fosse riuscito a girare il film. Si dice spesso che la storia non si fa coi “se”, e neanche si può tracciare così un profilo definitivo di un intellettuale o di un artista: ma certo è che la lettura dell’irrealizzato Porno-Teo-Kolossal aggiunge una nuova e importante prospettiva sul manifesto “pessimismo” dell’ultimo Pasolini. E forse non è un caso che l’ultimissima battuta del trattamento dica proprio: “«embè, sor Epifà, nun esiste la fine. Aspettiamo. Qualche cosa succederà»”. Come a dire che, nonostante tutto, nonostante tutti i fallimenti, le disillusioni, le rivoluzioni tramutatesi in piatto conformismo, c’è ancora qualcosa da scommettere, sulla Terra e sugli umani. È questo, forse, a prescindere da ogni Messia, il segreto della Cometa.
Echi e corrispondenze fra
lo storico italiano Carlo Ginzburg
e il cinema di Robert Eggers,
di Ludovico Cantisani
TR-52
05.03.2022
Alcuni film irrealizzati, per chi studia un autore o è fan di un regista, diventano ancora più leggendari dei film effettivamente presenti nella sua filmografia. È il caso ad esempio di Napoleon per Stanley Kubrick, dell'epopea sull'assedio di Stalingrado per Sergio Leone, di Tecnicamente dolce o Destinazione: Verna per Antonioni, del Viaggio di G. Mastorna per Fellini. In misura diversa e con specificità tutte sue, questo vale anche per il Porno-Teo-Kolossal pasoliniano. In occasione del centenario della nascita di Pasolini, analizziamo la sceneggiatura del film che, benché rimasta soltanto sulla carta, offre originali scorci su tutta la sua produzione artistica e intellettuale, e sul clima politico dell'Italia degli anni settanta.
È il 1975. In stretta successione, Pasolini annuncia un film tratto da un'opera del marchese De Sade, lo gira, butta giù una dichiarazione polemica con cui abiura alla Trilogia della Vita composta dai suoi tre film precedenti, continua a lavorare al romanzo-affresco-rivelazione Petrolio, accarezza sinceramente l'idea di "mollare tutto" e di ritirarsi a scrivere poesie nella sua torre di Chia, fronteggia il furto dei negativi del film appena girato, fa un viaggio a Stoccolma, e pochissimi giorni dopo il suo ritorno a Roma viene assassinato in circostanze tuttora misteriose sul lungomare di Ostia. Il film sadiano, Salò o le 120 giornate di Sodoma, esce postumo e resta tra le opere più contestate di P.P.P. Ogni ulteriore progetto di sceneggiatura resta, inevitabilmente, sulla carta.
1966. Pasolini ha già girato un film e sta per girare due cortometraggi con la grande maschera del comico napoletano Totò - Uccellacci e uccellini, La Terra vista dalla Luna, Che cosa sono le nuvole? - e, galvanizzato dalle possibilità espressive dell'interprete, inizia a concepire un nuovo film da girare con lui protagonista. Il trattamento che inizia a prendere forma, Le avventure del Re magio randagio e il suo schiavetto Schiaffo, è caratterizzato sin dall'inizio da un notevole sottotesto biblico - ma la morte di infarto di Totò nella primavera del 1967 ne impedisce la realizzazione. Lo spunto, almeno secondo Sergio Citti, era venuto da una proposta di Dino De Laurentiis: in contatto con la televisione americana, il produttore aveva proposto a Pasolini di girare uno special natalizio di un’ora.
24 settembre 1975. Mentre è ancora in corso la post-produzione di Salò, Pasolini scrive a Eduardo De Filippo. È diventato lui l'interprete designato per il ruolo che un tempo era stato pensato per Totò. Le avventure del Re Magio randagio nel frattempo è diventato il Porno-Teo-Kolossal; fra gli altri titoli momentaneamente considerati nel passare degli anni, Il Cinema, Ta kai ta, Circenses e Dromenon Legomenon, quest'ultimo un riferimento che andava a pescare a piene mani dall'immaginario misterico della religiosità pagana. A Eduardo, che lo aveva sostenuto ai tempi del processo per oscenità a cui era andato incontro con I racconti di Canterbury, Pasolini scrive “eccoti finalmente per iscritto il film di cui ormai da anni ti parlo”, e glielo lascia in lettura sperando “non solo che il film ti piaccia e che tu accetti di farlo, ma che mi aiuti e m’incoraggi ad affrontare una simile impresa”.
2001. Nove anni dopo la tardiva pubblicazione, incompleta e postuma, del romanzo-scandalo Petrolio, la sceneggiatura del Porno-Teo-Kolossal trova una sistemazione definitiva nei Meridiani Mondadori che stanno raccogliendo l’opera omnia di Pasolini – nello specifico, nei due volumi dei Meridiani Per il cinema curati da Walter Siti e Franco Zabagli. Anticipata già da una libera resa filmica ne I magi randagi di Sergio Citti, con Silvio Orlando, Laura Betti e Ninetto Davoli, questa versione del Porno-Teo-Kolossal è rimasta la variante ufficiale e paradossale – ancora a metà strada tra un trattamento e una sceneggiatura vera e propria - di un film che non fu. Di un film che, se Pasolini non fosse stato assassinato la notte del 2 novembre ‘75, avrebbe potuto esserci. E avrebbe rappresentato un importante prosieguo tanto della sua poetica filmica quanto della sua battaglia politica.
Ma qual era la trama del Porno-Teo-Kolossal, questo serissimo divertissement pasoliniano attorno alla Natività di Gesù? È un soggetto battuto a macchina del 1973, che ancora portava il titolo de Il Cinema, a rappresentarne un fedele riassunto attraverso le parole del suo stesso autore.
“Due personaggi che fanno un ‘viaggio’. Il viaggio è guidato da una escatologia ideologica: lo scopriremo senza volerlo, guidati da un altro falso scopo. Credendo di raggiungere un fine, si scopre la realtà così com’è, senza alcun fine.
I due personaggi sono un Re Mago, e il suo servo. Lo schema della storia è questo: il Re Mago parte per andare nel luogo dov’è nato il Messia, ma per strada gliene capitano tante che quando arriva sul Luogo, non solo il Messia è nato, ma ha trascorso la vita ed è morto, fondando una religione a sua volta finita. Il Re Mago, arrivato sul Luogo inutilmente, muore.
Il servo burbero e rozzo e incosciente, che ha accompagnato il Re Mago, in punto di morte si rivela: egli è un Angelo, e prende per mano il Re Mago per portarlo in Paradiso. Ma il paradiso non c’è. I due si voltano indietro verso il mondo della realtà, di cui hanno scoperto i valori cercandone altri.”
Questo appunto, che Pasolini stesso si era scritto, dice molto sul finale, e poco sull’effettivo svolgimento delle vicende. C’è da dire che il finale è meraviglioso, e conclude su un tono speranzoso il travagliato rapporto che Pasolini aveva avuto con la parola “utopia” e sul suo utilizzo nel gergo marxista, sin dai tempi de Le ceneri di Gramsci. Accortisi che il Paradiso non c’è, o perlomeno non c’è più, Epifanio e Nunzio – così si chiamano nel trattamento-sceneggiatura rispettivamente il Re Mago e il suo servo/angelo – non si abbattono. “Come tutte le comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata”, sentenzia Epifanio, “ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto…”.
Tutti gli studiosi e i testimoni concordano sul fatto che negli ultimi mesi della sua vita Pasolini era giunto a una cupezza profonda tanto sul piano personale quanto sul piano politico e artistico: cupezza, ben incarnata in Salò, che derivava dall’impressione di aver condotto per tutta la vita una battaglia santa ma inutile, ché il boom economico e il Sessantotto, ben lungi dal rappresentare una “liberazione” degli individui, li aveva subdolamente portati sotto un nuovo “fascismo dei consumi”, e l’Italia, dopo aver divelto le sue radici contadine, soprattutto nelle generazioni più giovani stava diventando irriconoscibile agli occhi di Pasolini. Rispetto all’horror mundi totalitario incarnato in Salò e, più dialetticamente, anche in Petrolio – “questo è il film di un uomo che voleva morire”, pare abbia detto ai tempi Goffredo Fofi, uscendo dalla prima parigina del film sadiano – il Porno-Teo-Kolossal si concede una chiusa ben più lieve.
Tuttavia, solo in apparenza il finale del Porno-Teo-Kolossal potrebbe rappresentare un ripensamento di Pasolini rispetto alle sue posizioni estreme e radicali, contro tutti e tutto, espresse tra la poesia Il PCI ai giovani!, l’articolo contro l’aborto e l’Abiura alla Trilogia della Vita pubblicata postuma. In realtà, lo sviluppo complessivo del film rappresentava una sorta di itinerario attraverso il percorso intellettuale di Pasolini stesso, dalla fascinazione per la cultura popolare, qui incarnata dalla napoletanità del personaggio di Totò/Eduardo, fino alla condanna del consumismo emerso nel post-Sessantotto. Ma per capire bene questa “trama dialettica”, ci conviene recuperare alcune delle scene più impressionanti del Porno-Teo-Kolossal.
Siamo nella prima parte del film. Dopo che si è sparsa la voce che è nato un nuovo Messia – “o’ Messia ca’, o Messia là… o’ Messia vene, o’ Messia nun vene, nun è o vero…” – il Re Mago Epifanio si mette in marcia assieme al suo servo romano Nunzio, allontanandosi dai rioni popolari di Napoli per seguire una stella cometa che è comparsa in cielo. Preso il treno, Epifanio e Nunzio arrivano a Roma Termini, soprannominata nella sceneggiatura “Sodoma Termini”: giunti in città, la Stella Cometa resta fissa nel cielo, come a ingiungere ai due di trattenersi lì.
Bastano pochi minuti perché Epifanio si accorga della particolarità di Roma/Sodoma: la maggior parte degli abitanti sono omosessuali, gay e lesbiche; i pochi etero stanno tutti confinati in un quartiere, dove anche a Epifanio e Nunzio viene consigliato di pernottare da un agente incontrato all’uscita della stazione. Per permettere alla città di avere ogni anno nuove nascite, un solo giorno all’anno viene carnevalescamente dedicato alla “Festa della Fecondazione”, in cui i due partiti degli omosessuali e delle lesbiche sono costretti alla copula; per il resto dell’anno, maschi e femmine stanno divisi, e sono previste dure pene per quelli che vengono sorpresi ad amoreggiare con un cittadino dell’altro sesso.
Arriviamo così alla Festa della Fecondazione, la scena sicuramente più impressionante di tutto il trattamento, fedelmente messa in scena da Abel Ferrara nel suo controverso biopic Pasolini con protagonista Willem Dafoe. Nel Porno-Teo-Kolossal pasoliniano, si immagina che questa Festa della Fecondazione abbia luogo al vecchio macello di Roma, l’“ammazzatore” di Testaccio dove adesso stanno gli spazi della Pelanda. “Attraverso gli occhi di Eduardo esterrefatto” – così precisa il trattamento, lasciando intendere che la scena sarebbe stata realizzata con una soggettiva indiretta libera, uno dei procedimenti stilistici più amati da P.P.P. – scopriamo dunque com’è la festa.
La descrizione che Pasolini fa della festa già sulla carta è dettagliata, e rivela appieno le conoscenze antropologiche ed etnografiche che, soprattutto grazie alla lettura di Mircea Eliade, l’intellettuale aveva accumulato negli anni. “Un grande coito annuale pubblico, per andare avanti con la specie. La cosa dentro il macello è organizzata un po’ come durante le elezioni: ci sono cioè le sezioni in cui tutti i giovanotti capaci di generare si presentano a fare il loro dovere; e così le ragazze”. Non solo: “c’è un Re della Festa della Fecondazione, e una Regina della Festa della Fecondazione. Intorno a loro più grande la ressa e l’allegria. Essi sono gli ultimi a congiungersi al coro”.
A un primo sguardo, sembra proprio che “a Sodoma, la tolleranza è reale, la mitezza è reale, la comprensione degli altri è reale; e tutto è fondato su una reale democraticità”, al punto che nella città “trovano posto anche minoranze di qualsiasi tipo” – così spiega la Regina di Sodoma a Epifanio, in quanto notabile straniero in visita. Tuttavia, “improvvisamente si sente scoppiare un grande tumulto. La festa ha qui il suo grande risvolto” e inizia a rivelare il suo fondamento sacrificale.
Infatti, anche se le minoranze eterosessuali sono protette – e relegate nel loro specifico quartiere – due giovani, un ragazzo e una ragazza, che qualche scena prima nel film erano stati sorpresi assieme, vengono puniti coram populo nello Stadio Torino di Roma. La punizione consiste in uno stupro di gruppo, di stampo rigidamente omosessuale: prima tre ragazze costringono all’amplesso la ragazza “colpevole”, poi tre ragazzi sodomizzano il maschio. La tolleranza a Sodoma non è così ampia quanto i suoi abitanti credono: chi “esce dalle file”, chi trasgredisce i confini già posti, viene comunque punito.
Epifanio e Nunzio sono sconvolti dalla scena ma, fortunatamente, proprio in quel momento la Stella Cometa ricomincia a muoversi nel cielo: devono andare altrove, a portare i loro doni al Messia nascente. Il Re Mago e il suo servo fanno appena in tempo a uscire da Sodoma, che subito i “fulmini di Dio” colpiscono la città e inizia a divampare un terribile incendio: proprio come nella scena biblica. Epifanio e Nunzio fuggono via, risoluti – memori della fine della moglie di Lot – a non voltarsi neanche indietro, verso la città che brucia.
Se nell’immaginario del Porno-Teo-Kolossal Roma sta a Sodoma, Milano corrisponde invece a Gomorra. E rispetto alla produzione cinematografica e ancor più saggistico-pamphlettistica di Pasolini, la descrizione della Festa della Fecondità di Sodoma sembra legarsi alle sue riflessioni sull’ambiguità violenta del concetto di tolleranza: “la tolleranza, sappilo, è solo e sempre puramente nominale. Non conosco un solo esempio o caso di tolleranza reale”, aveva scritto P.P.P. in uno degli articoli raccolti poi nelle Lettere Luterane. Allo stesso modo, la Milano/Gomorra del Porno-Teo-Kolossal sembra mettere in scena efficacemente le riflessioni di P.P.P. sulle ambiguità del Sessantotto, del consumismo e della “liberazione sessuale” – esemplificate da celebri polemiche che, dalle pagine del Corriere della Sera, Pasolini mosse prima contro l’occupazione di Valle Giulia, poi contro il fenomeno dei “capelloni” in generale, infine contro la pubblicità dei jeans Jesus.
“È una città molto moderna, Gomorra [Milano, appunto]”, riconosce sin da subito la descrizione, “con le sconfinate distese di fabbriche bianche e asettiche”, “ma gli occhi di Epifanio e Nunzio si spalancano soprattutto su alcune apparizioni curiose”, mentre il treno si avvia alla stazione: in parecchi luoghi della città si vedono infatti “interi reggimenti, si può dire, di giovani: tutti nudi. Se ne stanno fermi, nei loro cortili, nelle loro aule, nelle loro piazzette, come in attesa di qualcosa – qualcosa di misterioso. Un mistero, però, ‘civile’: o istituzionale, o religioso, è chiaro”.
Come arrivano in stazione, Epifanio e Nunzio assistono a diversi stupri di gruppi di donne – incluse le figlie di Lot, l’unico altro superstite, assieme a loro, della distruzione di Sodoma, proprio come nel racconto biblico. Il Re Mago e il servo trovano fortunosamente rifugio in un taxi, e il tassista, napoletano come loro, spiega ai due come stanno le cose in quest’immaginifica Milano: “evidentemente – come dalla cappa di piombo del suo cielo – Gomorra è dominata da un furibondo e pazzesco amore per la carne femminile”, e “la cosa più tremenda che possa succedere a Gomorra è quella di essere ‘ricchioni’: quella di amarsi tra uomini”.
La seconda parte del Porno-Teo-Kolossal, quella ambientata a Milano, non è immaginifica quanto il suo segmento romano, ma è forse ancora più precisa nell’instaurare parallelismi e affinità tra il Pasolini regista – o, in questo caso, solo sceneggiatore – e il Pasolini intellettuale, quello che infiammava gli animi scrivendo i suoi editoriali “corsari” sul Corriere della Sera. Come a Sodoma c’è la Festa della Riproduzione, a Gomorra si consuma la Grande Festa dell’Iniziazione, in cui i maschi diciottenni della città devono perdere la verginità: così “assistiamo ad una specie di invasione di Gomorra da parte di questi giovani diciottenni; i quali rappresentano evidentemente una scena mitica, una scena simbolica”, uno stupro centauresco delle donne della città. “Gomorra è l’Utopia della Città della Violenza” e, Pasolini precisa in nota, della “violenza neocapitalistica, che rende i giovani o estremisti o criminali”.
Registi che siano stati specificatamente anche intellettuali ce ne sono stati molto pochi, nella storia del cinema italiano ed europeo: autori cinematografici della stessa generazione di Pasolini, come Fellini o Antonioni, pur essendo molto attenti alle trasformazioni in atto nella società e nella sensibilità italiane non hanno lasciato molto di scritto, men che meno con il rigore politico e la vis polemica che caratterizzava gli articoli di P.P.P. poi confluiti tra gli Scritti corsari e le Lettere luterane. Nella precisazione che a Gomorra, una città eterosessuale fino al parossismo, si considera l’omosessualità come una delle più infamanti colpe, si ritrova la stessa ansia che Pasolini aveva espresso nel suo intervento “corsaro” contro il diritto all’aborto, in cui sosteneva che il consumismo aveva reso il coito eterosessuale un obbligo sociale coatto e inculcato, continuando a tenere ai margini, anzi, fuori dal discorso pubblico, l’omosessualità. E in quella “violenza neocapitalistica, che rende i giovani o estremisti o criminali”, non è difficile rintracciare l’eco dei versi, che pure Pasolini aveva a suo modo ripudiato, de Il PCI ai Giovani!, la poesia contro l’occupazione di Valle Giulia pubblicata nel giugno del Sessantotto.
Detto questo, il finale del secondo atto del Porno-Teo-Klossal è analogo al primo: anche Gomorra viene distrutta, in una scena degna della Bibbia, stavolta non da un fuoco celeste ma da un’improvvisa e rapidissima epidemia di peste. Un terzo atto del film è ambientato a Parigi, trasposta da P.P.P. in Numanzia, una città della Spagna rasa al suolo da Scipione Emiliano ai tempi della Repubblica romana: nella lettura immaginifica di Pasolini, questa Numanzia parigina è una “città socialista” assediata da un non meglio specificato esercito fascista. Anche le vicende belliche della caduta di Numanzia per come sono re-immaginate da Pasolini sono interessanti, ma ciò che conta di più è trovare, tra le righe del trattamento, anche Numanzia definita, stavolta esplicitamente, una “Città-Utopia”.
Dopo che, allontanatisi anche da Numanzia, Epifanio e Nunzio trovano la grotta di Ur/Betlemme vuota, e scoprono da un “ragazzino arabo” che “sì, il Messia è nato, ma è passato tanto tempo, è anche morto e dimenticato”, il servo del Re Mago si rivela essere un angelo, e porta con sé Epifanio verso il Paradiso. Ma come Epifanio non è riuscito a trovare in tempo la grotta dov’è nato il Messia, neanche Nunzio riesce più a trovare il Paradiso. “«Eppure stava qua», fa. «Che? ‘U Paradiso?», chiede Epifanio; ma ha già capito tutto” – è lo scambio tra i due. Allora forse è proprio al grande tema dell’Utopia che dobbiamo aggrapparci, per capire il messaggio profondo del Porno-Teo-Kolossal.
“Essere/con te e contro te; con te nel cuore/in luce, contro te nelle buie viscere”. Sono simbolicamente questi versi, lasciati da Pasolini al cuore della sua raccolta poetica Le ceneri di Gramsci, a rappresentare il travagliato rapporto con l’ideologia marxista, che – pur essendo stato cacciato dal Partito Comunista Italiano per uno scandalo sessuale nel 1952 – Pasolini continuò a professare come sua fino alla fine della sua vita. Tuttavia, nei confronti di Gramsci, il “patrono” del comunismo italiano, e, di riflesso, nei confronti del marxismo tutto, a differenza di altri intellettuali e registi del periodo Pasolini mantenne un atteggiamento eterodosso, pronto a distaccarsi dall’ortodossia comunista in nome della sua personale sensibilità. Particolare rilievo in questo senso assume la sua lotta “antistorica” per la conservazione di una religiosità popolare e, in generale, per la rivalutazione della civiltà contadina, quando, all’indomani del boom economico, si verificò un fenomeno che in seguito proprio a partire da un intervento televisivo di P.P.P. venne parafrasato come “sviluppo senza progresso”.
I primi film di Pasolini, come Accattone e Mamma Roma, descrivevano e fondamentalmente celebravano, anche idealizzandolo, il sottoproletariato romano: dopo che due film apparentemente molto lontani come la sua versione del Vangelo secondo Matteo e il più allegorico Uccellacci e uccellini gli avevano concesso un maggior affondo nell’immaginario religioso, Pasolini aveva iniziato ad avvertire un crescente disagio nei confronti del proletariato urbano e rurale da lui tanto amato, in cui adesso iniziava a vedere i germi di un nascente “conformismo”, di una mimesi nei confronti della borghesia. In un primo tempo, Pasolini si rifugiò nell’ideale di un cinema “inconsumabile”, quasi elitario, addentrandosi per la prima volta in interni borghesi con Teorema, o approfondendo il suo rapporto col mito greco tra l’Edipo re e la Medea interpretata da Maria Callas. Teorema rappresentava una critica selvaggia e beffarda nei confronti dell’universo borghese, che ancora indicava nella religiosità popolare una possibile via di salvezza; l’Edipo re e la Medea rappresentavano più forti sconfinamenti nel mito, non privi tuttavia di riferimenti politici verso il presente.
Nei primi anni settanta, l’atteggiamento di Pasolini verso il cinema e, di riflesso, verso il pubblico, cambiò ancora una volta. Nacque così quella che è passata alla storia come la sua Trilogia della Vita: il Decameron, i Racconti di Canterbury e Il fiore delle Mille e una notte, tre film tratti da altrettante opere letterarie caratterizzati da una sessualità spontanea e leggera, di cui spesso erano portavoce personaggi di classi umili. Il postumo Salò o le Centoventi giornate di Sodoma, anticipato da un’Abiura della Trilogia della Vita, fu l’antitesi a questa visione idilliaca del mondo: un film tutto incentrato sul connubio tra coercizione e sessualità, nella consapevolezza che “nulla è più anarchico del potere”. Un film cupo, riflesso degli spettri personali di P.P.P., che affermava esplicitamente di non riconoscersi più nella cultura e nella società italiane dei mid Seventies – e se da un lato accusava il potere del consumismo di aver “corrotto” anche le classi sociali,un tempo più umili e sincere, dall’altro lato riconosceva anche di aver commesso un errore di idealizzazione nei confronti di un certo sottoproletariato adesso così pronto, almeno ai suoi occhi, a “imborghesirsi”. “Oggi la degenerazione dei corpi e dei sessi ha assunto valore retroattivo. Se coloro che allora erano così e così, hanno potuto diventare ora così e così, vuol dire che lo erano già potenzialmente”, si leggeva nell’Abiura.
Se Salò termina violento e beffardo, con una concatenazione di scene di torture, stupri e suicidi a cui pone fine l’immagine paradossale di due soldati fascisti che improvvisano un valzer, il finale del Porno-Teo-Kolossal sembrava potenzialmente in grado di aggiungere un ultimo spunto di riflessione nei confronti dell’utopia politica, sessuale e umana che Pasolini aveva inseguito per tutta la sua vita. Salò era il film anti-utopista per eccellenza, un film di un pessimismo assoluto, in un crescendo di cupio dissolvi: il finale del Porno-Teo-Kolossal, nell’ammissione che questo Messia non solo era nato e aveva fondato una religione, ma era anche morto e nel tempo era stato dimenticato, si riallacciava alle riflessioni affrante di Pasolini sulla secolarizzazione e sulla “fine del sacro”, eppure continuava a esprimere una flebile speranza anche nelle sue battute finali. O più che una speranza, una consapevolezza. “Come tutte le comete, anche la Cometa che ho seguito io è stata una stronzata, ma senza quella stronzata, Terra, non ti avrei conosciuto…”.
Per certi versi, ci piacerebbe pensare che il cinema di Pasolini si concluda su queste battute, certo più conclusive del valzer stragista che chiude Salò. È difficile stabilire, a dire il vero, quale delle due opere venga “prima”: quella del Porno-Teo-Kolossal, che è un soggetto originale, è certamente anteriore come concezione all’idea di adattare per il cinema il romanzo di De Sade, ma dal momento che questo finale ancora faceva parte della sceneggiatura inviata a Eduardo De Filippo nel settembre del ’75, si può immaginare che questa sarebbe rimasta davvero la scena conclusiva del Porno-Teo-Kolossal, se Pasolini non fosse stato ucciso la notte del 2 novembre e fosse riuscito a girare il film. Si dice spesso che la storia non si fa coi “se”, e neanche si può tracciare così un profilo definitivo di un intellettuale o di un artista: ma certo è che la lettura dell’irrealizzato Porno-Teo-Kolossal aggiunge una nuova e importante prospettiva sul manifesto “pessimismo” dell’ultimo Pasolini. E forse non è un caso che l’ultimissima battuta del trattamento dica proprio: “«embè, sor Epifà, nun esiste la fine. Aspettiamo. Qualche cosa succederà»”. Come a dire che, nonostante tutto, nonostante tutti i fallimenti, le disillusioni, le rivoluzioni tramutatesi in piatto conformismo, c’è ancora qualcosa da scommettere, sulla Terra e sugli umani. È questo, forse, a prescindere da ogni Messia, il segreto della Cometa.