NC-80
11.12.2021
È già passato un anno dalla scomparsa di Kim Ki-duk. Una scomparsa misteriosa, avvenuta a causa del Covid mentre il regista si trovava in Lettonia, si dice, per comprare una casa in un luogo in cui avrebbe dovuto girare un film. Si è dileguato, come molti suoi personaggi, lontano dal mondo e lontano dalla Corea che da anni lo aveva disconosciuto a seguito delle accuse di molestie che gli erano state rivolte. Si è dileguato proprio nel momento in cui il cinema coreano, che lui ha contribuito a lanciare a livello internazionale partecipando sin dagli anni ’90 ai principali festival cinematografici europei, ha raggiunto l’apice del proprio successo con la vittoria agli Oscar di Parasite. Eppure, ad accomunare Kim Ki-duk ad altri esponenti del cinema coreano c’è solo la nazionalità e, al massimo, la tangenzialità di alcune tematiche.
Kim Ki-duk è stato infatti un regista unico, in grado di dare un’impronta netta ai suoi film sin dal suo esordio, Coccodrillo (1996), spingendola poi a limiti estremi, fra molti successi e altrettanti fallimenti. Silenzi e solitudine, violenza e amore, tenerezza e crudezza, eros e thanatos: questi gli argomenti principali del cinema di Kim Ki-duk. Un cinema che ha sempre giocato su violenti contrasti e stordenti antinomie per creare poesia. Una poesia pura, perché nata dall’opposizione, una poesia eterea, come quella di Ferro 3 - La casa vuota (2004), una poesia sublime, come quella di Primavera, estate, autunno, inverno… E ancora primavera (2003). Una poesia espressa attraverso un linguaggio visivo metaforico, capace di essere delicato anche quando comunica le emozioni più crude o morbose e capace di spogliarsi di ogni valenza simbolica quando la denuncia del male che attraversa la società, insito nell’uomo, si fa esplicita, a squarciare con un urlo gelido la coltre di silenzio.
Un urlo che, con il progredire degli anni, è arrivato ad assorbire i silenzi della prima fase della carriera del regista e a rendere il suo cinema espressamente politico, un cinema che chiede allo spettatore una prova di forza, quasi un atto di fede. Film come Pietà (2012), Moebius (2013), Stop (2015), Il prigioniero coreano (2016), sono solo ultime emanazioni di quell’urlo, di un’insofferenza nei confronti del male e della violenza che attanagliano la società contemporanea. Una violenza che nei film di Kim Ki-duk è, prima che fisica, psicologica. Una violenza in grado di far provare dolore allo spettatore per la naturalezza con cui viene costruita. Spesso nelle sue opere si vedono degli schiaffi, schiaffi che feriscono i personaggi, ma che colpiscono anche lo spettatore in quanto rivelative emanazioni di un’insofferenza, di una frustrazione e di un malessere, che Kim Ki-duk è stato sempre, sino al suo ultimo Dissolve (2019), in grado di costruire con grande precisione.
Al dolore e al male, dicevamo, il regista ha spesso offerto catarsi grazie a immagini di grande poesia e forza sublimante. Anche in film come Address Unknown (2001) o The Coast Guard (2002), accomunati dal ritrarre l’alienazione dei militari e di chi vive vicino a zone di guerra, troviamo sempre il tentativo da parte del regista di dare trasfigurazione al male attraverso un’immagine che sia al contempo metaforica ed esorcizzante. La sua formazione pittorica si è d’altronde evidenziata nel corso della carriera sia nella tendenza alla sospensione statica di molte inquadrature, sia nella cura per la loro composizione. Non è certamente un caso che moltissime siano le immagini tratte dai suoi film ad essere ancora oggi pubblicate ovunque sui social, così come non è casuale che, ricordando emblematiche inquadrature, si sia in grado di risalire immediatamente al senso ultimo del suo film. Come nei migliori dipinti e nella migliore poesia, infatti, il significante non arriva mai a fagocitare il significato, ma si fa pulsante, vivo, capace di entrare in relazione con l’animo dello spettatore e lì di insediarsi a lungo.
Il cinema di Kim Ki-duk non è stato un mero ripetersi stanco di canovacci già rodati, nonostante temi e ambienti di molti suoi film siano simili. L’arte del regista coreano ha sempre messo alla prova se stessa, fino a spingere ai limiti massimi e alla saturazione riflessioni etiche e stilistiche. Ecco perché anche i suoi film meno riusciti sono comunque meritevoli di interesse perché testimonianze di un lavoro sulla forma in continuo divenire.
Per tutto ciò la scomparsa improvvisa, a soli 59 anni, di Kim Ki-duk ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo della Settima Arte. I suoi ultimi film sono tutti dei tentativi di reinventarsi, partendo da alcuni punti cardine della propria poetica, ma adattandoli a una visione più matura, e forse anche più cinica, del mondo. Kim Ki-duk ora non c’è più ma vive nei film che ci ha lasciato. Splendidi e dolenti ritratti di solitudine e di alienazione di individui alle prese con la contemporaneità. Testimonianze dell’animo di un artista irrequieto che ha trovato pace e sfogo nei suoi film e che continuerà a incantare per sempre.
NC-80
11.12.2021
È già passato un anno dalla scomparsa di Kim Ki-duk. Una scomparsa misteriosa, avvenuta a causa del Covid mentre il regista si trovava in Lettonia, si dice, per comprare una casa in un luogo in cui avrebbe dovuto girare un film. Si è dileguato, come molti suoi personaggi, lontano dal mondo e lontano dalla Corea che da anni lo aveva disconosciuto a seguito delle accuse di molestie che gli erano state rivolte. Si è dileguato proprio nel momento in cui il cinema coreano, che lui ha contribuito a lanciare a livello internazionale partecipando sin dagli anni ’90 ai principali festival cinematografici europei, ha raggiunto l’apice del proprio successo con la vittoria agli Oscar di Parasite. Eppure, ad accomunare Kim Ki-duk ad altri esponenti del cinema coreano c’è solo la nazionalità e, al massimo, la tangenzialità di alcune tematiche.
Kim Ki-duk è stato infatti un regista unico, in grado di dare un’impronta netta ai suoi film sin dal suo esordio, Coccodrillo (1996), spingendola poi a limiti estremi, fra molti successi e altrettanti fallimenti. Silenzi e solitudine, violenza e amore, tenerezza e crudezza, eros e thanatos: questi gli argomenti principali del cinema di Kim Ki-duk. Un cinema che ha sempre giocato su violenti contrasti e stordenti antinomie per creare poesia. Una poesia pura, perché nata dall’opposizione, una poesia eterea, come quella di Ferro 3 - La casa vuota (2004), una poesia sublime, come quella di Primavera, estate, autunno, inverno… E ancora primavera (2003). Una poesia espressa attraverso un linguaggio visivo metaforico, capace di essere delicato anche quando comunica le emozioni più crude o morbose e capace di spogliarsi di ogni valenza simbolica quando la denuncia del male che attraversa la società, insito nell’uomo, si fa esplicita, a squarciare con un urlo gelido la coltre di silenzio.
Un urlo che, con il progredire degli anni, è arrivato ad assorbire i silenzi della prima fase della carriera del regista e a rendere il suo cinema espressamente politico, un cinema che chiede allo spettatore una prova di forza, quasi un atto di fede. Film come Pietà (2012), Moebius (2013), Stop (2015), Il prigioniero coreano (2016), sono solo ultime emanazioni di quell’urlo, di un’insofferenza nei confronti del male e della violenza che attanagliano la società contemporanea. Una violenza che nei film di Kim Ki-duk è, prima che fisica, psicologica. Una violenza in grado di far provare dolore allo spettatore per la naturalezza con cui viene costruita. Spesso nelle sue opere si vedono degli schiaffi, schiaffi che feriscono i personaggi, ma che colpiscono anche lo spettatore in quanto rivelative emanazioni di un’insofferenza, di una frustrazione e di un malessere, che Kim Ki-duk è stato sempre, sino al suo ultimo Dissolve (2019), in grado di costruire con grande precisione.
Al dolore e al male, dicevamo, il regista ha spesso offerto catarsi grazie a immagini di grande poesia e forza sublimante. Anche in film come Address Unknown (2001) o The Coast Guard (2002), accomunati dal ritrarre l’alienazione dei militari e di chi vive vicino a zone di guerra, troviamo sempre il tentativo da parte del regista di dare trasfigurazione al male attraverso un’immagine che sia al contempo metaforica ed esorcizzante. La sua formazione pittorica si è d’altronde evidenziata nel corso della carriera sia nella tendenza alla sospensione statica di molte inquadrature, sia nella cura per la loro composizione. Non è certamente un caso che moltissime siano le immagini tratte dai suoi film ad essere ancora oggi pubblicate ovunque sui social, così come non è casuale che, ricordando emblematiche inquadrature, si sia in grado di risalire immediatamente al senso ultimo del suo film. Come nei migliori dipinti e nella migliore poesia, infatti, il significante non arriva mai a fagocitare il significato, ma si fa pulsante, vivo, capace di entrare in relazione con l’animo dello spettatore e lì di insediarsi a lungo.
Il cinema di Kim Ki-duk non è stato un mero ripetersi stanco di canovacci già rodati, nonostante temi e ambienti di molti suoi film siano simili. L’arte del regista coreano ha sempre messo alla prova se stessa, fino a spingere ai limiti massimi e alla saturazione riflessioni etiche e stilistiche. Ecco perché anche i suoi film meno riusciti sono comunque meritevoli di interesse perché testimonianze di un lavoro sulla forma in continuo divenire.
Per tutto ciò la scomparsa improvvisa, a soli 59 anni, di Kim Ki-duk ha lasciato un vuoto incolmabile nel mondo della Settima Arte. I suoi ultimi film sono tutti dei tentativi di reinventarsi, partendo da alcuni punti cardine della propria poetica, ma adattandoli a una visione più matura, e forse anche più cinica, del mondo. Kim Ki-duk ora non c’è più ma vive nei film che ci ha lasciato. Splendidi e dolenti ritratti di solitudine e di alienazione di individui alle prese con la contemporaneità. Testimonianze dell’animo di un artista irrequieto che ha trovato pace e sfogo nei suoi film e che continuerà a incantare per sempre.