TR-98
13.04.2024
You must remember: space, not time. Time is a fiction invented by men. Potremmo partire da questa citazione tratta da Eureka, ultimo film di Lisandro Alonso, per descrivere al meglio uno dei cardini della poetica del regista argentino: l’eccesso. Nato a Buenos Aires, il 2 giugno del 1975, Lisandro è cresciuto in una famiglia composta perlopiù da maschi. Dopo aver frequentato un’apposita scuola dove ha potuto conoscere il lavoro di cineasti come Fernando Birri - Tire dié (1960) e Los inundados (1961), sono due film-chiave nella formazione del regista - e a seguito della produzione di un cortometraggio intitolato Dos en la vereda (1995), Alonso esordisce nel lungometraggio con La libertad (2001).
A differenza dell’attenzione conquistata con Los muertos (2004), lavoro più inquadrato all’interno di un’ottica internazionale e festivaliera, il primo film di Lisandro Alonso è più di quanto lontano si possa immaginare da un prodotto pensato per le platee estere. Nonostante la quantità di talenti emergenti - come Pablo Trapero, Martin Rejtman o Lucrecia Martel, per fare qualche esempio - il nuovo cinema argentino, all’inizio del ventunesimo secolo, è stato condizionato dalla necessità di presentare un’alternativa ad uno scenario mainstream che, per inseguire i finanziamenti statali, non si preoccupava di raccontare le difficoltà di una società segnata da una grave crisi economica.
Per comprendere la filmografia di un autore così complesso dobbiamo necessariamente compiere un cammino a ritroso e tornare in Argentina, nel 2001, in modo da focalizzarci su La libertad. La trama della pellicola racconta un giorno nell’esistenza di Misael (Misael Saavedra), falegname che vive nelle pampas - tutte quelle zone pianeggianti fertili collocate principalmente sulla costa orientale dell’America meridionale. L'intenzione portata avanti dal regista criollo è quella di un pedinamento della vita di Misael, un’operazione che, da parte dello spettatore, potrebbe essere percepita come una lettura documentaria. Ma Saavedra, l’interprete principale dell’opera, in realtà, fa il benzinaio e proviene dal Cile. Questo primo dato ci aiuta a comprendere una parte del lavoro di Alonso, ovvero il contrasto tra i registri finzionali e documentari. Già dai titoli di testa, infatti, il regista inserisce in sottofondo un brano dei Flormaleva, una band di Buenos Aires (ancora attiva) che propone un mix tra rock e post-punk, sintomo di una volontà di far percepire al pubblico la presenza di un contrasto di fondo.
Il passaggio successivo riguarda invece la regia: la giornata di Misael viene ripresa quasi esclusivamente attraverso pochi long takes, e proprio qui si colloca, forse, il vero equilibrio del film, ovvero nella gestione registica degli spazi attraverso la figura del protagonista. A supporto di questa tesi, ci è necessario tirare in ballo un articolo del 1977 firmato da Kristin Thompson e dedicato al concetto di “eccesso cinematografico”. Questa nozione, originariamente pensata in relazione ad un approccio di stampo classico al cinema, riguarda tutti gli elementi considerati trascurabili nell’economia di un film - neglected è l’aggettivo utilizzato da Thompson. Trascurabili perché non consentirebbero al pubblico di comprendere adeguatamente la trama principale. Per capire meglio questo discorso, è dunque necessario tenere a mente che ogni inquadratura è “riducibile” in termini di informazione da fornire allo spettatore.
In tal senso, Alonso sviluppa il proprio discorso a partire da elementi spesso non considerati in un prodotto medio partorito da Hollywood, per dar vita ad uno script parallelo in grado di rivelare dati significativi sull’intreccio principale. Questo script parallelo parte proprio da uno stacco ritardato del singolo take che lascia il campo a dei tempi morti della narrazione - ad esempio la sequenza in cui la macchina da presa, impegnata in un movimento panoramico, abbandona il movimento di Misasel per esplorare le pampas. Esaurita dunque l’azione principale di una determinata sequenza - Misael che taglia gli alberi, Misael che contratta la vendita dei suoi prodotti e via dicendo - Alonso crea un vuoto e ingaggia uno scambio con il proprio pubblico; a suo modo, lo spettatore reagirà con il film partendo da una serie di informazioni, tra le quali spicca la presenza della macchina da presa che si fa incarnazione di uno sguardo che rimaneggia la realtà.
Rielaborare il reale, seguendo un’affascinante rilettura che lo studioso Richard Rushton compie del concetto di realismo enunciato da André Bazin, fa sì che Alonso strutturi il suo personale mode of life: non mera riproduzione della realtà, ma ricerca di una forma autentica di sguardo sul reale che, attraverso micro-azioni (singole attività, eventi ordinari), disintegra la trama principale sorretta da un fatto drammatico. Attraverso questo procedimento lo spettatore inizia a comprendere veramente cosa significhi vivere al di fuori della società civilizzata per il personaggio interpretato da Saavedra. Come sostiene Francisco Bringole nel suo Reclaiming the Cinematic. Lisandro Alonso’s Aesthetics of Excess in Liverpool, il regista fa sì che l’ambientazione (setting) - luogo subordinato alla narrazione - diventi paesaggio (landscape) - luogo che richiede allo spettatore di prestare attenzione su una serie di elementi che impediscono alla trama di progredire.
Profondamente influenzato da un metodo di lavoro che inizia molto tempo prima delle riprese (che in media il cineasta ha sempre risolto in breve tempo, in primis grazie all’utilizzo della pellicola), con fasi di studio in loco e a contatto con i potenziali attori dei suoi film, il cinema di Alonso risente fortemente di un approccio antropologico e osservazionale. Nei successivi Los muertos e Liverpool (2008), il regista rimane entro i limiti dell’Argentina. Nel primo caso viene affrontata la zona del fiume Paraná - per la precisione sul versante che interessa la provincia di Corrientes, dove l’acqua scorre più lentamente rispetto al versante di Misiones - mentre nel secondo Tolhuin, una della città più vicine all’estremo Sud del paese, nella provincia della Terra del Fuoco. Ad essere posti al centro di questi due progetti (che costituiranno una trilogia con La libertad) troviamo di nuovo degli attori non professionisti: Argentino Vargas (nel ruolo di Vargas) e Juan Fernández (nel ruolo di Farrel).
I protagonisti partono da due intenzioni assimilabili: un viaggio per ritrovare un familiare. Per Vargas l’uscita di prigione, a seguito di una pena scontata per duplice fratricidio, diventa un’occasione per rivedere sua figlia; per Farrel, invece, una sosta di due giorni della nave mercantile sulla quale lavora nel porto di Ushuaia si trasforma in un momento per ritrovare la madre (gravemente malata di Alzheimer e allettata) e la figlia (affetta da un ritardo mentale). In questi due titoli, raffiguranti ancora scenari surreali per uno spettatore occidentale ben inserito nel contesto contemporaneo civilizzato, Alonso ha la possibilità di approfondire un discorso di matrice politica (perché già mostrare queste vite al limite della civiltà rappresenta un atto politico) che sfocia in una disamina sui temi della solitudine e la mancanza di comunicazione.
Vargas e Farrel (personaggio caratterizzato da un attaccamento non comune alla bottiglia) parlano pochissimo durante le loro traversate e interagiscono lo stretto necessario con le poche persone che incontrano. I loro silenzi sono un ostacolo per una lettura più completa della loro personalità. Registicamente Alonso li colloca in spazi limitrofi delle inquadrature, e spesso, come nell’intera parte della prigione di Los muertos, sono i protagonisti ad essere raggiunti per un dialogo. A riprova di un posto nel mondo da ritrovare, o da perdere definitivamente, i viaggi intrapresi verso casa lasceranno più dubbi che certezze: Vargas incontrerà, in un villaggio boschivo remoto e dopo aver attraversato in canoa il fiume, due ragazzini di cui non conosce l’identità (i suoi nipoti?); Farrel non verrà riconosciuto da sua madre e, dopo aver lasciato un portachiavi (rosso e con incisa la parola “Liverpool”) e dei soldi a sua figlia Analìa, fuggirà.
Apparentemente simili ad un primo sguardo all’esordio La libertad, Los muertos e Liverpool estendono quella che, a questo punto, potremmo definire una poetica dell’eccesso, sia registicamente che a livello di montaggio. Oltre al ricorrente utilizzo di long takes (che potrebbero anche suscitare noia, a detta dello stesso Alonso), ciò che più emerge in questi due titoli è un sottile lavoro per immagini che riporta la mente alle origini del cinema. Non è un segreto che per il regista argentino sia l’immagine, a discapito della parola, a contare, così come la sceneggiatura non sia un testo sacro non questionabile una volta giunto sul set. La diretta traduzione di questi pensieri è un rimando al cinema dei Lumiére (anche banalmente per la possibilità concessa alle immagini, di fronte ad una quasi-assenza di dialogo, di respirare) e una rielaborazione in chiave contemporanea dell’effetto Kulešov. Il lavoro di rielaborazione dell’effetto, preferito da Alonso alle innovazioni iper-cinetiche apportate da Ejzenstejn all’arte del montaggio, viene evidenziato tramite due aspetti: la relazione che si instaura tra inquadrature lunghe, in grado di far emergere più informazione sul mondo narrato, e l’assenza di raccordi sugli sguardi degli attori.
In particolar modo in Liverpool, il regista sceglie raramente un controcampo o un movimento sull’asse dei centottanta gradi con uno stacco di montaggio per mostrarci ciò che viene visto da Farrel. Lo spettatore nella pellicola non viene mai guidato, è lasciato libero di esplorare, muoversi visivamente all’interno di uno spazio sterminato che, semmai, finisce per essere perlustrato a sua volta con movimenti di macchina maestosi (la salita sul retro del camion di Farrel, ripresa interamente in un take che parte da un’inquadratura fissa). Una costruzione del genere, come nel più perfetto dei meccanismi a orologeria (senza risultare né troppo calcolato né freddo sull’aspetto emotivo), esplode nella suggestione coinvolgente dell’ultima parte del film: la fuga di Farrel. Il marinaio, come anticipato, non viene riconosciuto da sua madre, mentre sua figlia insistentemente chiede in prestito del denaro. In quell’esatto momento il film si ferma, ai limiti di Tolhuin, e osserva la lunga passeggiata che porta definitivamente fuori campo Farrel, finendo per dedicare gli ultimi, affascinanti, minuti ad un’esplorazione della vita in questa piccola comunità e allo sguardo prolungato di Analìa al porta-chiave regalatole dal padre - simbolo di un mondo conosciuto da Farrel (Liverpool ha, effettivamente, un porto) e segnale di contatto tra province remote come la Terra del Fuoco e il resto del mondo.
Un oggetto simile lo troviamo anche nel finale di Los muertos: una action figure, raffigurante un giocatore di calcio con la tradizionale maglia albiceleste della nazionale argentina, che verrà posata a terra da Vargas prima di entrare in tenda con i due bambini appena incontrati. In un’altra affascinante sequenza, dove Vargas depone il machete visto ad inizio film (una resa, un primo segno d’affetto verso quelli che sembrerebbero essere i suoi nipoti), Alonso lascia parlare il fuori campo, ciò che non viene più visto e ritenuto utile da uno spettatore casuale, trasformando in informazione utile ciò che verrebbe ritenuto eccesso.
Lo spiccato gusto contemporaneo di questa serie di operazioni o intuizioni sta anche nella completa libertà lasciata al pubblico. Vedere un film di Lisandro Alonso, come dimostreranno ulteriormente gli ultimi capitoli della sua filmografia - Fantasma (2006), Jauja (2014) e Eureka (2023) - non è una sfida, ma un’esperienza di contatto attiva per lo spettatore con il cinema. Fantasma parla proprio di questo, ironicamente e, allo stesso tempo, in maniera molto lucida. Il film, definibile per un pelo lungometraggio (sessantatré minuti), esce nel 2006 e vede Misael Saavedra e Argentino Vargas, nei ruoli di loro stessi, vagare per un cinema di Buenos Aires (il Teatro San Martín) durante la première di Los muertos.
Fantasma – nomen omen – mostra allo spettatore un viaggio dallo sviluppo perlopiù verticale all’interno di una struttura che cattura i suoi personaggi - l’incipit, con Vargas bloccato dietro l’ennesimo carcere; l’esterno del multisala che resta fuori campo e non viene mai inquadrato se non dall’interno - in un’esperienza nuovamente dilatata nel tempo di un long take, negli spazi remoti e segreti di una sala cinematografica. Mentre Vargas assisterà alla proiezione del film - assieme ad altre due persone - Saavedra vagherà per il cinema, al limite tra l’essere una presenza fantasmatica e una persona estranea a quel contesto. E forse, mai come in questo caso, la presenza di attori non professionisti collocati in un contesto anomalo permette al disegno registico di Alonso di dispiegarsi al massimo delle sue potenzialità. Vargas e Saavedra non hanno mai frequentato un luogo come la sala cinematografica, non sanno né leggere né scrivere, e finiranno per provare un’attrazione per lo schermo e per perdersi all’interno della struttura.
Fantasma è un’operazione di stampo riflessivo proprio perché, attraverso un paesaggio di segno opposto rispetto agli altri titoli del cineasta, mette in scena il meccanismo con il quale si articola lo sguardo della macchina da presa. E di nuovo, lasciare campo allo spettatore (attraverso la ripetuta ricerca del tempo morto e dei vuoti nella narrazione) permette allo stesso Alonso di porsi delle domande circa l’oggetto e i soggetti di studio, senza necessariamente fornire una risposta a chi sta osservando.
Dopo aver partecipato nel 2009 al progetto The Complete Letters, nel quale lavora ad un episodio di natura epistolare realizzato a quattro mani con Albert Serra, un salto di cinque anni ci fa giungere a Jauja, il primo contatto di Alonso con il film storico e di genere. Il riferimento è il western - molte sono le somiglianze con The Searchers (Sentieri Selvaggi, 1956) di John Ford - mentre l’ambientazione è di nuovo la provincia della Terra del Fuoco. Circa la composizione della troupe e del cast, tre sono le personalità da segnalare: Timo Salminen, storico direttore della fotografia di Aki Kaurismäki; Fabián Casas, poeta che collaborerà alla sceneggiatura; Viggo Mortensen interprete del capitano danese Gunnar Dinesen e autore delle musiche, supportato dal polistrumentista statunitense Buckethead. L’apporto di questi talent apparentemente lascerebbe considerare un definitivo allontanamento del cinema di Alonso dallo sguardo documentario, dall’utilizzo di maestranze non professioniste e da un metodo di lavoro che in primo luogo punta a stabilire un contatto con comunità lontane dalla civiltà.
In parte ciò corrisponde al vero, ma Jauja è anche il proseguimento di un’idea di cinema sempre più chiara. Alonso dissemina eccesso e contrasti all’interno della pellicola, a partire dalle incongruenze con la Storia nella trama (il Regno di Danimarca non si è mai spinto così a Sud, tantomeno con desiderio di conquista). La Patagonia battuta dall’uomo è terra disonorata, calpestata e da ammaestrare, come voluto dall’esercito locale e danese, ma questo paesaggio conosciuto dagli antichi come Jauja (in realtà il nome di una città peruviana) è solo un apparente paradiso. Salminen suggerisce ulteriori contrasti disegnando controluce anti-naturalistici e dissonanti (cui si aggiunge un passaggio di Alonso al formato 1,37:1) che anticipano il viaggio spazio-temporale di Viggo Mortensen. Infine, si giunge a Casas, che con il suo apporto allo script si lascia trasportare dalle sensazioni, dalla poesia (il cane, la caverna, il giocattolo) rendendo Jauja una terra sconfinata al di fuori del mondo, lontana da riferimenti geografici, sociali e politici.
A differenza dei capitoli precedenti, Jauja attesta una volontà di spingersi verso la narrazione. Il viaggio intrapreso da Dinesen non procede a ritroso e verso casa, come tentato dai vari Vargas o Farrel, e la fuga d’amore di sua figlia Ingeborg - il rapporto tra i due ricorda quello dei personaggi di Aguirre. Furore di dio (1972) di Werner Herzog - lo porta al confronto con se stesso, solo nella terra degli indios e di Zuluaga, disertore sanguinario che sembra aver abbracciato la wilderness. Di fronte a titoli come Jauja non possono esserci certezze se non quelle di seguire il flusso di un tempo rallentato, che permette a noi stessi di interrogarci sul nostro status di spettatori e di esseri umani. Ciò che viene mantenuto in tutti i titoli di Alonso, specialmente in quest’ultimo, come testimonia l’enigmatico finale ambientato nel presente - il cortocircuito creato dalla statuetta del soldato che torna in entrambi i mondi ci fa interrogare se tutto quello a cui abbiamo assistito è stato un sogno di Ingeborg - è la trasmissione di un segreto che non verrà mai svelato.
Giungiamo, dunque, ad Eureka, film girato nove anni dopo Jauja. Alonso ha più volte raccontato come in questo lungo periodo si sia dedicato allo studio di tutto quel materiale che sarebbe poi confluito nel lungometraggio, alla sua famiglia e ad una pausa di riflessione dal cinema. Quest’ultimo dato è interessante, poiché fa ragionare sull’esigenza di utilizzare il mezzo cinematografico solo quando è necessario, soprattutto nell’arco di una carriera che si è evoluta in termini di ambizione e che è sempre rimasta fedele ad un preciso messaggio o visione del mondo. Eureka è un racconto sui nativi americani, declinato attraverso tre episodi che partono da un film nel film. Oltre a differenziarsi per le location - il vecchio west cinematografico ricreato in un deserto vicino Almería, la riserva di Pine Ridge in South Dakota e il Brasile ricostruito a Oaxaca, in Messico - la pellicola distingue i suoi tre blocchi anche attraverso tre aspect ratio differenti (in ordine: 1,37:1, 1,85:1 e 1,64:1).
Lo spunto per approfondire l’immaginario e la vita dei nativi americani, accennata in Jauja, non poteva che partire dal western in bianco e nero, dalla finzione portata su schermo di nuovo da Viggo Mortensen (e Chiara Mastroianni) su tutti. Ma ancora, Alonso rompe gli schemi strizzando l’occhio agli stereotipi di genere (gli indiani e i loro canti rituali; l’establishing shot del saloon, dove atti promiscui si succedono al rumore degli spari che non sembrano mai fermarsi). Il brusco passaggio alla realtà - una carrellata a retrocedere che rivela come l'episodio appena mostrato sia soltanto un film trasmesso alla televisione - sancisce il passaggio al secondo episodio e trasporta lo spettatore nella vita della comunità della riserva di Pine Ridge.
Il quadro che emerge in questo secondo atto - a livello di screen-time il più lungo, in un’opera che supera le due ore e venti - è dei più desolanti: Alonso ritorna all’approccio dei primi titoli, descrivendo, attraverso i personaggi di Alaina (Alaina Clifford) e Sadie (Sadie Lapoint), una serie di micro-azioni quotidiane inserite in un contesto di disagio e solitudine (incidenti domestici, abuso di droghe) dove non c’è spazio per la rassicurazione o per la speranza nelle generazioni future. È sul finire di questo episodio che trova spazio la simbolica citazione riportata in apertura, in un dialogo che trova coinvolti Sadie e suo nonno, figura sciamanica che tenta di porre rimedio alla perdurante depressione della ragazza.
Se nei film di Alonso sono l’immagine e la regia a suggerire ciò che potrebbe avvenire, questa battuta è la sentenza su uno sguardo sul mondo: in quanto esseri umani siamo un riflesso dell’ambiente nel quale ci muoviamo, fonte delle nostre vittorie o sconfitte personali. Tutto, dunque, è relativo. A farci da guida nell’ultimo episodio di Eureka, è infine una cicogna jabiru (o cauauá, come viene identificata in Amazzonia), che ci condurrà nella foresta amazzonica degli anni Settanta donandoci l’occasione di conoscere i sogni e le vite quotidiane di una tribù locale che vive allo stato brado, a pochi passi da un gruppo di cercatori d’oro che sfrutta l’ignoranza e la povertà degli indigeni per derubare la foresta delle proprie risorse (una tipologia di sequenza che Alonso propone anche in Jauja).
Figlio di un contesto eterogeneo e vitale sulla scena internazionale, il cinema di Lisandro Alonso si presenta come la rara alternativa di un mondo cinematografico che rispecchia le nuove abitudini dell’uomo contemporaneo, sempre online e perennemente alla ricerca di nuovi stimoli che lo intrattengano. Un utilizzo non per forza innovativo del mezzo, che prende le mosse dall’elemento umano che osserva. Ma soprattutto, un cinema che non ha la pretesa di avere certezze, ma il cui scopo è quello di suggestionare - attraverso le sue immagini e i suoi interrogativi - lo spettatore, trascinandolo nelle storie raccontate sullo schermo.
TR-98
13.04.2024
You must remember: space, not time. Time is a fiction invented by men. Potremmo partire da questa citazione tratta da Eureka, ultimo film di Lisandro Alonso, per descrivere al meglio uno dei cardini della poetica del regista argentino: l’eccesso. Nato a Buenos Aires, il 2 giugno del 1975, Lisandro è cresciuto in una famiglia composta perlopiù da maschi. Dopo aver frequentato un’apposita scuola dove ha potuto conoscere il lavoro di cineasti come Fernando Birri - Tire dié (1960) e Los inundados (1961), sono due film-chiave nella formazione del regista - e a seguito della produzione di un cortometraggio intitolato Dos en la vereda (1995), Alonso esordisce nel lungometraggio con La libertad (2001).
A differenza dell’attenzione conquistata con Los muertos (2004), lavoro più inquadrato all’interno di un’ottica internazionale e festivaliera, il primo film di Lisandro Alonso è più di quanto lontano si possa immaginare da un prodotto pensato per le platee estere. Nonostante la quantità di talenti emergenti - come Pablo Trapero, Martin Rejtman o Lucrecia Martel, per fare qualche esempio - il nuovo cinema argentino, all’inizio del ventunesimo secolo, è stato condizionato dalla necessità di presentare un’alternativa ad uno scenario mainstream che, per inseguire i finanziamenti statali, non si preoccupava di raccontare le difficoltà di una società segnata da una grave crisi economica.
Per comprendere la filmografia di un autore così complesso dobbiamo necessariamente compiere un cammino a ritroso e tornare in Argentina, nel 2001, in modo da focalizzarci su La libertad. La trama della pellicola racconta un giorno nell’esistenza di Misael (Misael Saavedra), falegname che vive nelle pampas - tutte quelle zone pianeggianti fertili collocate principalmente sulla costa orientale dell’America meridionale. L'intenzione portata avanti dal regista criollo è quella di un pedinamento della vita di Misael, un’operazione che, da parte dello spettatore, potrebbe essere percepita come una lettura documentaria. Ma Saavedra, l’interprete principale dell’opera, in realtà, fa il benzinaio e proviene dal Cile. Questo primo dato ci aiuta a comprendere una parte del lavoro di Alonso, ovvero il contrasto tra i registri finzionali e documentari. Già dai titoli di testa, infatti, il regista inserisce in sottofondo un brano dei Flormaleva, una band di Buenos Aires (ancora attiva) che propone un mix tra rock e post-punk, sintomo di una volontà di far percepire al pubblico la presenza di un contrasto di fondo.
Il passaggio successivo riguarda invece la regia: la giornata di Misael viene ripresa quasi esclusivamente attraverso pochi long takes, e proprio qui si colloca, forse, il vero equilibrio del film, ovvero nella gestione registica degli spazi attraverso la figura del protagonista. A supporto di questa tesi, ci è necessario tirare in ballo un articolo del 1977 firmato da Kristin Thompson e dedicato al concetto di “eccesso cinematografico”. Questa nozione, originariamente pensata in relazione ad un approccio di stampo classico al cinema, riguarda tutti gli elementi considerati trascurabili nell’economia di un film - neglected è l’aggettivo utilizzato da Thompson. Trascurabili perché non consentirebbero al pubblico di comprendere adeguatamente la trama principale. Per capire meglio questo discorso, è dunque necessario tenere a mente che ogni inquadratura è “riducibile” in termini di informazione da fornire allo spettatore.
In tal senso, Alonso sviluppa il proprio discorso a partire da elementi spesso non considerati in un prodotto medio partorito da Hollywood, per dar vita ad uno script parallelo in grado di rivelare dati significativi sull’intreccio principale. Questo script parallelo parte proprio da uno stacco ritardato del singolo take che lascia il campo a dei tempi morti della narrazione - ad esempio la sequenza in cui la macchina da presa, impegnata in un movimento panoramico, abbandona il movimento di Misasel per esplorare le pampas. Esaurita dunque l’azione principale di una determinata sequenza - Misael che taglia gli alberi, Misael che contratta la vendita dei suoi prodotti e via dicendo - Alonso crea un vuoto e ingaggia uno scambio con il proprio pubblico; a suo modo, lo spettatore reagirà con il film partendo da una serie di informazioni, tra le quali spicca la presenza della macchina da presa che si fa incarnazione di uno sguardo che rimaneggia la realtà.
Rielaborare il reale, seguendo un’affascinante rilettura che lo studioso Richard Rushton compie del concetto di realismo enunciato da André Bazin, fa sì che Alonso strutturi il suo personale mode of life: non mera riproduzione della realtà, ma ricerca di una forma autentica di sguardo sul reale che, attraverso micro-azioni (singole attività, eventi ordinari), disintegra la trama principale sorretta da un fatto drammatico. Attraverso questo procedimento lo spettatore inizia a comprendere veramente cosa significhi vivere al di fuori della società civilizzata per il personaggio interpretato da Saavedra. Come sostiene Francisco Bringole nel suo Reclaiming the Cinematic. Lisandro Alonso’s Aesthetics of Excess in Liverpool, il regista fa sì che l’ambientazione (setting) - luogo subordinato alla narrazione - diventi paesaggio (landscape) - luogo che richiede allo spettatore di prestare attenzione su una serie di elementi che impediscono alla trama di progredire.
Profondamente influenzato da un metodo di lavoro che inizia molto tempo prima delle riprese (che in media il cineasta ha sempre risolto in breve tempo, in primis grazie all’utilizzo della pellicola), con fasi di studio in loco e a contatto con i potenziali attori dei suoi film, il cinema di Alonso risente fortemente di un approccio antropologico e osservazionale. Nei successivi Los muertos e Liverpool (2008), il regista rimane entro i limiti dell’Argentina. Nel primo caso viene affrontata la zona del fiume Paraná - per la precisione sul versante che interessa la provincia di Corrientes, dove l’acqua scorre più lentamente rispetto al versante di Misiones - mentre nel secondo Tolhuin, una della città più vicine all’estremo Sud del paese, nella provincia della Terra del Fuoco. Ad essere posti al centro di questi due progetti (che costituiranno una trilogia con La libertad) troviamo di nuovo degli attori non professionisti: Argentino Vargas (nel ruolo di Vargas) e Juan Fernández (nel ruolo di Farrel).
I protagonisti partono da due intenzioni assimilabili: un viaggio per ritrovare un familiare. Per Vargas l’uscita di prigione, a seguito di una pena scontata per duplice fratricidio, diventa un’occasione per rivedere sua figlia; per Farrel, invece, una sosta di due giorni della nave mercantile sulla quale lavora nel porto di Ushuaia si trasforma in un momento per ritrovare la madre (gravemente malata di Alzheimer e allettata) e la figlia (affetta da un ritardo mentale). In questi due titoli, raffiguranti ancora scenari surreali per uno spettatore occidentale ben inserito nel contesto contemporaneo civilizzato, Alonso ha la possibilità di approfondire un discorso di matrice politica (perché già mostrare queste vite al limite della civiltà rappresenta un atto politico) che sfocia in una disamina sui temi della solitudine e la mancanza di comunicazione.
Vargas e Farrel (personaggio caratterizzato da un attaccamento non comune alla bottiglia) parlano pochissimo durante le loro traversate e interagiscono lo stretto necessario con le poche persone che incontrano. I loro silenzi sono un ostacolo per una lettura più completa della loro personalità. Registicamente Alonso li colloca in spazi limitrofi delle inquadrature, e spesso, come nell’intera parte della prigione di Los muertos, sono i protagonisti ad essere raggiunti per un dialogo. A riprova di un posto nel mondo da ritrovare, o da perdere definitivamente, i viaggi intrapresi verso casa lasceranno più dubbi che certezze: Vargas incontrerà, in un villaggio boschivo remoto e dopo aver attraversato in canoa il fiume, due ragazzini di cui non conosce l’identità (i suoi nipoti?); Farrel non verrà riconosciuto da sua madre e, dopo aver lasciato un portachiavi (rosso e con incisa la parola “Liverpool”) e dei soldi a sua figlia Analìa, fuggirà.
Apparentemente simili ad un primo sguardo all’esordio La libertad, Los muertos e Liverpool estendono quella che, a questo punto, potremmo definire una poetica dell’eccesso, sia registicamente che a livello di montaggio. Oltre al ricorrente utilizzo di long takes (che potrebbero anche suscitare noia, a detta dello stesso Alonso), ciò che più emerge in questi due titoli è un sottile lavoro per immagini che riporta la mente alle origini del cinema. Non è un segreto che per il regista argentino sia l’immagine, a discapito della parola, a contare, così come la sceneggiatura non sia un testo sacro non questionabile una volta giunto sul set. La diretta traduzione di questi pensieri è un rimando al cinema dei Lumiére (anche banalmente per la possibilità concessa alle immagini, di fronte ad una quasi-assenza di dialogo, di respirare) e una rielaborazione in chiave contemporanea dell’effetto Kulešov. Il lavoro di rielaborazione dell’effetto, preferito da Alonso alle innovazioni iper-cinetiche apportate da Ejzenstejn all’arte del montaggio, viene evidenziato tramite due aspetti: la relazione che si instaura tra inquadrature lunghe, in grado di far emergere più informazione sul mondo narrato, e l’assenza di raccordi sugli sguardi degli attori.
In particolar modo in Liverpool, il regista sceglie raramente un controcampo o un movimento sull’asse dei centottanta gradi con uno stacco di montaggio per mostrarci ciò che viene visto da Farrel. Lo spettatore nella pellicola non viene mai guidato, è lasciato libero di esplorare, muoversi visivamente all’interno di uno spazio sterminato che, semmai, finisce per essere perlustrato a sua volta con movimenti di macchina maestosi (la salita sul retro del camion di Farrel, ripresa interamente in un take che parte da un’inquadratura fissa). Una costruzione del genere, come nel più perfetto dei meccanismi a orologeria (senza risultare né troppo calcolato né freddo sull’aspetto emotivo), esplode nella suggestione coinvolgente dell’ultima parte del film: la fuga di Farrel. Il marinaio, come anticipato, non viene riconosciuto da sua madre, mentre sua figlia insistentemente chiede in prestito del denaro. In quell’esatto momento il film si ferma, ai limiti di Tolhuin, e osserva la lunga passeggiata che porta definitivamente fuori campo Farrel, finendo per dedicare gli ultimi, affascinanti, minuti ad un’esplorazione della vita in questa piccola comunità e allo sguardo prolungato di Analìa al porta-chiave regalatole dal padre - simbolo di un mondo conosciuto da Farrel (Liverpool ha, effettivamente, un porto) e segnale di contatto tra province remote come la Terra del Fuoco e il resto del mondo.
Un oggetto simile lo troviamo anche nel finale di Los muertos: una action figure, raffigurante un giocatore di calcio con la tradizionale maglia albiceleste della nazionale argentina, che verrà posata a terra da Vargas prima di entrare in tenda con i due bambini appena incontrati. In un’altra affascinante sequenza, dove Vargas depone il machete visto ad inizio film (una resa, un primo segno d’affetto verso quelli che sembrerebbero essere i suoi nipoti), Alonso lascia parlare il fuori campo, ciò che non viene più visto e ritenuto utile da uno spettatore casuale, trasformando in informazione utile ciò che verrebbe ritenuto eccesso.
Lo spiccato gusto contemporaneo di questa serie di operazioni o intuizioni sta anche nella completa libertà lasciata al pubblico. Vedere un film di Lisandro Alonso, come dimostreranno ulteriormente gli ultimi capitoli della sua filmografia - Fantasma (2006), Jauja (2014) e Eureka (2023) - non è una sfida, ma un’esperienza di contatto attiva per lo spettatore con il cinema. Fantasma parla proprio di questo, ironicamente e, allo stesso tempo, in maniera molto lucida. Il film, definibile per un pelo lungometraggio (sessantatré minuti), esce nel 2006 e vede Misael Saavedra e Argentino Vargas, nei ruoli di loro stessi, vagare per un cinema di Buenos Aires (il Teatro San Martín) durante la première di Los muertos.
Fantasma – nomen omen – mostra allo spettatore un viaggio dallo sviluppo perlopiù verticale all’interno di una struttura che cattura i suoi personaggi - l’incipit, con Vargas bloccato dietro l’ennesimo carcere; l’esterno del multisala che resta fuori campo e non viene mai inquadrato se non dall’interno - in un’esperienza nuovamente dilatata nel tempo di un long take, negli spazi remoti e segreti di una sala cinematografica. Mentre Vargas assisterà alla proiezione del film - assieme ad altre due persone - Saavedra vagherà per il cinema, al limite tra l’essere una presenza fantasmatica e una persona estranea a quel contesto. E forse, mai come in questo caso, la presenza di attori non professionisti collocati in un contesto anomalo permette al disegno registico di Alonso di dispiegarsi al massimo delle sue potenzialità. Vargas e Saavedra non hanno mai frequentato un luogo come la sala cinematografica, non sanno né leggere né scrivere, e finiranno per provare un’attrazione per lo schermo e per perdersi all’interno della struttura.
Fantasma è un’operazione di stampo riflessivo proprio perché, attraverso un paesaggio di segno opposto rispetto agli altri titoli del cineasta, mette in scena il meccanismo con il quale si articola lo sguardo della macchina da presa. E di nuovo, lasciare campo allo spettatore (attraverso la ripetuta ricerca del tempo morto e dei vuoti nella narrazione) permette allo stesso Alonso di porsi delle domande circa l’oggetto e i soggetti di studio, senza necessariamente fornire una risposta a chi sta osservando.
Dopo aver partecipato nel 2009 al progetto The Complete Letters, nel quale lavora ad un episodio di natura epistolare realizzato a quattro mani con Albert Serra, un salto di cinque anni ci fa giungere a Jauja, il primo contatto di Alonso con il film storico e di genere. Il riferimento è il western - molte sono le somiglianze con The Searchers (Sentieri Selvaggi, 1956) di John Ford - mentre l’ambientazione è di nuovo la provincia della Terra del Fuoco. Circa la composizione della troupe e del cast, tre sono le personalità da segnalare: Timo Salminen, storico direttore della fotografia di Aki Kaurismäki; Fabián Casas, poeta che collaborerà alla sceneggiatura; Viggo Mortensen interprete del capitano danese Gunnar Dinesen e autore delle musiche, supportato dal polistrumentista statunitense Buckethead. L’apporto di questi talent apparentemente lascerebbe considerare un definitivo allontanamento del cinema di Alonso dallo sguardo documentario, dall’utilizzo di maestranze non professioniste e da un metodo di lavoro che in primo luogo punta a stabilire un contatto con comunità lontane dalla civiltà.
In parte ciò corrisponde al vero, ma Jauja è anche il proseguimento di un’idea di cinema sempre più chiara. Alonso dissemina eccesso e contrasti all’interno della pellicola, a partire dalle incongruenze con la Storia nella trama (il Regno di Danimarca non si è mai spinto così a Sud, tantomeno con desiderio di conquista). La Patagonia battuta dall’uomo è terra disonorata, calpestata e da ammaestrare, come voluto dall’esercito locale e danese, ma questo paesaggio conosciuto dagli antichi come Jauja (in realtà il nome di una città peruviana) è solo un apparente paradiso. Salminen suggerisce ulteriori contrasti disegnando controluce anti-naturalistici e dissonanti (cui si aggiunge un passaggio di Alonso al formato 1,37:1) che anticipano il viaggio spazio-temporale di Viggo Mortensen. Infine, si giunge a Casas, che con il suo apporto allo script si lascia trasportare dalle sensazioni, dalla poesia (il cane, la caverna, il giocattolo) rendendo Jauja una terra sconfinata al di fuori del mondo, lontana da riferimenti geografici, sociali e politici.
A differenza dei capitoli precedenti, Jauja attesta una volontà di spingersi verso la narrazione. Il viaggio intrapreso da Dinesen non procede a ritroso e verso casa, come tentato dai vari Vargas o Farrel, e la fuga d’amore di sua figlia Ingeborg - il rapporto tra i due ricorda quello dei personaggi di Aguirre. Furore di dio (1972) di Werner Herzog - lo porta al confronto con se stesso, solo nella terra degli indios e di Zuluaga, disertore sanguinario che sembra aver abbracciato la wilderness. Di fronte a titoli come Jauja non possono esserci certezze se non quelle di seguire il flusso di un tempo rallentato, che permette a noi stessi di interrogarci sul nostro status di spettatori e di esseri umani. Ciò che viene mantenuto in tutti i titoli di Alonso, specialmente in quest’ultimo, come testimonia l’enigmatico finale ambientato nel presente - il cortocircuito creato dalla statuetta del soldato che torna in entrambi i mondi ci fa interrogare se tutto quello a cui abbiamo assistito è stato un sogno di Ingeborg - è la trasmissione di un segreto che non verrà mai svelato.
Giungiamo, dunque, ad Eureka, film girato nove anni dopo Jauja. Alonso ha più volte raccontato come in questo lungo periodo si sia dedicato allo studio di tutto quel materiale che sarebbe poi confluito nel lungometraggio, alla sua famiglia e ad una pausa di riflessione dal cinema. Quest’ultimo dato è interessante, poiché fa ragionare sull’esigenza di utilizzare il mezzo cinematografico solo quando è necessario, soprattutto nell’arco di una carriera che si è evoluta in termini di ambizione e che è sempre rimasta fedele ad un preciso messaggio o visione del mondo. Eureka è un racconto sui nativi americani, declinato attraverso tre episodi che partono da un film nel film. Oltre a differenziarsi per le location - il vecchio west cinematografico ricreato in un deserto vicino Almería, la riserva di Pine Ridge in South Dakota e il Brasile ricostruito a Oaxaca, in Messico - la pellicola distingue i suoi tre blocchi anche attraverso tre aspect ratio differenti (in ordine: 1,37:1, 1,85:1 e 1,64:1).
Lo spunto per approfondire l’immaginario e la vita dei nativi americani, accennata in Jauja, non poteva che partire dal western in bianco e nero, dalla finzione portata su schermo di nuovo da Viggo Mortensen (e Chiara Mastroianni) su tutti. Ma ancora, Alonso rompe gli schemi strizzando l’occhio agli stereotipi di genere (gli indiani e i loro canti rituali; l’establishing shot del saloon, dove atti promiscui si succedono al rumore degli spari che non sembrano mai fermarsi). Il brusco passaggio alla realtà - una carrellata a retrocedere che rivela come l'episodio appena mostrato sia soltanto un film trasmesso alla televisione - sancisce il passaggio al secondo episodio e trasporta lo spettatore nella vita della comunità della riserva di Pine Ridge.
Il quadro che emerge in questo secondo atto - a livello di screen-time il più lungo, in un’opera che supera le due ore e venti - è dei più desolanti: Alonso ritorna all’approccio dei primi titoli, descrivendo, attraverso i personaggi di Alaina (Alaina Clifford) e Sadie (Sadie Lapoint), una serie di micro-azioni quotidiane inserite in un contesto di disagio e solitudine (incidenti domestici, abuso di droghe) dove non c’è spazio per la rassicurazione o per la speranza nelle generazioni future. È sul finire di questo episodio che trova spazio la simbolica citazione riportata in apertura, in un dialogo che trova coinvolti Sadie e suo nonno, figura sciamanica che tenta di porre rimedio alla perdurante depressione della ragazza.
Se nei film di Alonso sono l’immagine e la regia a suggerire ciò che potrebbe avvenire, questa battuta è la sentenza su uno sguardo sul mondo: in quanto esseri umani siamo un riflesso dell’ambiente nel quale ci muoviamo, fonte delle nostre vittorie o sconfitte personali. Tutto, dunque, è relativo. A farci da guida nell’ultimo episodio di Eureka, è infine una cicogna jabiru (o cauauá, come viene identificata in Amazzonia), che ci condurrà nella foresta amazzonica degli anni Settanta donandoci l’occasione di conoscere i sogni e le vite quotidiane di una tribù locale che vive allo stato brado, a pochi passi da un gruppo di cercatori d’oro che sfrutta l’ignoranza e la povertà degli indigeni per derubare la foresta delle proprie risorse (una tipologia di sequenza che Alonso propone anche in Jauja).
Figlio di un contesto eterogeneo e vitale sulla scena internazionale, il cinema di Lisandro Alonso si presenta come la rara alternativa di un mondo cinematografico che rispecchia le nuove abitudini dell’uomo contemporaneo, sempre online e perennemente alla ricerca di nuovi stimoli che lo intrattengano. Un utilizzo non per forza innovativo del mezzo, che prende le mosse dall’elemento umano che osserva. Ma soprattutto, un cinema che non ha la pretesa di avere certezze, ma il cui scopo è quello di suggestionare - attraverso le sue immagini e i suoi interrogativi - lo spettatore, trascinandolo nelle storie raccontate sullo schermo.