di Carlotta Centonze
NC-214
12.06.2024
«I’m not sad, I’m angry»
Amy Dunne in Gone Girl di David Fincher
Nel 2014, quando Gone Girl di David Fincher uscì per la prima volta in Italia, avevo 21 anni. Il #metoo era lontano e, a ripensarci ora, il vocabolario con cui discutevamo di certi temi rifletteva una consapevolezza ancora ristrettissima. Il film mi piacque molto, senza che avessi le parole per dire perché né per spiegare in che modo un personaggio evidentemente - diremmo oggi abusando della parola - “tossico”, quello della sadica, pazza, brillante e calcolatrice Amy Dunne, avesse colpito delle corde scoperte, portandomi a tifare per lei e a godere del successo del suo piano diabolico. Liquidai la questione con le persone che erano venute a vederlo con me e che ne erano state meno entusiaste, mantenendo per qualche giorno la sensazione di piacere legata al film e alla sua insolita eroina.
Quando lo scorso anno, a distanza di quasi dieci anni dalla visione del film di Fincher, ho visto in sala Pearl (2022) di Ti West, la città in cui vivo è cambiata, la sala è cambiata, la mia consapevolezza è cambiata e con questa anche la mia vita personale. Eppure, di nuovo sono uscita dal cinema in un’esaltazione quasi amorosa che difficilmente trova le parole giuste per spiegarsi. Ho costretto il mio partner a vedere il film, e di nuovo mi sono trovata di fronte a una reazione tiepida (la sua) e a una palpitazione analfabeta (la mia).
Sebbene sia mia intenzione usare il pretesto di questo articolo per riuscire a mettere in fila delle considerazioni lucide su Pearl e su quelle che ormai da un po’ nella mia immaginazione sono tutte le "ragazze furiose" che l’hanno preceduto e lo accompagnano, non potevo non dichiarare da subito un mio coinvolgimento viscerale e romantico verso il suo personaggio principale e verso l’archetipo dell’ira femminile. Ho sempre pensato che Medea avesse le sue buone ragioni, tanto vale dirlo subito. Lo dichiaro a scanso di equivoci, perché so che la lettura di alcune opere non può che passare attraverso l’esperienza personale, a volte in modo tanto sconvolgente da rendere difficile una separazione critica. Non a caso, guida di questo mio tentativo di razionalizzazione è stato House of Psychotic Women, una “topografia autobiografica della nevrosi femminile nei film horror ed exploitation” di Kier-La Janisse (2012).
La casa delle donne psicopatiche
Uscito in sala negli Stati Uniti a settembre del 2022, a soli sei mesi di distanza da X - A Sexy Horror Story di cui costituisce narrativamente il prequel, Pearl di Ti West ha avuto una scarsa distribuzione in Italia, rimanendo per qualche settimana in poche sale selezionate e uscendo appunto insieme al molto chiacchierato X. L’ordine in cui sono riuscita a vederlo, dunque, è quello naturale di produzione. X è un film divertente, che strizza l’occhio agli slasher movies anni ’70, primo tra tutti Texas Chainshaw Massacre (Non aprite quella porta, 1974) di Tobe Hooper, richiamandone l’ambientazione e in parte anche la trama: un gruppo di ragazzi alla ricerca di facile successo partono con un furgone per una remota località del Texas rurale con l’intenzione di girare una serie di film porno che li farà diventare ricchi e famosi. Spoiler: non accadrà, almeno non per tutti, e scorrerà un bel po’ di sangue. Mai fidarsi di una coppia di vecchi scorbutici del sud. Mia Goth interpreta sia la protagonista Maxine, la figlia di un pastore determinata a diventare una star, che la serial killer Pearl, moglie del proprietario del casolare che i ragazzi hanno affittato.
La prova attoriale di Goth, insieme allo stile di regia derivativo ma al tempo stesso ironico, che sembra citare qua e là le atmosfere tristemente erotiche di Boogie Nights (1997) di Paul Thomas Anderson, convincono, seppure non del tutto, di essere di fronte a qualcosa di interessante. Spassosa la figura del giovane studente di cinema ingaggiato per girare i filmini hard, l’unico a preoccuparsi della qualità cinematografica e filosofica del lavoro, che finirà per rivelarsi il personaggio più bigotto e classista del film. Quello che però mi ha sorpreso è che la visione di Pearl potesse rendere molto più divertente X e che i due film instaurino un rapporto di reciprocità virtuoso e originale. Pare che Ti West e Mia Goth abbiano lavorato alla scrittura di Pearl durante le riprese di X, rendendosi conto di avere per le mani un personaggio che valeva la pena approfondire e pensando che, qualora non fossero riusciti a realizzare il film, avrebbero almeno avuto un character study utile per X.
Pearl è il ritratto brillante di una giovane donna disperata e spaventosa, confinata nella fattoria dei genitori durante la prima guerra mondiale e l’epidemia di febbre spagnola. Mia Goth regala al personaggio di Pearl una crudeltà da cartone animato e una strisciante follia che l’hanno consacrata sul web e tra la critica. Per citare Peter Bradshow del Guardian, “Goth è la Judy Garland dell’horror”, in riferimento anche alla chiara ispirazione del film ai technicolor sfavillanti della vecchia Hollywood e, in particolare, a The Wizard of Oz (Il Mago di Oz, 1939).
Il marito di Pearl è partito come volontario per la guerra. Ricordando nel modo infantile di parlare la Baby Jane di Bette Davis, Pearl si presenta terrorizzandoci con la sua crudeltà sfogata su piccoli animali della fattoria che dà in pasto al suo coccodrillo Theda - in onore di Theda Bara, attrice statunitense prototipo della donna fatale. Quando non è intenta a intrattenere i suoi animali, Pearl litiga furiosamente con sua madre, nel tentativo quasi sempre fallimentare di ribellarsi alla sua autorità repressiva. Seguendo un topos degli horror caratterizzati da una protagonista femminile - pensiamo ad esempio a Repulsion (1965), Carrie (1976), Misery (Misery non deve morire, 1990) , The Others (2001), Babadook (2014) - anche Pearl si svolge in gran parte all’interno delle mura domestiche, che nella nozione gotica della casa prendono sempre di più la sembianza della psiche di chi le abita, oltre a rappresentare il luogo per eccellenza di infelicità e isolamento femminili.
Nel caso di Pearl il gotico è quello americano, negli anni che precedono la grande depressione, gli stessi in cui l’invenzione del cinematografo diventa popolare e genera nuovi orizzonti di fuga. Esasperata dalla cappa di puritanesimo materno, la ragazza passa il suo tempo a sognare a occhi aperti di diventare una ballerina e di sfuggire al suo destino. Ma la madre - che ricorda la terribile Margaret White di Carrie di Brian De Palma, anche per l’intensa interpretazione di Tandi Wright - non perdona a sua figlia di essere testimone dell’evento più traumatico della sua vita: vedere l’uomo che ama costretto su una sedia a rotelle e doverlo assistere, mentre la Germania, suo paese d’origine, sta per essere sconfitta.
Sobrietà, castità, purezza sono poi i vessilli delle madri castratrici, che vedono nelle giovani figlie e nel loro desiderio di libertà un potenziale disturbante dell’ordine, una forza pericolosa. Così, sentimenti di rancore e di pietà rimbalzano continuamente tra loro, alimentando una mancanza di empatia e una sfiducia reciproche. Le cupe stanze con la carta da parati a fiori, il vialetto, lo scantinato della casa diventano teatro degli scontri più violenti tra le due, sovrapponendosi mimeticamente ai luoghi dei delitti del film precedente X e riconnotandoli di un ulteriore strato di trauma e di violenza. La casa di Pearl non vive di vita propria né nasconde mostri o presenze oscure, ma piuttosto risuona della vita famigliare opprimente; rappresenta il luogo di confino per una giovane ragazza animata da desideri e pulsioni continuamente frustrati e oggetto dell’umiliazione della madre.
Un bisogno mostruoso di essere amate
«Please love me. Only me»
Asami Yamazaki in Audition di Takashi Miike
Il vero killer nel film di Ti West è la solitudine, male profondo da cui è affetta Pearl, impossibilitata a trovarne scampo per la sua condizione sociale di donna e per di più di umili natali. Pearl ci racconta dunque la genesi della serial killer mettendo al centro non tanto il crescendo degli omicidi, che non sono poi così tanti, quanto piuttosto il climax di sentimenti repressi e infelicità che generano il mostro. Dietro l’aggressività di Pearl, c’è un viscerale bisogno di essere amata, che la avvicina a personaggi come Asami Yamazaki in Audition (1999) di Takashi Miike, sadica e bellissima ex ballerina, che si vendica dell’abbandono del suo amante ancor prima che questo sia avvenuto, anticipando la paura che la divora.
In Pearl l’affetto mancato dalla madre - insieme all’abbandono da parte del marito che va in guerra pur non essendovi costretto e la leggerezza con cui l’amante di una notte le fa promesse che non può mantenere - gocciolano nel vaso di risentimento che si rovescia a cascata nel finale. Il critico Nick Allen descrive il film come “una sfrenata corsa della protagonista attraverso la sua ansia di non essere amata, la paura della sua vera natura, inconsapevole che la svolta improvvisa dentro di lei è vicina, soprattutto dopo che qualcuno la fa sentire insignificante”. Il movente delle sue azioni è il desiderio di essere vista, capita e apprezzata, che si concretizza nel sogno di diventare famosa.
“God make me so famous so that I can escape this place” scrive a caratteri cubitali l’artista Selman Selma su una parabola satellitare nell’installazione Satellite Dish (2023), ispirata dalla cultura pop, Instagram e i social network, ma soprattutto dal mito della televisione che si diffonde nelle repubbliche sovietiche portando la possibilità di evasione dal grigiore della realtà. Così in Pearl il cinematografo diviene per la protagonista il luogo sicuro in cui sorseggiare morfina e sognare a occhi aperti di poter un giorno fuggire dal suo involontario confino. Ancora una volta, è il mondo dello spettacolo a offrire le più facili prospettive di gloria, nascondendo dietro una superficie patinata e seducente una Babilonia in putrefazione.
I colori sfavillanti della fotografia, curata da Eliot Rockett, sottolineano la drammaticità e la violenza con cui i sentimenti della giovane Pearl esplodono sullo schermo, tanto nelle deliranti performance in cui immagina di essere una ballerina, quanto nelle scene in cui si insinua sempre più in lei la consapevolezza di essere portatrice di un sogno già abortito. Era saggia forse Jennifer North, interpretata da Sharon Tate, che in Valley of the Dolls (La valle delle bambole, 1967) - parabola sugli effetti collaterali della fama per un gruppo di giovani ragazze - affermava “forse sono fortunata a non aver nessun talento”: il talento si accompagna infatti con un’irascibilità incontrollabile per la sua compagna Neely, destinata alla dipendenza da farmaci e alcool e all’esaurimento nervoso. D’altronde, Pearl non è neanche sicura di avere talento, ma è sicura di essere una star e di meritare l’adorazione delle persone. Il suo delirio di onnipotenza è alimentato dal pozzo del suo bisogno d’amore, incolmabile.
“Love me until I love myself” canta Lana Del Rey nel suo ultimo album Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Boulevard, l’artista che più di ogni altra negli ultimi dieci anni ha incarnato la vulnerabilità femminile distillata in boccoli dorati che molleggiano su un crepuscolo violaceo, paradisi oscuri che si infrangono contro la riva e sogni delle cameriere-lolite che appassiscono al sole della California, nei sontuosi viali del tramonto. Se essere amate non è mai abbastanza, allora ci vuole una platea, un mare di folla, un pubblico in visibilio.
Simpatia per il male
Tornando a Gone Girl per analizzare la fascinazione per questi personaggi femminili divorati dalla rabbia, sono tante le cose che accomunano Pearl a Amy Dunne, Amazing Amy, e non sto parlando solamente di un monologo iconico. Se lo sviluppo dei loro personaggi fornisce un primo strato di lettura, quello più superficiale, per cui ci troviamo di fronte a due maniache omicide scriteriate, le corde che toccano - soprattutto su un’audience femminile - arrivano a un secondo strato. La solidità della loro cattiveria vista da vicino presenta delle increspature, attraverso cui è possibile riconoscere l’onda violenta del risentimento.
Il monologo della cool girl, che ormai fa parte della bibbia dei riferimenti su cui si costruisce l’identità della sad/toxic girl, è divenuto iconico per aver colto le trappole che si nascondono dietro la costruzione di un’immagine di sé modellata sul desiderio maschile e la delusione imperdonabile di aver rinunciato a se stesse per soddisfare qualcun altro. Nel sadismo brillante e poco comune di Amy Dunne, questa parentesi di analisi di sé raggiunge picchi di realismo che hanno lasciato un segno sulla cultura, digitale e non solo, e sull’immaginario di questi anni.
Nello stesso modo, Pearl e il suo monologo sono diventati virali sui social network, tanto da far parlare del “Joker al femminile della generazione z”. In un magistrale gioco con il fuoricampo, il film di Ti West si conclude con una detonazione che attraversa l’isolamento della protagonista, la sua paura di sé stessa e delle sue pulsioni sessuali e aggressive, la tristezza del sapersi non libera come gli uomini di viaggiare e di determinare la propria vita, lo stallo a cui è condannata dalla sua miseria e l’invidia sociale che serpeggia e che si sfogherà contro il buonismo della cognata, più ricca, bionda e “normale” di lei. Ma ancora più virali sono diventati i suoi sfoghi di rabbia incontrollati trasformati in sticker e GIF, dandoci la misura dell’impatto che certe scene hanno avuto nel fissarsi nella mente degli spettatori e nell’entrare nel linguaggio digitale di tutti i giorni. Su TikTok proliferano i video che ripropongono il suo grido “Please, I’m a star” e le reazioni - spropositate ma relatable - contro un ragazzo appena conosciuto che non le dà le giuste attenzioni. Mia Goth è stata incoronata scream queen non solo dalla critica, ma anche dal mondo dei social che ha riscoperto, in parte anche grazie a questo personaggio, il suo interesse per la female rage nel cinema.
Perché il sentimento della rabbia espresso da personaggi femminili ha destato questa attenzione, anche in retrospettiva, ricercando esempi nel passato? Chloe Galimbert Lainé nel video essay I would like to rage indaga la sua incapacità di esprimere rabbia, partendo dall’analisi delle GIF consigliate dalla sua app di messaggeria in relazione alla parola “rage”: i primi venti risultati sono personaggi maschili, a dimostrazione della loro dominanza nella rappresentazione della rabbia sullo schermo. In Rage Becomes Her (2018) Soraya Chemaly analizza la soppressione culturale della rabbia femminile, silenziata e omessa per preservare uno status quo patriarcale. I genitori parlano di emozioni alle bambine, rabbia compresa, molto più frequentemente rispetto ai bambini. La costruzione sociale della rabbia in quella che viene definita “cultura emotiva” esclude che siano le donne a esprimerla. Pazzia, isteria, ipersensibilità sono gli attributi che le donne si ritrovano addosso per aver espresso la propria aggressività, continuamente patologizzata e minimizzata dalla società. Non è un caso che questo sentimento può essere accettato solo quando aderisce al ruolo sociale della donna: madre, insegnante, caregiver.
“Quando le donne sono violente, di solito lo sono solo dopo essere state maltrattate dagli uomini. Negli ultimi trent’anni la violenza femminile dominante sullo schermo è stata una vendetta sessualizzata e iperpersonale in risposta allo stupro o alla perdita di un figlio”, spiega alla BBC Culture la dottoressa Lisa Coulthard, docente di studi cinematografici all'Università della British Columbia, citando per esempio Kill Bill (2003). Non è mai stata messa in dubbio la legittimità della sete di vendetta di The Bride (Uma Thurman) nel film di Tarantino, che reagiva al tradimento, allo stupro e all’uccisione del bambino che portava in grembo. C’è voluto tempo, invece, perché la internet culture aiutasse un’audience sempre più vasta a digerire la violenza di Amy Dunne e ad abbracciare il senso di frustrazione di Pearl e delle altre “ragazze furiose” sullo schermo.
Una delle prime immagini cinematografiche che mi rimasero impresse in adolescenza è stata la scena di Caterina va in città (2003) di Paolo Virzì in cui Agata (Margherita Buy), madre e moglie praticamente invisibile, spezza il suo silenzio rompendo contro il pavimento tutti i piatti della cucina. Un gesto di esasperazione che già allora mi creava disagio nell’immaginare un ruolo femminile così stretto da abitare, da cui è impossibile far sentire la propria voce o esprimere la propria rabbia se non con il rumore di quei cocci, lavati ogni sera senza nessuna gratificazione, frantumati finalmente a terra. Possibile che non fosse concesso a una donna di incazzarsi sul serio? Dal momento che le rivendicazioni femminili si fanno largo oggi nella vita quanto sullo schermo, è possibile trovarne un riflesso nel cinema e nelle serie tv. È sempre più comune, infatti trovare personaggi femminili violenti che non reagiscono necessariamente a un abuso maschile e che eludono la rappresentazione canonica della rabbia.
La necessità di dare spessore e profondità alle donne rappresentate sullo schermo, infatti, ha contribuito all’emergere dell’unlikeable female character: in una cultura che le vorrebbe accondiscendenti, docili, mansuete, le donne antipatiche e aggressive diventano le ribelli. Scrive Rachel Oliver su Trinitonian “con film come X e Pearl, Don't Worry Darling e Midsommar, il cinema contemporaneo sta finalmente facendo spazio nella cultura popolare affinché le donne possano sfogare tutta la rabbia che la società ha represso per troppo tempo”. L’espressione della rabbia diviene così qualcosa a cui tendere: sapersi arrabbiare significa sapersi fare ascoltare, reagire alle ingiustizie e costringere le persone a chiedere da dove provengano questi sentimenti.
Le anti-eroine del cinema - diametralmente opposte alle eroine moralizzanti - spopolano tra le giovanissime perché portatrici di questo cambiamento, fino ad arrivare al rischio di una feticizzazione da cui ci mette in guardia la scrittrice irlandese Megan Nolan nel suo articolo The functions of female rage: “Trasformare la rabbia femminile in qualcosa di facilmente consumabile non mi convince. C’è qualcosa nel sentirsi dire che la propria rabbia è buona perché è uno strumento utile, che sembra tornare al problema originario delle donne che non hanno lo spazio per vivere senza continue giustificazioni. Non voglio dover essere utile per poter esistere”.
Pearl di Ti West si chiude su una lunghissima inquadratura che vede Mia Goth porgerci un sorriso tirato, doloroso, dietro cui scivolano silenziose lacrime. Ancora una volta con il groppo alla gola, confinata entro norme sociali asfittiche, Pearl mette su una bella faccia sorridente e dissimula i suoi veri sentimenti, mentre i titoli di coda le scorrono sul viso. Forse è una disfatta, o forse è l’inizio di una lenta riappropriazione del valore sociale della rabbia. Ne sapremo di più vedendo il terzo capitolo della saga MaXXXine, ambientato negli anni Ottanta, in cui la final girl di X cercherà di conquistare le luci della ribalta. Ma attenzione, perché come recita la campagna promozionale del film, “Hollywood is a killer”.
di Carlotta Centonze
NC-214
12.06.2024
«I’m not sad, I’m angry»
Amy Dunne in Gone Girl di David Fincher
Nel 2014, quando Gone Girl di David Fincher uscì per la prima volta in Italia, avevo 21 anni. Il #metoo era lontano e, a ripensarci ora, il vocabolario con cui discutevamo di certi temi rifletteva una consapevolezza ancora ristrettissima. Il film mi piacque molto, senza che avessi le parole per dire perché né per spiegare in che modo un personaggio evidentemente - diremmo oggi abusando della parola - “tossico”, quello della sadica, pazza, brillante e calcolatrice Amy Dunne, avesse colpito delle corde scoperte, portandomi a tifare per lei e a godere del successo del suo piano diabolico. Liquidai la questione con le persone che erano venute a vederlo con me e che ne erano state meno entusiaste, mantenendo per qualche giorno la sensazione di piacere legata al film e alla sua insolita eroina.
Quando lo scorso anno, a distanza di quasi dieci anni dalla visione del film di Fincher, ho visto in sala Pearl (2022) di Ti West, la città in cui vivo è cambiata, la sala è cambiata, la mia consapevolezza è cambiata e con questa anche la mia vita personale. Eppure, di nuovo sono uscita dal cinema in un’esaltazione quasi amorosa che difficilmente trova le parole giuste per spiegarsi. Ho costretto il mio partner a vedere il film, e di nuovo mi sono trovata di fronte a una reazione tiepida (la sua) e a una palpitazione analfabeta (la mia).
Sebbene sia mia intenzione usare il pretesto di questo articolo per riuscire a mettere in fila delle considerazioni lucide su Pearl e su quelle che ormai da un po’ nella mia immaginazione sono tutte le "ragazze furiose" che l’hanno preceduto e lo accompagnano, non potevo non dichiarare da subito un mio coinvolgimento viscerale e romantico verso il suo personaggio principale e verso l’archetipo dell’ira femminile. Ho sempre pensato che Medea avesse le sue buone ragioni, tanto vale dirlo subito. Lo dichiaro a scanso di equivoci, perché so che la lettura di alcune opere non può che passare attraverso l’esperienza personale, a volte in modo tanto sconvolgente da rendere difficile una separazione critica. Non a caso, guida di questo mio tentativo di razionalizzazione è stato House of Psychotic Women, una “topografia autobiografica della nevrosi femminile nei film horror ed exploitation” di Kier-La Janisse (2012).
La casa delle donne psicopatiche
Uscito in sala negli Stati Uniti a settembre del 2022, a soli sei mesi di distanza da X - A Sexy Horror Story di cui costituisce narrativamente il prequel, Pearl di Ti West ha avuto una scarsa distribuzione in Italia, rimanendo per qualche settimana in poche sale selezionate e uscendo appunto insieme al molto chiacchierato X. L’ordine in cui sono riuscita a vederlo, dunque, è quello naturale di produzione. X è un film divertente, che strizza l’occhio agli slasher movies anni ’70, primo tra tutti Texas Chainshaw Massacre (Non aprite quella porta, 1974) di Tobe Hooper, richiamandone l’ambientazione e in parte anche la trama: un gruppo di ragazzi alla ricerca di facile successo partono con un furgone per una remota località del Texas rurale con l’intenzione di girare una serie di film porno che li farà diventare ricchi e famosi. Spoiler: non accadrà, almeno non per tutti, e scorrerà un bel po’ di sangue. Mai fidarsi di una coppia di vecchi scorbutici del sud. Mia Goth interpreta sia la protagonista Maxine, la figlia di un pastore determinata a diventare una star, che la serial killer Pearl, moglie del proprietario del casolare che i ragazzi hanno affittato.
La prova attoriale di Goth, insieme allo stile di regia derivativo ma al tempo stesso ironico, che sembra citare qua e là le atmosfere tristemente erotiche di Boogie Nights (1997) di Paul Thomas Anderson, convincono, seppure non del tutto, di essere di fronte a qualcosa di interessante. Spassosa la figura del giovane studente di cinema ingaggiato per girare i filmini hard, l’unico a preoccuparsi della qualità cinematografica e filosofica del lavoro, che finirà per rivelarsi il personaggio più bigotto e classista del film. Quello che però mi ha sorpreso è che la visione di Pearl potesse rendere molto più divertente X e che i due film instaurino un rapporto di reciprocità virtuoso e originale. Pare che Ti West e Mia Goth abbiano lavorato alla scrittura di Pearl durante le riprese di X, rendendosi conto di avere per le mani un personaggio che valeva la pena approfondire e pensando che, qualora non fossero riusciti a realizzare il film, avrebbero almeno avuto un character study utile per X.
Pearl è il ritratto brillante di una giovane donna disperata e spaventosa, confinata nella fattoria dei genitori durante la prima guerra mondiale e l’epidemia di febbre spagnola. Mia Goth regala al personaggio di Pearl una crudeltà da cartone animato e una strisciante follia che l’hanno consacrata sul web e tra la critica. Per citare Peter Bradshow del Guardian, “Goth è la Judy Garland dell’horror”, in riferimento anche alla chiara ispirazione del film ai technicolor sfavillanti della vecchia Hollywood e, in particolare, a The Wizard of Oz (Il Mago di Oz, 1939).
Il marito di Pearl è partito come volontario per la guerra. Ricordando nel modo infantile di parlare la Baby Jane di Bette Davis, Pearl si presenta terrorizzandoci con la sua crudeltà sfogata su piccoli animali della fattoria che dà in pasto al suo coccodrillo Theda - in onore di Theda Bara, attrice statunitense prototipo della donna fatale. Quando non è intenta a intrattenere i suoi animali, Pearl litiga furiosamente con sua madre, nel tentativo quasi sempre fallimentare di ribellarsi alla sua autorità repressiva. Seguendo un topos degli horror caratterizzati da una protagonista femminile - pensiamo ad esempio a Repulsion (1965), Carrie (1976), Misery (Misery non deve morire, 1990) , The Others (2001), Babadook (2014) - anche Pearl si svolge in gran parte all’interno delle mura domestiche, che nella nozione gotica della casa prendono sempre di più la sembianza della psiche di chi le abita, oltre a rappresentare il luogo per eccellenza di infelicità e isolamento femminili.
Nel caso di Pearl il gotico è quello americano, negli anni che precedono la grande depressione, gli stessi in cui l’invenzione del cinematografo diventa popolare e genera nuovi orizzonti di fuga. Esasperata dalla cappa di puritanesimo materno, la ragazza passa il suo tempo a sognare a occhi aperti di diventare una ballerina e di sfuggire al suo destino. Ma la madre - che ricorda la terribile Margaret White di Carrie di Brian De Palma, anche per l’intensa interpretazione di Tandi Wright - non perdona a sua figlia di essere testimone dell’evento più traumatico della sua vita: vedere l’uomo che ama costretto su una sedia a rotelle e doverlo assistere, mentre la Germania, suo paese d’origine, sta per essere sconfitta.
Sobrietà, castità, purezza sono poi i vessilli delle madri castratrici, che vedono nelle giovani figlie e nel loro desiderio di libertà un potenziale disturbante dell’ordine, una forza pericolosa. Così, sentimenti di rancore e di pietà rimbalzano continuamente tra loro, alimentando una mancanza di empatia e una sfiducia reciproche. Le cupe stanze con la carta da parati a fiori, il vialetto, lo scantinato della casa diventano teatro degli scontri più violenti tra le due, sovrapponendosi mimeticamente ai luoghi dei delitti del film precedente X e riconnotandoli di un ulteriore strato di trauma e di violenza. La casa di Pearl non vive di vita propria né nasconde mostri o presenze oscure, ma piuttosto risuona della vita famigliare opprimente; rappresenta il luogo di confino per una giovane ragazza animata da desideri e pulsioni continuamente frustrati e oggetto dell’umiliazione della madre.
Un bisogno mostruoso di essere amate
«Please love me. Only me»
Asami Yamazaki in Audition di Takashi Miike
Il vero killer nel film di Ti West è la solitudine, male profondo da cui è affetta Pearl, impossibilitata a trovarne scampo per la sua condizione sociale di donna e per di più di umili natali. Pearl ci racconta dunque la genesi della serial killer mettendo al centro non tanto il crescendo degli omicidi, che non sono poi così tanti, quanto piuttosto il climax di sentimenti repressi e infelicità che generano il mostro. Dietro l’aggressività di Pearl, c’è un viscerale bisogno di essere amata, che la avvicina a personaggi come Asami Yamazaki in Audition (1999) di Takashi Miike, sadica e bellissima ex ballerina, che si vendica dell’abbandono del suo amante ancor prima che questo sia avvenuto, anticipando la paura che la divora.
In Pearl l’affetto mancato dalla madre - insieme all’abbandono da parte del marito che va in guerra pur non essendovi costretto e la leggerezza con cui l’amante di una notte le fa promesse che non può mantenere - gocciolano nel vaso di risentimento che si rovescia a cascata nel finale. Il critico Nick Allen descrive il film come “una sfrenata corsa della protagonista attraverso la sua ansia di non essere amata, la paura della sua vera natura, inconsapevole che la svolta improvvisa dentro di lei è vicina, soprattutto dopo che qualcuno la fa sentire insignificante”. Il movente delle sue azioni è il desiderio di essere vista, capita e apprezzata, che si concretizza nel sogno di diventare famosa.
“God make me so famous so that I can escape this place” scrive a caratteri cubitali l’artista Selman Selma su una parabola satellitare nell’installazione Satellite Dish (2023), ispirata dalla cultura pop, Instagram e i social network, ma soprattutto dal mito della televisione che si diffonde nelle repubbliche sovietiche portando la possibilità di evasione dal grigiore della realtà. Così in Pearl il cinematografo diviene per la protagonista il luogo sicuro in cui sorseggiare morfina e sognare a occhi aperti di poter un giorno fuggire dal suo involontario confino. Ancora una volta, è il mondo dello spettacolo a offrire le più facili prospettive di gloria, nascondendo dietro una superficie patinata e seducente una Babilonia in putrefazione.
I colori sfavillanti della fotografia, curata da Eliot Rockett, sottolineano la drammaticità e la violenza con cui i sentimenti della giovane Pearl esplodono sullo schermo, tanto nelle deliranti performance in cui immagina di essere una ballerina, quanto nelle scene in cui si insinua sempre più in lei la consapevolezza di essere portatrice di un sogno già abortito. Era saggia forse Jennifer North, interpretata da Sharon Tate, che in Valley of the Dolls (La valle delle bambole, 1967) - parabola sugli effetti collaterali della fama per un gruppo di giovani ragazze - affermava “forse sono fortunata a non aver nessun talento”: il talento si accompagna infatti con un’irascibilità incontrollabile per la sua compagna Neely, destinata alla dipendenza da farmaci e alcool e all’esaurimento nervoso. D’altronde, Pearl non è neanche sicura di avere talento, ma è sicura di essere una star e di meritare l’adorazione delle persone. Il suo delirio di onnipotenza è alimentato dal pozzo del suo bisogno d’amore, incolmabile.
“Love me until I love myself” canta Lana Del Rey nel suo ultimo album Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Boulevard, l’artista che più di ogni altra negli ultimi dieci anni ha incarnato la vulnerabilità femminile distillata in boccoli dorati che molleggiano su un crepuscolo violaceo, paradisi oscuri che si infrangono contro la riva e sogni delle cameriere-lolite che appassiscono al sole della California, nei sontuosi viali del tramonto. Se essere amate non è mai abbastanza, allora ci vuole una platea, un mare di folla, un pubblico in visibilio.
Simpatia per il male
Tornando a Gone Girl per analizzare la fascinazione per questi personaggi femminili divorati dalla rabbia, sono tante le cose che accomunano Pearl a Amy Dunne, Amazing Amy, e non sto parlando solamente di un monologo iconico. Se lo sviluppo dei loro personaggi fornisce un primo strato di lettura, quello più superficiale, per cui ci troviamo di fronte a due maniache omicide scriteriate, le corde che toccano - soprattutto su un’audience femminile - arrivano a un secondo strato. La solidità della loro cattiveria vista da vicino presenta delle increspature, attraverso cui è possibile riconoscere l’onda violenta del risentimento.
Il monologo della cool girl, che ormai fa parte della bibbia dei riferimenti su cui si costruisce l’identità della sad/toxic girl, è divenuto iconico per aver colto le trappole che si nascondono dietro la costruzione di un’immagine di sé modellata sul desiderio maschile e la delusione imperdonabile di aver rinunciato a se stesse per soddisfare qualcun altro. Nel sadismo brillante e poco comune di Amy Dunne, questa parentesi di analisi di sé raggiunge picchi di realismo che hanno lasciato un segno sulla cultura, digitale e non solo, e sull’immaginario di questi anni.
Nello stesso modo, Pearl e il suo monologo sono diventati virali sui social network, tanto da far parlare del “Joker al femminile della generazione z”. In un magistrale gioco con il fuoricampo, il film di Ti West si conclude con una detonazione che attraversa l’isolamento della protagonista, la sua paura di sé stessa e delle sue pulsioni sessuali e aggressive, la tristezza del sapersi non libera come gli uomini di viaggiare e di determinare la propria vita, lo stallo a cui è condannata dalla sua miseria e l’invidia sociale che serpeggia e che si sfogherà contro il buonismo della cognata, più ricca, bionda e “normale” di lei. Ma ancora più virali sono diventati i suoi sfoghi di rabbia incontrollati trasformati in sticker e GIF, dandoci la misura dell’impatto che certe scene hanno avuto nel fissarsi nella mente degli spettatori e nell’entrare nel linguaggio digitale di tutti i giorni. Su TikTok proliferano i video che ripropongono il suo grido “Please, I’m a star” e le reazioni - spropositate ma relatable - contro un ragazzo appena conosciuto che non le dà le giuste attenzioni. Mia Goth è stata incoronata scream queen non solo dalla critica, ma anche dal mondo dei social che ha riscoperto, in parte anche grazie a questo personaggio, il suo interesse per la female rage nel cinema.
Perché il sentimento della rabbia espresso da personaggi femminili ha destato questa attenzione, anche in retrospettiva, ricercando esempi nel passato? Chloe Galimbert Lainé nel video essay I would like to rage indaga la sua incapacità di esprimere rabbia, partendo dall’analisi delle GIF consigliate dalla sua app di messaggeria in relazione alla parola “rage”: i primi venti risultati sono personaggi maschili, a dimostrazione della loro dominanza nella rappresentazione della rabbia sullo schermo. In Rage Becomes Her (2018) Soraya Chemaly analizza la soppressione culturale della rabbia femminile, silenziata e omessa per preservare uno status quo patriarcale. I genitori parlano di emozioni alle bambine, rabbia compresa, molto più frequentemente rispetto ai bambini. La costruzione sociale della rabbia in quella che viene definita “cultura emotiva” esclude che siano le donne a esprimerla. Pazzia, isteria, ipersensibilità sono gli attributi che le donne si ritrovano addosso per aver espresso la propria aggressività, continuamente patologizzata e minimizzata dalla società. Non è un caso che questo sentimento può essere accettato solo quando aderisce al ruolo sociale della donna: madre, insegnante, caregiver.
“Quando le donne sono violente, di solito lo sono solo dopo essere state maltrattate dagli uomini. Negli ultimi trent’anni la violenza femminile dominante sullo schermo è stata una vendetta sessualizzata e iperpersonale in risposta allo stupro o alla perdita di un figlio”, spiega alla BBC Culture la dottoressa Lisa Coulthard, docente di studi cinematografici all'Università della British Columbia, citando per esempio Kill Bill (2003). Non è mai stata messa in dubbio la legittimità della sete di vendetta di The Bride (Uma Thurman) nel film di Tarantino, che reagiva al tradimento, allo stupro e all’uccisione del bambino che portava in grembo. C’è voluto tempo, invece, perché la internet culture aiutasse un’audience sempre più vasta a digerire la violenza di Amy Dunne e ad abbracciare il senso di frustrazione di Pearl e delle altre “ragazze furiose” sullo schermo.
Una delle prime immagini cinematografiche che mi rimasero impresse in adolescenza è stata la scena di Caterina va in città (2003) di Paolo Virzì in cui Agata (Margherita Buy), madre e moglie praticamente invisibile, spezza il suo silenzio rompendo contro il pavimento tutti i piatti della cucina. Un gesto di esasperazione che già allora mi creava disagio nell’immaginare un ruolo femminile così stretto da abitare, da cui è impossibile far sentire la propria voce o esprimere la propria rabbia se non con il rumore di quei cocci, lavati ogni sera senza nessuna gratificazione, frantumati finalmente a terra. Possibile che non fosse concesso a una donna di incazzarsi sul serio? Dal momento che le rivendicazioni femminili si fanno largo oggi nella vita quanto sullo schermo, è possibile trovarne un riflesso nel cinema e nelle serie tv. È sempre più comune, infatti trovare personaggi femminili violenti che non reagiscono necessariamente a un abuso maschile e che eludono la rappresentazione canonica della rabbia.
La necessità di dare spessore e profondità alle donne rappresentate sullo schermo, infatti, ha contribuito all’emergere dell’unlikeable female character: in una cultura che le vorrebbe accondiscendenti, docili, mansuete, le donne antipatiche e aggressive diventano le ribelli. Scrive Rachel Oliver su Trinitonian “con film come X e Pearl, Don't Worry Darling e Midsommar, il cinema contemporaneo sta finalmente facendo spazio nella cultura popolare affinché le donne possano sfogare tutta la rabbia che la società ha represso per troppo tempo”. L’espressione della rabbia diviene così qualcosa a cui tendere: sapersi arrabbiare significa sapersi fare ascoltare, reagire alle ingiustizie e costringere le persone a chiedere da dove provengano questi sentimenti.
Le anti-eroine del cinema - diametralmente opposte alle eroine moralizzanti - spopolano tra le giovanissime perché portatrici di questo cambiamento, fino ad arrivare al rischio di una feticizzazione da cui ci mette in guardia la scrittrice irlandese Megan Nolan nel suo articolo The functions of female rage: “Trasformare la rabbia femminile in qualcosa di facilmente consumabile non mi convince. C’è qualcosa nel sentirsi dire che la propria rabbia è buona perché è uno strumento utile, che sembra tornare al problema originario delle donne che non hanno lo spazio per vivere senza continue giustificazioni. Non voglio dover essere utile per poter esistere”.
Pearl di Ti West si chiude su una lunghissima inquadratura che vede Mia Goth porgerci un sorriso tirato, doloroso, dietro cui scivolano silenziose lacrime. Ancora una volta con il groppo alla gola, confinata entro norme sociali asfittiche, Pearl mette su una bella faccia sorridente e dissimula i suoi veri sentimenti, mentre i titoli di coda le scorrono sul viso. Forse è una disfatta, o forse è l’inizio di una lenta riappropriazione del valore sociale della rabbia. Ne sapremo di più vedendo il terzo capitolo della saga MaXXXine, ambientato negli anni Ottanta, in cui la final girl di X cercherà di conquistare le luci della ribalta. Ma attenzione, perché come recita la campagna promozionale del film, “Hollywood is a killer”.