La rivisitazione storica di un regista
che ha scelto di misurarsi con il passato,
di Eric Scabar
TR-10
17.07.2020
È difficile trovare una chiave di lettura che possa sintetizzare il cinema di un autore poliedrico come Paul Thomas Anderson. Osservando il percorso artistico del regista nella sua totalità, è facile notare come ogni nuova opera porti con sé un profondo rinnovamento nel linguaggio visivo e drammaturgico rispetto all’opera che la precede. Basti pensare che un film come There Will Be Blood (2007) segue alla commedia romantica Punch-Drunk Love (2002). La regia camaleontica di P. T. Anderson può essere un interessante oggetto di discussione, specialmente se paragonato a grandi autori del cinema americano che hanno intrapreso un percorso analogo (Kubrick, Spielberg, Coppola). In questo caso si è voluto analizzare la filmografia di P.T. Anderson attraverso una prospettiva diversa, non propriamente cinematografica, ovvero quella della rivisitazione storica. Se poniamo i primi sette film del regista californiano su un’ipotetica linea del tempo, questi vanno a coprire quasi tutto il Novecento americano.
Alcuni grandi registi, come quelli sopracitati, hanno raccontato grandi eventi del passato con uno sguardo non convenzionale, a tratti provocatorio, pur di mettere in evidenza alcuni dettagli che permettessero di insinuare nello spettatore una rilettura di un avvenimento storico (vedi il cappotto rosso di Schindler's List, 1993). P.T. Anderson ha seguito le orme di questi grandi autori ma in modo più velato e sottile, a tratti quasi inconsapevole. La sua scelta è stata quella di ridefinire i periodi storici nei quali i suoi film sono ambientati attraverso le vicende concrete dei suoi personaggi.
Di seguito tutti i suoi film ordinati secondo la cronologia degli eventi narrati, con i relativi temi principali.
There Will Be Blood è un libero adattamento di Oil (1927) di Upton Sinclair, satira politica che narra le vicende di un magnate petroliere alle prese con la corruzione dei politici per ottenere lotti di terra californiana. Del romanzo di Sinclair, Anderson ha estratto solamente le prime 150 pagine per sviluppare la sua sceneggiatura.
Daniel è un cercatore d’oro che, durante uno scavo solitario, si imbatte in una roccia diversa da ciò che cercava, una roccia scura che cambierà per sempre la sua vita. Attraverso l’arma della persuasione Daniel edifica un piccolo villaggio per far fronte alle sue necessità imprenditoriali e promette cibo e acqua a tutti coloro che lavoreranno nei suoi pozzi petroliferi.
La visione romantica dei pionieri, che esplorano terre sconosciute in cerca di fortuna, si tramuta in un affresco storico inquietante dove regna soltanto l’avidità degli esseri umani. Il film racconta lo spirito di frontiera dominato dall’inesauribile ricerca di ricchezza attraverso lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nelle terre del west. There Will Be Blood è il film sull’età dell’oro, oramai divenuto nero, un’allegoria del cambiamento che hanno subito gli Stati Uniti fra l’Ottocento e il Novecento, quando sono diventati una superpotenza industriale. Una fase che ha cambiato in modo indelebile non solo la storia americana, ma quella mondiale, perché ha permesso agli Stati Uniti di diventare, in pochi anni, la prima potenza economica. Anderson ha messo in scena la sua visione di chi siano stati questi pionieri divenuti poi dei magnati, e di che ruolo abbia avuto l’unica istituzione allora presente in quei territori così isolati: la Chiesa. Per ottenere ciò di cui necessita Daniel è costretto a corrompere l’unica figura che possa in qualche modo ostacolarlo: Eli, un giovane prete evangelico con il quale instaura un rapporto di sottomissione e continui giochi di potere. Nel film vediamo Daniel scavare nella terra cosí a fondo da fondersi metaforicamente con essa, tanto da addormentarsi più volte sul pavimento. Un’immagine particolarmente evocativa: dopo aver trivellato il suolo e installato un rudimentale pozzo petrolifero, un operaio benedice il figlio con il petrolio. Si tratta di una sequenza rapida ma iconica, la traduzione in immagine di ciò che era l’America in quel momento: una nazione giovane, battezzata da questo elemento naturale che la segnerà per il resto della sua storia.
Sul piano drammaturgico la particolarità di There Will Be Blood è quella di non essere affatto un biopic tradizionale. Vediamo soltanto alcune fasi della lunga vita di Daniel, sempre segnate dalla dualità con il prete Eli, un personaggio dal ruolo ambiguo e difficile da inquadrare in una dimensione drammaturgica classica (eroe e antagonista). Questa relazione contorta e violenta tra il protagonista e questa figura religiosa ha fatto maturare una grande curiosità per il film successivo di Anderson, The Master (2012), incentrato sulla controversa figura del fondatore di Scientology: Ron Hubbard.
Quando il film è stato presentato al festival di Venezia del 2012, tutti si aspettavano da Anderson un racconto critico e blasfemo sull’universo di Scientology. Lancaster Dod, il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman e ispirato alla figura di Hubbard, è invece mosso da un sincero desiderio di estirpare i mali esistenziali che lo tormentano con il fine di diffondere un metodo che possa funzionare anche per le altre persone. La sua teoria è che il male che attanaglia l’esistenza di ognuno di noi è il frutto dei limiti che noi stessi ci poniamo. Ma Lancaster non è nemmeno così sicuro del verbo che sta diffondendo, tanto da sperimentare invano e ossessivamente diverse metodologie per ottenere dei riscontri scientifici. Il suo cammino si incrocia con quello di Freddie, un militare congedato dalla guerra di Corea con gravi problemi di alcolismo e difficoltà a controllare la rabbia. Tra Lancaster e Freddie si instaura un rapporto dai caratteri universali e archetipici: la ragione contro l’istinto. The Master racconta l’eterna volontà dell’uomo di scontrarsi con un padrone che, seppure in buona fede, è costretto a imporre delle regole per stabilire un ordine. Freddie però si ribella alle regole del suo maestro e fugge nel deserto in sella alla motocicletta di Lancaster.
Questa sequenza è l’immagine di una fuga verso una dimensione umana più elevata, la ricerca di una libertà individuale che è probabilmente un miraggio inafferrabile, perché tutti siamo costretti a sottostare a un maestro.
The Master racconta l’America degli anni cinquanta, quella fase delicata in cui il paese ha vissuto nella paura di un possibile conflitto atomico e che ha raggiunto il suo culmine con la crisi dei missili di Cuba. L’immaginario hollywoodiano in quegli anni raccontava un paese patinato e dominato dalla promessa (mantenuta) dell’American Way of Life: i salari alti e le comodità che ne derivarono servirono a compensare la percezione delle tensioni internazionali. In compenso ci fu un grande fermento culturale, specialmente nei circoli intellettuali che sentirono il peso oppressivo della standardizzazione delle masse e diedero il via ad esperienze letterarie come la Beat Generation. In questo particolare contesto si fece largo Ron Hubbard, prolifico ed eclettico scrittore di fantascienza che negli anni trenta aveva avuto un buon successo letterario. Dopo l’intensa attività da romanziere, il giovane Hubbard si era arruolato in marina e al suo ritorno in patria frequentò l’Ordo Templi Orientis, un controverso circolo spirituale occulto dove, probabilmente, elaborò le teorie che riportò nel libro “Dianetics: la forza del pensiero sul corpo”, pubblicato nel 1950. Grazie a questo libro Hubbard raccolse molte persone che evidentemente sentirono la necessità di trovare una propria identità spirituale.
Negli anni a venire questo clima culturale contribuì alla diffusione nel paese di un movimento pacifista e anticonformista che sfociò nelle proteste all'Università di Berkley del 1963. La mobilitazione universitaria crebbe negli anni man mano che la guerra in Vietnam causava sempre piú vittime, e trovò nel rock la cassa di risonanza che diffuse i valori della controcultura. Si arrivò così al movimento hippy raccontato da Anderson in Inherent Vice (2016), adattamento dell’omonimo libro di Thomas Pynchon.
La complessità polifonica delle opere di Pynchon (che ha fatto da apripista al movimento letterario postmoderno), ha rappresentato da sempre una sfida per i registi di Hollywood che non sono mai riusciti ad adattare un suo romanzo. P.T. Anderson stava lavorando all’adattamento di Vineland, pubblicato nel 1990, ma alla pubblicazione di Inherent Vice nel 2009 Anderson decise di adattare questo noir ambientato nella psichedelica Los Angeles del 1970.
Doc Sportello è un investigatore privato che viene assunto per lavorare a una serie di intricati casi apparentemente collegati fra loro e nei quali è coinvolta la sua ex fidanzata Shasta, femme fatale di cui Doc è ancora irrimediabilmente innamorato. Inherent Vice racconta la disillusione della generazione dei figli dei fiori, ma lo sguardo non è lucido e critico come quello che Antonioni ha avuto con Zabriskie Point. Al contrario, il film di Anderson guarda con malinconia a quell’epoca (forse perchè non l’ha mai vissuta) e a quell’utopia rivelatasi fallimentare che è stata la controcultura.
La complessa struttura narrativa del film, e i numerosi elementi di disturbo, le continue coincidenze o situazioni grottesche, sono interferenze escogitate per ricreare lo sguardo soggettivo di Sportello, perennemente sballato per i numerosi spinelli che fuma. L’esperienza può essere paragonata al vedere un classico noir come The Big Sleep da strafatti. Nel cercare di spiegare razionalmente Inherent Vice si rischia di far perdere quel senso di smarrimento che procura il film alla prima visione. Ed è proprio il titolo del film, il cui significato ci viene rivelato a metà dell’opera, che svela la condizione umana in cui si trova Doc. Sarà Sortilege, la misteriosa voce narrante del film, a rivelare: “Inherent Vice, nelle polizze assicurative marittime, è tutto ciò che non si può prevedere. Uova che si rompono, cioccolata che si scioglie, bicchieri che si spaccano.” Il vizio di forma è l’indice della possibilità che ogni oggetto possiede di deteriorarsi a causa dell’instabilità dei componenti che ne fanno parte, e non per cause esterne.
Il titolo del libro potrebbe essere una metafora dell’intera generazione degli hippie, una cultura che è finita per deteriorarsi dal suo interno, con le stesse armi da loro vendute come il nettare per aprire le porte della percezione: le droghe. I protagonisti cercano ingenuamente di sfruttare delle buone correnti karmiche, ma sembrano confusi e incapaci di spiegare le vele al momento giusto. Inherent Vice è forse il film più politico di Anderson, un’odissea all’interno di un'epoca. È solo in apparenza un film che rimpiange la controcultura, perché scava al suo interno e ne rivela pregi e difetti, fino a rappresentare la sconfitta definitiva leggibile nelle parole di Sortilege: “Eppure non c’è modo di evitare il tempo. Il mare del tempo. Il mare del ricordo e della dimenticanza. Gli anni delle promesse andate e ormai irrecuperabili. Della terra a cui è stato concesso di rivendicare un destino migliore per poi vedere quella rivendicazione ignorata da noti malfattori e invece presa e tenuta in ostaggio da un futuro in cui dobbiamo vivere per sempre. Speriamo che questa nave benedetta sia in rotta verso lidi migliori. Risorta e redenta. Dove il fato dell’America per fortuna non è riuscito a trapelare.“
Anderson ha dichiarato di aver cominciato a vedere film porno fin da quando andava alle scuole elementari, quando scoprì nel seminterrato di casa la “cineteca” a luci rosse appartenente al padre. All’età di diciotto anni realizza un mockumentary sulla vita di un attore a luci rosse. Otto anni dopo, quel lavoro verrà trasformato nel secondo film di Anderson: Boogie Nights, ambientato tra la fine degli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80.
Dirk Digler è un lavapiatti che scopre di avere un talento eccezionale che gli farà cambiare per sempre la sua vita: la dimensione del suo pene. Per Dirk comincia un’ascesa nella fiorente industria pornografica degli anni settanta, dalla quale proverà ad allontanarsi senza successo per poi farvi ritorno.
Boogie Nights è un film che ha messo in mostra la seducente decadenza della cultura pop e dei suoi eccessi. Le pareti della stanza di Eddie sono adornate da poster che ritraggono i modelli dominanti della cultura giovanile di quegli anni: donne nude, auto sportive, arti marziali, la cultura del fitness, del fisico scolpito. Eddie (Mark Wahlberg) incarna l’immagine di un corpo prestante, lui stesso si definisce “nato pronto”. Il risultato è stato un affresco storico della transizione estetica e sociale dagli anni Settanta agli Ottanta. Furono gli anni di Ronald Reagan, ex attore che divenne presidente degli Stati Uniti e fautore della sua Reaganomics, baluardo neoliberista che condizionó l’indirizzo politico di tutto l’occidente e che portó la società consumistica verso una definitiva consacrazione. Boogie Nights parla anche della dipendenza dalla cocaina che in quegli anni fu una vera e propria piaga sociale negli Stati Uniti.
La famiglia è il tema da cui il film nasce, si sviluppa e con cui infine si chiude. La frattura del nucleo familiare, la ribellione dei ragazzi rispetto agli schemi della generazione precedente, la violenza e solitudine come conseguenza, sono tutti aspetti che raccontano perfettamente la crisi della famiglia tradizionale, fenomeno che ha contraddistinto la società americana negli anni settanta. Un cambiamento inevitabile dopo la grande rivoluzione culturale degli anni sessanta, che aveva lanciato le battaglie contro i tabù del passato come l’omosessualità e la libertà sessuale.
La frattura tra due generazioni, tra due modi diversi di percepire la vita, è il filo conduttore che ci porta ad Hard Eight. Sydney, un uomo sulla sessantina, incontra John, un giovane che vaga smarrito sulla strada che collega la California e il Nevada. I loro destini si incrociano nel momento in cui Sydney rivela a John un metodo infallibile per poter vincere nei casinò di Las Vegas. Il senso di giovinezza perduta riecheggia ancora più forte perché in contrasto con una città caotica e folgorante come Las Vegas, che però sembra rimanere sempre sullo sfondo, influenzando solo indirettamente la vita dei personaggi.
Hard Eight suscita nello spettatore un forte enigma iniziale. Dopo il lungo prologo d’apertura, di circa venti minuti, lo spettatore comincia a porsi delle domande: chi è veramente Sydney? Quali sono le sue reali intenzioni nei confronti del ragazzo? Il rebus alla fine non ci viene svelato da uno scontro fra i due protagonisti, bensì da un personaggio esterno al loro rapporto (Jimmy), mentre John ha già attraversato la frontiera, quindi lo spettatore sa che non ci sarà un confronto tra i due. Il segreto del passato di Sydney, che molti anni prima ha ucciso il padre di John, ci viene svelato con un notevole ritardo rispetto ai canoni classici di Hollywood. L’elemento di rottura con il genere noir però è rappresentato soprattutto dalla mancanza di azione: con questa scelta, Anderson non intende mettere alla prova la pazienza dello spettatore, né tantomeno procurargli un senso di frustrazione, bensì vuole concentrare l’attenzione sui personaggi, sulle loro caratteristiche umane. Il regista losangelino mette a fuoco un piccolo gruppo di figure e abbozza una serie di linee narrative tipiche del genere crime/noir, ma non dà al soggetto un plot classico, in cui la storia è trainata dall’azione. Come scrive Diego Mondella nel suo saggio Piovono rane dal cielo il film è “incentrato sul dialogo e sui personaggi, tracciando i rapporti tra Sydney, John e una cameriera Clementine, nessuno dei quali sembra essere fortemente condizionato dall’intreccio”.
Questa peculiarità della sceneggiatura si ripete in molti film di Anderson. Diverse volte, infatti, si prova un senso di spaesamento alla visione dei suoi film, conseguenza della mancanza di conclusione degli intrecci. I personaggi sembrano entrare ed uscire senza rispettare quei raccordi narrativi tipici del cinema classico. Il regista non si prende la briga di “spiegare troppo” perché il quesito iniziale assume un ruolo secondario nell’economia della narrazione. Allo stesso tempo, c’è un clima di ambiguità morale che pervade il mondo del gioco d’azzardo. I personaggi di Hard Eight sembrano delle entità astratte, vittime impotenti di un destino tragico e inesplicabile, imprigionate in uno spazio fatto di luci sfavillanti come quelle del casinò.
Uno spaccato emblematico che mette in mostra i difetti congeniti dei giovani e il loro senso di smarrimento. La tematica dell’instabilità della nuova generazione, la cosiddetta Generation X, è stata più volte trattata nel cinema degli anni ’90 da registi come Richard Linklater e David Fincher: hanno messo in scena una società di uomini che hanno anestetizzato i propri sentimenti e che sembrano trascinarsi spenti e privi di entusiasmo, alla ricerca di piaceri effimeri che però non li rendono felici. Questi temi si aprono come un vaso di pandora, o meglio, come il fiore di una Magnolia (1999).
Dopo il successo commerciale e di critica di Boogie Nights, i produttori della New Line Cinema dissero ad Anderson che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa volesse, una posizione di libertà che, persino Anderson dirà, non gli si è presentata mai più. Magnolia è un life in a day film che descrive un giornata di nove personaggi che culminerà in una catarsi collettiva: una pioggia di rane che investe Los Angeles. Sebbene il regista fosse consapevole che inserire questo finale sarebbe stato un azzardo in tutti i sensi (la realizzazione è costata 5 milioni di dollari), decise di proseguire lo script. Anderson prepara lo spettatore provvedendo a creare il noto effetto della suspension of disbelief. Nella breve scena in cui Rose irrompe nell’appartamento della figlia, la macchina da presa, con un movimento fulmineo, inquadra una cornice al cui angolo figura la scritta: “But it did happen”.
La pioggia di animali, infatti, è un fenomeno riportato in molte nazioni del mondo. Una delle ipotesi è legata a forti venti che, transitando su bacini d’acqua, sollevando pesci o rane e trasportandoli per chilometri. Per Anderson si tratta di un evento soprannaturale anomalo e divino che si materializza sulla terra per acquietare gli animi delle persone, ristabilendo la sacralità della vita attraverso l’ordine universale. La pioggia di rane è il cuore di Magnolia, tanto che questi anfibi appaiono persino nella locandina (disegnata da Anderson) e nel trailer. Un evento che appare inspiegabile anche per i personaggi del film, eppure i suoi effetti sono immediatamente tangibili. L’impiegato Jim perdona il povero e confuso Donnie per la bravata della rapina al suo capo, il piccolo Stanley trova il coraggio di affrontare il padre assente, Frank si riavvicina al genitore morente e conoscerà Linda, sopravvissuta a un overdose, Claudia e sua madre si ritrovano dopo molti anni. Nell’attesa che la divina provvidenza si manifesti, gli abitanti della San Fernando Valley intraprendono un lento e doloroso percorso di riconciliazione. Un passaggio obbligato per la loro esistenza, alienata dai genitori e dalla società, che si compie nella piena accettazione dell’altro, perdonando i peccati altrui. Nel mondo svigorito di Anderson, nel finale, c’è spazio per un tenero sorriso di Claudia, la cui immagine è stata il germe da cui è partita tutta l’ispirazione per il film, il sorriso semplice di una ragazza affranta dal proprio dolore.
La narrazione di Magnolia, così complessa e multiforme, può essere paragonata ad un romanzo corale postmoderno. Tutti i personaggi del film sembrano aver perso l’innocenza dell’infanzia troppo prematuramente. La pellicola, inoltre, fa emergere il potere manipolatorio dello show business televisivo, mondo che Anderson conosce bene perché ci ha lavorato. Secondo la teoria di Erin Runions, Magnolia compie una denuncia della televisione che può essere letta nel senso di svalorizzazione dell’esperienza umana della memoria. La dimensione del ricordo viene sacrificata in nome di un eterno presente televisivo che provocherebbe degli shock sui vari personaggi, impedendo loro di accedere al proprio passato. Magnolia è un affresco della società postmoderna americana degli anni novanta, caratterizzata dall’invadenza della pubblicità e della televisione nelle vite personali. Alla fine del quiz non ci sono né vincitori né vinti, perché saldare i debiti del proprio passato è estremamente doloroso e complesso. Il presentatore ripete più volte “Noi possiamo chiudere col passato, ma è il passato che non chiude con noi”, e la frase diviene una sorta di comandamento a cui i protagonisti non possono sfuggire. In un’intervista al regista da parte di una giornalista del New York Times che gli chiedeva quale fosse stata l’ultima volta in cui si era confessato, il regista rispose: “È una confessione lunga tre ore. Non te ne sei accorta?”. Magnolia sembra scavare nelle radici più profonde del suo autore, rivelando le oscurità del suo mondo, quello famigliare e quello del luogo dove è cresciuto, la San Fernando Valley.
Dopo aver “scoperchiato i tetti” delle case dei nove personaggi (nove come i figli che ha avuto il padre di P.T. Anderson), lo spettatore si trova inabissato in un vortice senza fondo, generando l’effetto di una giostra impazzita come i sentimenti di Barry, il piccolo imprenditore protagonista di Punch-Drunk Love che ha paura di esprimere il suo amore per Lena.
La corrente espressiva postmoderna ha cercato di creare dei modelli per ribellarsi ai mali della società americana: Fight Club, American Psycho, Wall Street. Barry sembra invece essere la vittima sacrificale dell’era contemporanea, incapace di cavalcare l’onda del self-made man, dell’imprenditore dalla scalata semplice. La sua ditta di sturalavandini fatica a decollare, nonostante il sogno americano sembri essere tornato possibile. Sono gli anni del “Stay hungry, stay foolish”, celebre messaggio mandato da Steve Jobs ai laureandi di Stanford. Nel frattempo, però, l’11 settembre ha ricordato al mondo che anche il regno più fortificato può essere espugnato, e con esso la tranquillità quotidiana.
In quel momento molti artisti si sono resi conto che il cinismo dietro ai quali ci si nascondeva, mettendo in ridicolo le contraddizioni della società Americana, era fine a se stesso. Questi autori hanno compreso che c’era il bisogno di comunicare altro per trovare risposte ai conflitti dell’uomo contemporaneo. Con Magnolia, Anderson ha regalato al pubblico una delle esperienze cinematografiche corali più intense di sempre e ha in qualche modo preannunciato l’avvento di una nuova umanità, quella post 11 settembre. Con Punch-Drunk Love lo stesso regista in un'intervista rivelerà: “I did want to make a lighter movie”. Partendo da un individuo completamente ripiegato su se stesso, frustrato dalla società e alla disperata ricerca di conferme, emblema dell’uomo medio immerso nella società consumistica. I dialoghi sono sempre spezzettati, domande inopportune non trovano risposta, e il telefono sembra essere l’unico strumento per confidarsi più sinceramente, come quando Lena chiama Barry per dirgli che lo avrebbe voluto baciare dopo l’appuntamento.
Un taglio netto con le atmosfere più drammatiche dei suoi film precedenti, e il risultato è un'opera trasgressiva e anarchica, a tratti persino surrealista ma colma di sentimento sincero. Punch-Drunk Love non ha niente di frivolo come ci si aspetterebbe da una commedia sentimentale con Adam Sandler, ma mescola gioia di vivere e follia nevrotica. Torna di nuovo protagonista la San Fernando Valley. In questo microcosmo così simmetrico assistiamo ai deliri emotivi di Barry, antieroe contemporaneo dominato da ripetuti tormenti e paure. Barry è un esiliato dalla collettività che si proclama una brava persona, costretto a scontrarsi con il mondo di sogni consumistici nel quale vive e di cui non si accorge di essere una vittima predestinata. Attraverso le più sofisticate tecniche di marketing, gli onnipresenti cartelli pubblicitari e gli infiniti prodotti che riempiono gli scaffali dei grandi magazzini, il denaro subisce un’inquietante trasformazione diventando uno strumento di controllo. Ma è proprio nei consumi che Barry scopre una falla, grazie all’accumulo di miglia ottenute acquistando dei budini che gli permetteranno di compiere un viaggio verso le Hawaii per esprimere il suo amore per Lena. Dopo anni passati a reprimere le proprie emozioni, il destino regala a Barry la possibilità di riscattarsi per trovare la felicità attraverso un amore estremo e folgorante. Quella americana sembra essere una società evanescente e malata che ha smarrito i valori più semplici in un’eterna corsa al materialismo. Nella visione di Anderson la società dei consumi riesce a offrire solo un temporaneo sollievo dalla sofferenza e un’apparente soluzione ai problemi, rendendo invece permanenti l’insoddisfazione e la dipendenza. Concludo con le parole di David Foster Wallace che nel 1996 descrive così la condizione umana dell’epoca: “Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io”.
La rivisitazione storica di un regista
che ha scelto di misurarsi con il passato,
di Eric Scabar
TR-10
17.07.2020
È difficile trovare una chiave di lettura che possa sintetizzare il cinema di un autore poliedrico come Paul Thomas Anderson. Osservando il percorso artistico del regista nella sua totalità, è facile notare come ogni nuova opera porti con sé un profondo rinnovamento nel linguaggio visivo e drammaturgico rispetto all’opera che la precede. Basti pensare che un film come There Will Be Blood (2007) segue alla commedia romantica Punch-Drunk Love (2002). La regia camaleontica di P. T. Anderson può essere un interessante oggetto di discussione, specialmente se paragonato a grandi autori del cinema americano che hanno intrapreso un percorso analogo (Kubrick, Spielberg, Coppola). In questo caso si è voluto analizzare la filmografia di P.T. Anderson attraverso una prospettiva diversa, non propriamente cinematografica, ovvero quella della rivisitazione storica. Se poniamo i primi sette film del regista californiano su un’ipotetica linea del tempo, questi vanno a coprire quasi tutto il Novecento americano.
Alcuni grandi registi, come quelli sopracitati, hanno raccontato grandi eventi del passato con uno sguardo non convenzionale, a tratti provocatorio, pur di mettere in evidenza alcuni dettagli che permettessero di insinuare nello spettatore una rilettura di un avvenimento storico (vedi il cappotto rosso di Schindler's List, 1993). P.T. Anderson ha seguito le orme di questi grandi autori ma in modo più velato e sottile, a tratti quasi inconsapevole. La sua scelta è stata quella di ridefinire i periodi storici nei quali i suoi film sono ambientati attraverso le vicende concrete dei suoi personaggi.
Di seguito tutti i suoi film ordinati secondo la cronologia degli eventi narrati, con i relativi temi principali.
There Will Be Blood è un libero adattamento di Oil (1927) di Upton Sinclair, satira politica che narra le vicende di un magnate petroliere alle prese con la corruzione dei politici per ottenere lotti di terra californiana. Del romanzo di Sinclair, Anderson ha estratto solamente le prime 150 pagine per sviluppare la sua sceneggiatura.
Daniel è un cercatore d’oro che, durante uno scavo solitario, si imbatte in una roccia diversa da ciò che cercava, una roccia scura che cambierà per sempre la sua vita. Attraverso l’arma della persuasione Daniel edifica un piccolo villaggio per far fronte alle sue necessità imprenditoriali e promette cibo e acqua a tutti coloro che lavoreranno nei suoi pozzi petroliferi.
La visione romantica dei pionieri, che esplorano terre sconosciute in cerca di fortuna, si tramuta in un affresco storico inquietante dove regna soltanto l’avidità degli esseri umani. Il film racconta lo spirito di frontiera dominato dall’inesauribile ricerca di ricchezza attraverso lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi nelle terre del west. There Will Be Blood è il film sull’età dell’oro, oramai divenuto nero, un’allegoria del cambiamento che hanno subito gli Stati Uniti fra l’Ottocento e il Novecento, quando sono diventati una superpotenza industriale. Una fase che ha cambiato in modo indelebile non solo la storia americana, ma quella mondiale, perché ha permesso agli Stati Uniti di diventare, in pochi anni, la prima potenza economica. Anderson ha messo in scena la sua visione di chi siano stati questi pionieri divenuti poi dei magnati, e di che ruolo abbia avuto l’unica istituzione allora presente in quei territori così isolati: la Chiesa. Per ottenere ciò di cui necessita Daniel è costretto a corrompere l’unica figura che possa in qualche modo ostacolarlo: Eli, un giovane prete evangelico con il quale instaura un rapporto di sottomissione e continui giochi di potere. Nel film vediamo Daniel scavare nella terra cosí a fondo da fondersi metaforicamente con essa, tanto da addormentarsi più volte sul pavimento. Un’immagine particolarmente evocativa: dopo aver trivellato il suolo e installato un rudimentale pozzo petrolifero, un operaio benedice il figlio con il petrolio. Si tratta di una sequenza rapida ma iconica, la traduzione in immagine di ciò che era l’America in quel momento: una nazione giovane, battezzata da questo elemento naturale che la segnerà per il resto della sua storia.
Sul piano drammaturgico la particolarità di There Will Be Blood è quella di non essere affatto un biopic tradizionale. Vediamo soltanto alcune fasi della lunga vita di Daniel, sempre segnate dalla dualità con il prete Eli, un personaggio dal ruolo ambiguo e difficile da inquadrare in una dimensione drammaturgica classica (eroe e antagonista). Questa relazione contorta e violenta tra il protagonista e questa figura religiosa ha fatto maturare una grande curiosità per il film successivo di Anderson, The Master (2012), incentrato sulla controversa figura del fondatore di Scientology: Ron Hubbard.
Quando il film è stato presentato al festival di Venezia del 2012, tutti si aspettavano da Anderson un racconto critico e blasfemo sull’universo di Scientology. Lancaster Dod, il personaggio interpretato da Philip Seymour Hoffman e ispirato alla figura di Hubbard, è invece mosso da un sincero desiderio di estirpare i mali esistenziali che lo tormentano con il fine di diffondere un metodo che possa funzionare anche per le altre persone. La sua teoria è che il male che attanaglia l’esistenza di ognuno di noi è il frutto dei limiti che noi stessi ci poniamo. Ma Lancaster non è nemmeno così sicuro del verbo che sta diffondendo, tanto da sperimentare invano e ossessivamente diverse metodologie per ottenere dei riscontri scientifici. Il suo cammino si incrocia con quello di Freddie, un militare congedato dalla guerra di Corea con gravi problemi di alcolismo e difficoltà a controllare la rabbia. Tra Lancaster e Freddie si instaura un rapporto dai caratteri universali e archetipici: la ragione contro l’istinto. The Master racconta l’eterna volontà dell’uomo di scontrarsi con un padrone che, seppure in buona fede, è costretto a imporre delle regole per stabilire un ordine. Freddie però si ribella alle regole del suo maestro e fugge nel deserto in sella alla motocicletta di Lancaster.
Questa sequenza è l’immagine di una fuga verso una dimensione umana più elevata, la ricerca di una libertà individuale che è probabilmente un miraggio inafferrabile, perché tutti siamo costretti a sottostare a un maestro.
The Master racconta l’America degli anni cinquanta, quella fase delicata in cui il paese ha vissuto nella paura di un possibile conflitto atomico e che ha raggiunto il suo culmine con la crisi dei missili di Cuba. L’immaginario hollywoodiano in quegli anni raccontava un paese patinato e dominato dalla promessa (mantenuta) dell’American Way of Life: i salari alti e le comodità che ne derivarono servirono a compensare la percezione delle tensioni internazionali. In compenso ci fu un grande fermento culturale, specialmente nei circoli intellettuali che sentirono il peso oppressivo della standardizzazione delle masse e diedero il via ad esperienze letterarie come la Beat Generation. In questo particolare contesto si fece largo Ron Hubbard, prolifico ed eclettico scrittore di fantascienza che negli anni trenta aveva avuto un buon successo letterario. Dopo l’intensa attività da romanziere, il giovane Hubbard si era arruolato in marina e al suo ritorno in patria frequentò l’Ordo Templi Orientis, un controverso circolo spirituale occulto dove, probabilmente, elaborò le teorie che riportò nel libro “Dianetics: la forza del pensiero sul corpo”, pubblicato nel 1950. Grazie a questo libro Hubbard raccolse molte persone che evidentemente sentirono la necessità di trovare una propria identità spirituale.
Negli anni a venire questo clima culturale contribuì alla diffusione nel paese di un movimento pacifista e anticonformista che sfociò nelle proteste all'Università di Berkley del 1963. La mobilitazione universitaria crebbe negli anni man mano che la guerra in Vietnam causava sempre piú vittime, e trovò nel rock la cassa di risonanza che diffuse i valori della controcultura. Si arrivò così al movimento hippy raccontato da Anderson in Inherent Vice (2016), adattamento dell’omonimo libro di Thomas Pynchon.
La complessità polifonica delle opere di Pynchon (che ha fatto da apripista al movimento letterario postmoderno), ha rappresentato da sempre una sfida per i registi di Hollywood che non sono mai riusciti ad adattare un suo romanzo. P.T. Anderson stava lavorando all’adattamento di Vineland, pubblicato nel 1990, ma alla pubblicazione di Inherent Vice nel 2009 Anderson decise di adattare questo noir ambientato nella psichedelica Los Angeles del 1970.
Doc Sportello è un investigatore privato che viene assunto per lavorare a una serie di intricati casi apparentemente collegati fra loro e nei quali è coinvolta la sua ex fidanzata Shasta, femme fatale di cui Doc è ancora irrimediabilmente innamorato. Inherent Vice racconta la disillusione della generazione dei figli dei fiori, ma lo sguardo non è lucido e critico come quello che Antonioni ha avuto con Zabriskie Point. Al contrario, il film di Anderson guarda con malinconia a quell’epoca (forse perchè non l’ha mai vissuta) e a quell’utopia rivelatasi fallimentare che è stata la controcultura.
La complessa struttura narrativa del film, e i numerosi elementi di disturbo, le continue coincidenze o situazioni grottesche, sono interferenze escogitate per ricreare lo sguardo soggettivo di Sportello, perennemente sballato per i numerosi spinelli che fuma. L’esperienza può essere paragonata al vedere un classico noir come The Big Sleep da strafatti. Nel cercare di spiegare razionalmente Inherent Vice si rischia di far perdere quel senso di smarrimento che procura il film alla prima visione. Ed è proprio il titolo del film, il cui significato ci viene rivelato a metà dell’opera, che svela la condizione umana in cui si trova Doc. Sarà Sortilege, la misteriosa voce narrante del film, a rivelare: “Inherent Vice, nelle polizze assicurative marittime, è tutto ciò che non si può prevedere. Uova che si rompono, cioccolata che si scioglie, bicchieri che si spaccano.” Il vizio di forma è l’indice della possibilità che ogni oggetto possiede di deteriorarsi a causa dell’instabilità dei componenti che ne fanno parte, e non per cause esterne.
Il titolo del libro potrebbe essere una metafora dell’intera generazione degli hippie, una cultura che è finita per deteriorarsi dal suo interno, con le stesse armi da loro vendute come il nettare per aprire le porte della percezione: le droghe. I protagonisti cercano ingenuamente di sfruttare delle buone correnti karmiche, ma sembrano confusi e incapaci di spiegare le vele al momento giusto. Inherent Vice è forse il film più politico di Anderson, un’odissea all’interno di un'epoca. È solo in apparenza un film che rimpiange la controcultura, perché scava al suo interno e ne rivela pregi e difetti, fino a rappresentare la sconfitta definitiva leggibile nelle parole di Sortilege: “Eppure non c’è modo di evitare il tempo. Il mare del tempo. Il mare del ricordo e della dimenticanza. Gli anni delle promesse andate e ormai irrecuperabili. Della terra a cui è stato concesso di rivendicare un destino migliore per poi vedere quella rivendicazione ignorata da noti malfattori e invece presa e tenuta in ostaggio da un futuro in cui dobbiamo vivere per sempre. Speriamo che questa nave benedetta sia in rotta verso lidi migliori. Risorta e redenta. Dove il fato dell’America per fortuna non è riuscito a trapelare.“
Anderson ha dichiarato di aver cominciato a vedere film porno fin da quando andava alle scuole elementari, quando scoprì nel seminterrato di casa la “cineteca” a luci rosse appartenente al padre. All’età di diciotto anni realizza un mockumentary sulla vita di un attore a luci rosse. Otto anni dopo, quel lavoro verrà trasformato nel secondo film di Anderson: Boogie Nights, ambientato tra la fine degli anni ‘70 e la metà degli anni ‘80.
Dirk Digler è un lavapiatti che scopre di avere un talento eccezionale che gli farà cambiare per sempre la sua vita: la dimensione del suo pene. Per Dirk comincia un’ascesa nella fiorente industria pornografica degli anni settanta, dalla quale proverà ad allontanarsi senza successo per poi farvi ritorno.
Boogie Nights è un film che ha messo in mostra la seducente decadenza della cultura pop e dei suoi eccessi. Le pareti della stanza di Eddie sono adornate da poster che ritraggono i modelli dominanti della cultura giovanile di quegli anni: donne nude, auto sportive, arti marziali, la cultura del fitness, del fisico scolpito. Eddie (Mark Wahlberg) incarna l’immagine di un corpo prestante, lui stesso si definisce “nato pronto”. Il risultato è stato un affresco storico della transizione estetica e sociale dagli anni Settanta agli Ottanta. Furono gli anni di Ronald Reagan, ex attore che divenne presidente degli Stati Uniti e fautore della sua Reaganomics, baluardo neoliberista che condizionó l’indirizzo politico di tutto l’occidente e che portó la società consumistica verso una definitiva consacrazione. Boogie Nights parla anche della dipendenza dalla cocaina che in quegli anni fu una vera e propria piaga sociale negli Stati Uniti.
La famiglia è il tema da cui il film nasce, si sviluppa e con cui infine si chiude. La frattura del nucleo familiare, la ribellione dei ragazzi rispetto agli schemi della generazione precedente, la violenza e solitudine come conseguenza, sono tutti aspetti che raccontano perfettamente la crisi della famiglia tradizionale, fenomeno che ha contraddistinto la società americana negli anni settanta. Un cambiamento inevitabile dopo la grande rivoluzione culturale degli anni sessanta, che aveva lanciato le battaglie contro i tabù del passato come l’omosessualità e la libertà sessuale.
La frattura tra due generazioni, tra due modi diversi di percepire la vita, è il filo conduttore che ci porta ad Hard Eight. Sydney, un uomo sulla sessantina, incontra John, un giovane che vaga smarrito sulla strada che collega la California e il Nevada. I loro destini si incrociano nel momento in cui Sydney rivela a John un metodo infallibile per poter vincere nei casinò di Las Vegas. Il senso di giovinezza perduta riecheggia ancora più forte perché in contrasto con una città caotica e folgorante come Las Vegas, che però sembra rimanere sempre sullo sfondo, influenzando solo indirettamente la vita dei personaggi.
Hard Eight suscita nello spettatore un forte enigma iniziale. Dopo il lungo prologo d’apertura, di circa venti minuti, lo spettatore comincia a porsi delle domande: chi è veramente Sydney? Quali sono le sue reali intenzioni nei confronti del ragazzo? Il rebus alla fine non ci viene svelato da uno scontro fra i due protagonisti, bensì da un personaggio esterno al loro rapporto (Jimmy), mentre John ha già attraversato la frontiera, quindi lo spettatore sa che non ci sarà un confronto tra i due. Il segreto del passato di Sydney, che molti anni prima ha ucciso il padre di John, ci viene svelato con un notevole ritardo rispetto ai canoni classici di Hollywood. L’elemento di rottura con il genere noir però è rappresentato soprattutto dalla mancanza di azione: con questa scelta, Anderson non intende mettere alla prova la pazienza dello spettatore, né tantomeno procurargli un senso di frustrazione, bensì vuole concentrare l’attenzione sui personaggi, sulle loro caratteristiche umane. Il regista losangelino mette a fuoco un piccolo gruppo di figure e abbozza una serie di linee narrative tipiche del genere crime/noir, ma non dà al soggetto un plot classico, in cui la storia è trainata dall’azione. Come scrive Diego Mondella nel suo saggio Piovono rane dal cielo il film è “incentrato sul dialogo e sui personaggi, tracciando i rapporti tra Sydney, John e una cameriera Clementine, nessuno dei quali sembra essere fortemente condizionato dall’intreccio”.
Questa peculiarità della sceneggiatura si ripete in molti film di Anderson. Diverse volte, infatti, si prova un senso di spaesamento alla visione dei suoi film, conseguenza della mancanza di conclusione degli intrecci. I personaggi sembrano entrare ed uscire senza rispettare quei raccordi narrativi tipici del cinema classico. Il regista non si prende la briga di “spiegare troppo” perché il quesito iniziale assume un ruolo secondario nell’economia della narrazione. Allo stesso tempo, c’è un clima di ambiguità morale che pervade il mondo del gioco d’azzardo. I personaggi di Hard Eight sembrano delle entità astratte, vittime impotenti di un destino tragico e inesplicabile, imprigionate in uno spazio fatto di luci sfavillanti come quelle del casinò.
Uno spaccato emblematico che mette in mostra i difetti congeniti dei giovani e il loro senso di smarrimento. La tematica dell’instabilità della nuova generazione, la cosiddetta Generation X, è stata più volte trattata nel cinema degli anni ’90 da registi come Richard Linklater e David Fincher: hanno messo in scena una società di uomini che hanno anestetizzato i propri sentimenti e che sembrano trascinarsi spenti e privi di entusiasmo, alla ricerca di piaceri effimeri che però non li rendono felici. Questi temi si aprono come un vaso di pandora, o meglio, come il fiore di una Magnolia (1999).
Dopo il successo commerciale e di critica di Boogie Nights, i produttori della New Line Cinema dissero ad Anderson che avrebbe potuto fare qualsiasi cosa volesse, una posizione di libertà che, persino Anderson dirà, non gli si è presentata mai più. Magnolia è un life in a day film che descrive un giornata di nove personaggi che culminerà in una catarsi collettiva: una pioggia di rane che investe Los Angeles. Sebbene il regista fosse consapevole che inserire questo finale sarebbe stato un azzardo in tutti i sensi (la realizzazione è costata 5 milioni di dollari), decise di proseguire lo script. Anderson prepara lo spettatore provvedendo a creare il noto effetto della suspension of disbelief. Nella breve scena in cui Rose irrompe nell’appartamento della figlia, la macchina da presa, con un movimento fulmineo, inquadra una cornice al cui angolo figura la scritta: “But it did happen”.
La pioggia di animali, infatti, è un fenomeno riportato in molte nazioni del mondo. Una delle ipotesi è legata a forti venti che, transitando su bacini d’acqua, sollevando pesci o rane e trasportandoli per chilometri. Per Anderson si tratta di un evento soprannaturale anomalo e divino che si materializza sulla terra per acquietare gli animi delle persone, ristabilendo la sacralità della vita attraverso l’ordine universale. La pioggia di rane è il cuore di Magnolia, tanto che questi anfibi appaiono persino nella locandina (disegnata da Anderson) e nel trailer. Un evento che appare inspiegabile anche per i personaggi del film, eppure i suoi effetti sono immediatamente tangibili. L’impiegato Jim perdona il povero e confuso Donnie per la bravata della rapina al suo capo, il piccolo Stanley trova il coraggio di affrontare il padre assente, Frank si riavvicina al genitore morente e conoscerà Linda, sopravvissuta a un overdose, Claudia e sua madre si ritrovano dopo molti anni. Nell’attesa che la divina provvidenza si manifesti, gli abitanti della San Fernando Valley intraprendono un lento e doloroso percorso di riconciliazione. Un passaggio obbligato per la loro esistenza, alienata dai genitori e dalla società, che si compie nella piena accettazione dell’altro, perdonando i peccati altrui. Nel mondo svigorito di Anderson, nel finale, c’è spazio per un tenero sorriso di Claudia, la cui immagine è stata il germe da cui è partita tutta l’ispirazione per il film, il sorriso semplice di una ragazza affranta dal proprio dolore.
La narrazione di Magnolia, così complessa e multiforme, può essere paragonata ad un romanzo corale postmoderno. Tutti i personaggi del film sembrano aver perso l’innocenza dell’infanzia troppo prematuramente. La pellicola, inoltre, fa emergere il potere manipolatorio dello show business televisivo, mondo che Anderson conosce bene perché ci ha lavorato. Secondo la teoria di Erin Runions, Magnolia compie una denuncia della televisione che può essere letta nel senso di svalorizzazione dell’esperienza umana della memoria. La dimensione del ricordo viene sacrificata in nome di un eterno presente televisivo che provocherebbe degli shock sui vari personaggi, impedendo loro di accedere al proprio passato. Magnolia è un affresco della società postmoderna americana degli anni novanta, caratterizzata dall’invadenza della pubblicità e della televisione nelle vite personali. Alla fine del quiz non ci sono né vincitori né vinti, perché saldare i debiti del proprio passato è estremamente doloroso e complesso. Il presentatore ripete più volte “Noi possiamo chiudere col passato, ma è il passato che non chiude con noi”, e la frase diviene una sorta di comandamento a cui i protagonisti non possono sfuggire. In un’intervista al regista da parte di una giornalista del New York Times che gli chiedeva quale fosse stata l’ultima volta in cui si era confessato, il regista rispose: “È una confessione lunga tre ore. Non te ne sei accorta?”. Magnolia sembra scavare nelle radici più profonde del suo autore, rivelando le oscurità del suo mondo, quello famigliare e quello del luogo dove è cresciuto, la San Fernando Valley.
Dopo aver “scoperchiato i tetti” delle case dei nove personaggi (nove come i figli che ha avuto il padre di P.T. Anderson), lo spettatore si trova inabissato in un vortice senza fondo, generando l’effetto di una giostra impazzita come i sentimenti di Barry, il piccolo imprenditore protagonista di Punch-Drunk Love che ha paura di esprimere il suo amore per Lena.
La corrente espressiva postmoderna ha cercato di creare dei modelli per ribellarsi ai mali della società americana: Fight Club, American Psycho, Wall Street. Barry sembra invece essere la vittima sacrificale dell’era contemporanea, incapace di cavalcare l’onda del self-made man, dell’imprenditore dalla scalata semplice. La sua ditta di sturalavandini fatica a decollare, nonostante il sogno americano sembri essere tornato possibile. Sono gli anni del “Stay hungry, stay foolish”, celebre messaggio mandato da Steve Jobs ai laureandi di Stanford. Nel frattempo, però, l’11 settembre ha ricordato al mondo che anche il regno più fortificato può essere espugnato, e con esso la tranquillità quotidiana.
In quel momento molti artisti si sono resi conto che il cinismo dietro ai quali ci si nascondeva, mettendo in ridicolo le contraddizioni della società Americana, era fine a se stesso. Questi autori hanno compreso che c’era il bisogno di comunicare altro per trovare risposte ai conflitti dell’uomo contemporaneo. Con Magnolia, Anderson ha regalato al pubblico una delle esperienze cinematografiche corali più intense di sempre e ha in qualche modo preannunciato l’avvento di una nuova umanità, quella post 11 settembre. Con Punch-Drunk Love lo stesso regista in un'intervista rivelerà: “I did want to make a lighter movie”. Partendo da un individuo completamente ripiegato su se stesso, frustrato dalla società e alla disperata ricerca di conferme, emblema dell’uomo medio immerso nella società consumistica. I dialoghi sono sempre spezzettati, domande inopportune non trovano risposta, e il telefono sembra essere l’unico strumento per confidarsi più sinceramente, come quando Lena chiama Barry per dirgli che lo avrebbe voluto baciare dopo l’appuntamento.
Un taglio netto con le atmosfere più drammatiche dei suoi film precedenti, e il risultato è un'opera trasgressiva e anarchica, a tratti persino surrealista ma colma di sentimento sincero. Punch-Drunk Love non ha niente di frivolo come ci si aspetterebbe da una commedia sentimentale con Adam Sandler, ma mescola gioia di vivere e follia nevrotica. Torna di nuovo protagonista la San Fernando Valley. In questo microcosmo così simmetrico assistiamo ai deliri emotivi di Barry, antieroe contemporaneo dominato da ripetuti tormenti e paure. Barry è un esiliato dalla collettività che si proclama una brava persona, costretto a scontrarsi con il mondo di sogni consumistici nel quale vive e di cui non si accorge di essere una vittima predestinata. Attraverso le più sofisticate tecniche di marketing, gli onnipresenti cartelli pubblicitari e gli infiniti prodotti che riempiono gli scaffali dei grandi magazzini, il denaro subisce un’inquietante trasformazione diventando uno strumento di controllo. Ma è proprio nei consumi che Barry scopre una falla, grazie all’accumulo di miglia ottenute acquistando dei budini che gli permetteranno di compiere un viaggio verso le Hawaii per esprimere il suo amore per Lena. Dopo anni passati a reprimere le proprie emozioni, il destino regala a Barry la possibilità di riscattarsi per trovare la felicità attraverso un amore estremo e folgorante. Quella americana sembra essere una società evanescente e malata che ha smarrito i valori più semplici in un’eterna corsa al materialismo. Nella visione di Anderson la società dei consumi riesce a offrire solo un temporaneo sollievo dalla sofferenza e un’apparente soluzione ai problemi, rendendo invece permanenti l’insoddisfazione e la dipendenza. Concludo con le parole di David Foster Wallace che nel 1996 descrive così la condizione umana dell’epoca: “Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io”.