NC-118
08.06.2022
Negli ultimi anni il cinema internazionale ha spesso affrontato il tema della migrazione, focalizzandosi sui legami culturali, familiari e di definizione dell’individuo che vengono a mancare una volta che si è sradicati dalla propria terra.
Tra i film più interessanti ad aver esplorato lo scarto che separa la costruzione della propria identità dal bisogno di appartenere a un tessuto sociale, è stato il candidato all’Oscar per il Messico I’m No Longer Here (2019) di Fernando Frias de la Parra. Frias dà vita a un parallelo tra due narrative, saltando avanti e indietro tra le strade di New York e le colline di Monterrey seguendo Ulises (Juan Daniel Garcia Trevino), al quale il regista non a caso decide di dare il nome del viaggiatore per eccellenza, protagonista di uno dei più grandi poemi epici sul viaggio e sulla scoperta dell’altrove. L’indagine tra alienazione e connessione è evidente nel divario esistenziale che Ulises si trova a vivere nelle sue due “terre”, quando lo vediamo ballare a ritmo di cumbia-rebajada nella subculture colombiana di Monterrey e quando invece lo osserviamo nel Queens, New York, dove naviga a vista tra bullismo, solitudine e una lingua che non comprende. La fotografia di Damian Garcia inoltre, enfatizza la tematica delle scelte multiple e delle diverse strade che la vita ci offre, attraverso l’uso di superfici riflettenti e angolazioni che dividono l’immagine e ne esaltano le linee di fuga. I’m No Longer Here ci ricorda che non tutte le storie di immigrazione sono guidate da promesse o dal desiderio di fuggire, ed esplora le forze trainanti – verso o lontano da qualcosa che amiamo – e i mali che ci portano fuori strada, emanando compassione per gli animi ribelli dei migranti di tutto il mondo.
The Farewell (2019), family drama semi autobiografico di Lulu Wang, racconta invece con leggerezza e un occhio attento ai piccoli dettagli il tira e molla tra i legami familiari e culturali, riflettendo sulle complessità di mediare tra origini e futuro, affetti e necessità personali. Billi, 30enne cinese-americana con base a Brooklyn, senza soldi o prospettive, sta per perdere l’unico vero legame con le sue origini: sua nonna Nai Nai. È proprio il viaggio per andarle a dare un ultimo saluto che la distrugge e la ricostruisce emotivamente in infiniti modi, toccando molteplici corde emotive rimaste celate tutti quegli anni di crescita negli Stati Uniti. I genitori di Billi infatti sono emigrati da Changchun, nella provincia settentrionale della Cina, quando aveva solo 6 anni, ed hanno lavorato duro e sacrificato tanto per riuscire a dare alla propria figlia accesso alla classe media Americana – come non esitano a ricordarle spesso. È un’eredità complicata da gestire quella che le hanno lasciato, e a volte le contrastanti richieste di dovere di figlia, ambizione individuale, e identità culturale sembrano travolgerla. The Farewell è un film sull’equilibrio, sullo yin e lo yang tra le radici e l’identità, tra l’umorismo e la commozione.
Lion (2016), opera prima del regista Australiano Garth Davis, adatta una storia vera analizzando i temi dell’adozione e dell’identità del singolo individuo. La sceneggiatura di Luke Davies ci guida negli episodi più strazianti della vicenda ambientata in India attraverso lo sguardo innocente di Saroo bambino, e più tardi nella conquistata maturità dello stesso, divenuto giovane uomo di base in Australia, che ha lottato per riuscire a capire chi fosse realmente. Davis alterna infatti lo scorrere del film viaggiando nel tempo tra Saroo bambino (Sunny Pawar) e adulto (Dev Patel), rendendo Lion più un’Odissea emotiva che un film guidato da una forte trama. Tra gli elementi più interessanti del film c’è senz’altro la rappresentazione del piccolo Saroo come minuscolo granello di sabbia in mezzo a un mondo immenso, sconosciuto e brulicante di persone, solitudine amplificata inoltre dalle sfide comunicative del ritrovarsi in un’area dove parlano una lingua diversa dall’Hindi.
In un momento storico in cui migliaia di giovani Italiani vivono all’estero per motivi economici e lavorativi, e in cui le guerre rendono sempre più frequenti le migrazioni dei singoli e delle masse, Lion, I’m No Longer Here e The Farewell, riescono a essere delle lucide e profonde riflessioni sul significato di radici, famiglia, identità e casa.
NC-118
08.06.2022
Negli ultimi anni il cinema internazionale ha spesso affrontato il tema della migrazione, focalizzandosi sui legami culturali, familiari e di definizione dell’individuo che vengono a mancare una volta che si è sradicati dalla propria terra.
Tra i film più interessanti ad aver esplorato lo scarto che separa la costruzione della propria identità dal bisogno di appartenere a un tessuto sociale, è stato il candidato all’Oscar per il Messico I’m No Longer Here (2019) di Fernando Frias de la Parra. Frias dà vita a un parallelo tra due narrative, saltando avanti e indietro tra le strade di New York e le colline di Monterrey seguendo Ulises (Juan Daniel Garcia Trevino), al quale il regista non a caso decide di dare il nome del viaggiatore per eccellenza, protagonista di uno dei più grandi poemi epici sul viaggio e sulla scoperta dell’altrove. L’indagine tra alienazione e connessione è evidente nel divario esistenziale che Ulises si trova a vivere nelle sue due “terre”, quando lo vediamo ballare a ritmo di cumbia-rebajada nella subculture colombiana di Monterrey e quando invece lo osserviamo nel Queens, New York, dove naviga a vista tra bullismo, solitudine e una lingua che non comprende. La fotografia di Damian Garcia inoltre, enfatizza la tematica delle scelte multiple e delle diverse strade che la vita ci offre, attraverso l’uso di superfici riflettenti e angolazioni che dividono l’immagine e ne esaltano le linee di fuga. I’m No Longer Here ci ricorda che non tutte le storie di immigrazione sono guidate da promesse o dal desiderio di fuggire, ed esplora le forze trainanti – verso o lontano da qualcosa che amiamo – e i mali che ci portano fuori strada, emanando compassione per gli animi ribelli dei migranti di tutto il mondo.
The Farewell (2019), family drama semi autobiografico di Lulu Wang, racconta invece con leggerezza e un occhio attento ai piccoli dettagli il tira e molla tra i legami familiari e culturali, riflettendo sulle complessità di mediare tra origini e futuro, affetti e necessità personali. Billi, 30enne cinese-americana con base a Brooklyn, senza soldi o prospettive, sta per perdere l’unico vero legame con le sue origini: sua nonna Nai Nai. È proprio il viaggio per andarle a dare un ultimo saluto che la distrugge e la ricostruisce emotivamente in infiniti modi, toccando molteplici corde emotive rimaste celate tutti quegli anni di crescita negli Stati Uniti. I genitori di Billi infatti sono emigrati da Changchun, nella provincia settentrionale della Cina, quando aveva solo 6 anni, ed hanno lavorato duro e sacrificato tanto per riuscire a dare alla propria figlia accesso alla classe media Americana – come non esitano a ricordarle spesso. È un’eredità complicata da gestire quella che le hanno lasciato, e a volte le contrastanti richieste di dovere di figlia, ambizione individuale, e identità culturale sembrano travolgerla. The Farewell è un film sull’equilibrio, sullo yin e lo yang tra le radici e l’identità, tra l’umorismo e la commozione.
Lion (2016), opera prima del regista Australiano Garth Davis, adatta una storia vera analizzando i temi dell’adozione e dell’identità del singolo individuo. La sceneggiatura di Luke Davies ci guida negli episodi più strazianti della vicenda ambientata in India attraverso lo sguardo innocente di Saroo bambino, e più tardi nella conquistata maturità dello stesso, divenuto giovane uomo di base in Australia, che ha lottato per riuscire a capire chi fosse realmente. Davis alterna infatti lo scorrere del film viaggiando nel tempo tra Saroo bambino (Sunny Pawar) e adulto (Dev Patel), rendendo Lion più un’Odissea emotiva che un film guidato da una forte trama. Tra gli elementi più interessanti del film c’è senz’altro la rappresentazione del piccolo Saroo come minuscolo granello di sabbia in mezzo a un mondo immenso, sconosciuto e brulicante di persone, solitudine amplificata inoltre dalle sfide comunicative del ritrovarsi in un’area dove parlano una lingua diversa dall’Hindi.
In un momento storico in cui migliaia di giovani Italiani vivono all’estero per motivi economici e lavorativi, e in cui le guerre rendono sempre più frequenti le migrazioni dei singoli e delle masse, Lion, I’m No Longer Here e The Farewell, riescono a essere delle lucide e profonde riflessioni sul significato di radici, famiglia, identità e casa.