NC-134
21.12.2022
È stato la mano di Dio, attualmente l’ultimo film del premio Oscar Paolo Sorrentino, distribuito su Netflix lo scorso anno, non mancava di protagonisti indimenticabili, ispirati alle vere vicende dell’adolescenza del regista. Tra i più iconici personaggi di questo romanzo di formazione autobiografico c'era senza dubbio il riottoso Capuano, a cui si devono frasi del film diventate instant cult subito dopo il suo arrivo su Netflix, una su tutte: «non ti disunire». Quello che non tutti sanno è che Capuano è ispirato a un vero regista dell’hinterland napoletano, Antonio Capuano per l’appunto, da sempre indicato da Sorrentino come il suo unico, vero maestro di cinema, il regista che gli ha insegnato sul campo cosa implicasse il montare un film.
Se forse si possono riconoscere, per ragioni anche anagrafiche, in Silvano Agosti, Franco Piavoli e Tonino De Bernardi, i tre decani del cinema indipendente italiano, anche Antonio Capuano, classe 1940, brilla per la coerenza e l’integrità del suo percorso. Dopo essere stato a lungo scenografo per le più canoniche fiction televisive della RAI, nei primi anni novanta Capuano si è completamente reinventato, esordendo alla regia di un lungometraggio con lo stranissimo Vito e gli altri, dramma famigliare interpretato da attori non professionisti, e vincitore del premio della Settimana della Critica a Venezia 1991. Dopo Vito, si susseguono nel giro di pochi anni una serie di opere realizzate sempre con una certa penuria di mezzi ma una costante inventiva artistica, in un immaginario registico che ruotava sempre attorno a Napoli, la sua periferia e i suoi fantasmi. Tutto ha però il cinema di Capuano, se non quell’afflato finto-umanistico che tanto ha piagato la rappresentazione di Napoli sul grande schermo, nel cinema italiano degli ultimi vent’anni. La sua frase-manifesto, pronunciata in uno dei suoi primi spettacoli teatrali, è: «l’umanità la tene in bocca nu cane!».
Sempre negli anni novanta Capuano firma Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), Polvere di Napoli (1998), un episodio del film collettivo I vesuviani (1997) intitolato Sofialorèn, il cortometraggio L’unico paese al mondo (1994) e Luna Rossa (2001), che, finito in concorso a Venezia, segna un’inaspettata consacrazione per l’autore vissuto sempre ai margini dei circuiti ufficiali del cinema italiano. Dopo il successo critico di Luna rossa, seguono svariati altri film: tra questi, L’amore buio, fosco dramma incentrato su uno stupro di gruppo e interpretato, tra gli altri, da Fabrizio Gifuni, Luisa Ranieri e Valeria Golino; Achille Tarallo, con la partecipazione di Ascanio Celestini; l’onirico Bagnoli Jungle; Il buco in testa, con Teresa Saponangelo, Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, presentato nel 2020 al Festival del Cinema di Torino. Di pochi mesi fa è la pubblicazione per la casa editrice italo-irlandese Artdigiland del libro-dialogo Da una prospettiva eccedente, curato a sei mani da Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce, composto da cinque interviste con Capuano e accompagnato da tre saggi critici in appendice. Il libro, recentemente premiato con l’Efebo d’Oro di Palermo, più che un’introduzione canonica al cinema indipendente di Capuano è una sorta di appendice della sua assurda sensibilità umana prima ancora che registica, una traccia evidente del suo modo di dialogare, di interagire con le altre persone, di restare perennemente a caccia di storie, di volti, di visioni.
Da una prospettiva eccedente contiene la quintessenza delle affermazioni di Capuano sul cinema. Si va da un inno alla monadologia - «il piccolo, il frammento contiene tutto, se hai gli occhi per guardare, le orecchie per sentire, il tatto per… Contiene tutto. Mi piace questa dimensione, la dimensione del minimo» - a un’esplicita dichiarazione di antirealismo - «basta con tutte queste scenografie, è inutile costruire la poltrona, il drappo… esiste la didascalia: reggia del Signore!», e si tenga conto che Capuano ha esordito come scenografo di fiction RAI prima di reinventarsi regista indie - si passano in rassegna ricordi sugli anni della formazione, tra Pirandello, Brecht, Godard e Beckett, e si prende atto in modo irrimediabile della dipendenza di Capuano da Napoli, anzi da Posillipo, da cui non si è mai voluto allontanare, come anche La mano di Dio di Sorrentino ha evidenziato. Sul rapporto con Sorrentino, e soprattutto sulle sue impressioni della resa del personaggio di Capuano nell’ultimo film prodotto da Netflix, i tre autori interrogano inevitabilmente il regista verso il termine della loro conversazione; ma, di fronte alla sua versione cinematografica a cui presta il volto Ciro Capano, Capuano si limita a dire che «io non mi ci riconosco, ma se è così che lui mi vede non posso farci niente», per poi concludere che «a volte si è prigionieri dei propri occhi».
Il dialogo tra Antonio Capuano e il trio Andria-Brandoni-Croce si conclude con il doppio imperativo di «avere continuamente uno sguardo su tutto» e superare incessantemente «la limitatezza del reale, che diventa più del reale: tu capisci che è trasfigurato, ma allo stesso tempo è reale». A questo duplice diktat effettivamente Capuano si è mantenuto fedele per tutto il corso della sua carriera, sin dalla fosca sequenza iniziale di Vito e gli altri, così festosa, così tragica, così esplosiva, così cinematografica. Giustamente Christian Raimo nella sua prefazione al volume a sei mani parla di una «poetica intemperante» e scrive che «rivedere i film di Capuano uno dopo l’altro ci mostra ciò che ci siamo persi: l’occasione di conoscere un’altra umanità, e di imparare a modificare il nostro sguardo sul mondo a partire da quello sguardo». Inserendosi se vogliamo nello stesso discorso pasoliniano della proverbiale scomparsa delle lucciole, e dello sviluppo senza progressi, Capuano restituisce perennemente ritratti di umanità fragile, sospesa, a tratti impura, a tratti peccatrice, sempre autentica, sempre esplosiva.
«Sai che ormai io prima della proiezione non dico più buona visione?», dice a un certo punto Capuano nel suo libro-intervista, «dico buon viaggio…Perché secondo me tu paghi il biglietto, si spengono le luci e cominci il tuo viaggio. Sei lì bello comodo, quando viaggi bene, e il film può durare tre ore ma non è mai lungo…anzi, è come se diventasse parte del tuo organismo». Se negli ultimi quindici anni, e forse già da prima di Gomorra, la rappresentazione cinematografica di Napoli si è sempre più vincolata e soffocata in una spettacolarizzazione, in una stereotipizzazione, in una banalizzazione, tanto da dover accogliere come novità assoluta i toni esistenziali e crepuscolari di un Nostalgia di Martone che, preti di strada a parte, sarebbe potuto essere ambientato in qualunque altra città marittima del Mediterraneo, la lezione di Capuano è particolarmente importante per trovare uno sguardo su Napoli che sia al tempo stesso autoctono e sincero, indigeno ed esorbitante, proteso ad eccedere il reale, ma mai fin troppo sognante, bisognoso di travolgere le cose, eppure inevitabilmente figlio della strada.
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21.12.2022
È stato la mano di Dio, attualmente l’ultimo film del premio Oscar Paolo Sorrentino, distribuito su Netflix lo scorso anno, non mancava di protagonisti indimenticabili, ispirati alle vere vicende dell’adolescenza del regista. Tra i più iconici personaggi di questo romanzo di formazione autobiografico c'era senza dubbio il riottoso Capuano, a cui si devono frasi del film diventate instant cult subito dopo il suo arrivo su Netflix, una su tutte: «non ti disunire». Quello che non tutti sanno è che Capuano è ispirato a un vero regista dell’hinterland napoletano, Antonio Capuano per l’appunto, da sempre indicato da Sorrentino come il suo unico, vero maestro di cinema, il regista che gli ha insegnato sul campo cosa implicasse il montare un film.
Se forse si possono riconoscere, per ragioni anche anagrafiche, in Silvano Agosti, Franco Piavoli e Tonino De Bernardi, i tre decani del cinema indipendente italiano, anche Antonio Capuano, classe 1940, brilla per la coerenza e l’integrità del suo percorso. Dopo essere stato a lungo scenografo per le più canoniche fiction televisive della RAI, nei primi anni novanta Capuano si è completamente reinventato, esordendo alla regia di un lungometraggio con lo stranissimo Vito e gli altri, dramma famigliare interpretato da attori non professionisti, e vincitore del premio della Settimana della Critica a Venezia 1991. Dopo Vito, si susseguono nel giro di pochi anni una serie di opere realizzate sempre con una certa penuria di mezzi ma una costante inventiva artistica, in un immaginario registico che ruotava sempre attorno a Napoli, la sua periferia e i suoi fantasmi. Tutto ha però il cinema di Capuano, se non quell’afflato finto-umanistico che tanto ha piagato la rappresentazione di Napoli sul grande schermo, nel cinema italiano degli ultimi vent’anni. La sua frase-manifesto, pronunciata in uno dei suoi primi spettacoli teatrali, è: «l’umanità la tene in bocca nu cane!».
Sempre negli anni novanta Capuano firma Pianese Nunzio, 14 anni a maggio (1996), Polvere di Napoli (1998), un episodio del film collettivo I vesuviani (1997) intitolato Sofialorèn, il cortometraggio L’unico paese al mondo (1994) e Luna Rossa (2001), che, finito in concorso a Venezia, segna un’inaspettata consacrazione per l’autore vissuto sempre ai margini dei circuiti ufficiali del cinema italiano. Dopo il successo critico di Luna rossa, seguono svariati altri film: tra questi, L’amore buio, fosco dramma incentrato su uno stupro di gruppo e interpretato, tra gli altri, da Fabrizio Gifuni, Luisa Ranieri e Valeria Golino; Achille Tarallo, con la partecipazione di Ascanio Celestini; l’onirico Bagnoli Jungle; Il buco in testa, con Teresa Saponangelo, Tommaso Ragno e Francesco Di Leva, presentato nel 2020 al Festival del Cinema di Torino. Di pochi mesi fa è la pubblicazione per la casa editrice italo-irlandese Artdigiland del libro-dialogo Da una prospettiva eccedente, curato a sei mani da Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce, composto da cinque interviste con Capuano e accompagnato da tre saggi critici in appendice. Il libro, recentemente premiato con l’Efebo d’Oro di Palermo, più che un’introduzione canonica al cinema indipendente di Capuano è una sorta di appendice della sua assurda sensibilità umana prima ancora che registica, una traccia evidente del suo modo di dialogare, di interagire con le altre persone, di restare perennemente a caccia di storie, di volti, di visioni.
Da una prospettiva eccedente contiene la quintessenza delle affermazioni di Capuano sul cinema. Si va da un inno alla monadologia - «il piccolo, il frammento contiene tutto, se hai gli occhi per guardare, le orecchie per sentire, il tatto per… Contiene tutto. Mi piace questa dimensione, la dimensione del minimo» - a un’esplicita dichiarazione di antirealismo - «basta con tutte queste scenografie, è inutile costruire la poltrona, il drappo… esiste la didascalia: reggia del Signore!», e si tenga conto che Capuano ha esordito come scenografo di fiction RAI prima di reinventarsi regista indie - si passano in rassegna ricordi sugli anni della formazione, tra Pirandello, Brecht, Godard e Beckett, e si prende atto in modo irrimediabile della dipendenza di Capuano da Napoli, anzi da Posillipo, da cui non si è mai voluto allontanare, come anche La mano di Dio di Sorrentino ha evidenziato. Sul rapporto con Sorrentino, e soprattutto sulle sue impressioni della resa del personaggio di Capuano nell’ultimo film prodotto da Netflix, i tre autori interrogano inevitabilmente il regista verso il termine della loro conversazione; ma, di fronte alla sua versione cinematografica a cui presta il volto Ciro Capano, Capuano si limita a dire che «io non mi ci riconosco, ma se è così che lui mi vede non posso farci niente», per poi concludere che «a volte si è prigionieri dei propri occhi».
Il dialogo tra Antonio Capuano e il trio Andria-Brandoni-Croce si conclude con il doppio imperativo di «avere continuamente uno sguardo su tutto» e superare incessantemente «la limitatezza del reale, che diventa più del reale: tu capisci che è trasfigurato, ma allo stesso tempo è reale». A questo duplice diktat effettivamente Capuano si è mantenuto fedele per tutto il corso della sua carriera, sin dalla fosca sequenza iniziale di Vito e gli altri, così festosa, così tragica, così esplosiva, così cinematografica. Giustamente Christian Raimo nella sua prefazione al volume a sei mani parla di una «poetica intemperante» e scrive che «rivedere i film di Capuano uno dopo l’altro ci mostra ciò che ci siamo persi: l’occasione di conoscere un’altra umanità, e di imparare a modificare il nostro sguardo sul mondo a partire da quello sguardo». Inserendosi se vogliamo nello stesso discorso pasoliniano della proverbiale scomparsa delle lucciole, e dello sviluppo senza progressi, Capuano restituisce perennemente ritratti di umanità fragile, sospesa, a tratti impura, a tratti peccatrice, sempre autentica, sempre esplosiva.
«Sai che ormai io prima della proiezione non dico più buona visione?», dice a un certo punto Capuano nel suo libro-intervista, «dico buon viaggio…Perché secondo me tu paghi il biglietto, si spengono le luci e cominci il tuo viaggio. Sei lì bello comodo, quando viaggi bene, e il film può durare tre ore ma non è mai lungo…anzi, è come se diventasse parte del tuo organismo». Se negli ultimi quindici anni, e forse già da prima di Gomorra, la rappresentazione cinematografica di Napoli si è sempre più vincolata e soffocata in una spettacolarizzazione, in una stereotipizzazione, in una banalizzazione, tanto da dover accogliere come novità assoluta i toni esistenziali e crepuscolari di un Nostalgia di Martone che, preti di strada a parte, sarebbe potuto essere ambientato in qualunque altra città marittima del Mediterraneo, la lezione di Capuano è particolarmente importante per trovare uno sguardo su Napoli che sia al tempo stesso autoctono e sincero, indigeno ed esorbitante, proteso ad eccedere il reale, ma mai fin troppo sognante, bisognoso di travolgere le cose, eppure inevitabilmente figlio della strada.