NC-137
19.01.2023
In una Copenhagen notturna dai confini sfumati e dalle atmosfere soprannaturali si muove Miu, giovane eroina protagonista di Copenhagen Cowboy, nuova serie di Nicolas Winding Refn targata Netflix. Il termine «serie» in riferimento ad un lavoro di Refn non è forse dei più appropriati, ma questo chi conosce bene l’immaginario visivo - e non solo - del regista di origine danese, lo sa bene. Con l’episodico Too Old To Die Young - distribuito sulla piattaforma Amazon Prime Video nel 2019 - il cineasta aveva fatto ritorno, fuori concorso, al Festival di Cannes, dove aveva presentato i suoi due episodi centrali. La scelta di immergere lo spettatore nel centro di un «racconto» visivo rappresentava una presa di posizione chiara. Il prodotto seriale assumeva in quel caso la forma di un’esperienza sensoriale, priva di una tessitura narrativa vera e propria, che avesse un inizio, uno svolgimento ed una fine
Copenaghen Cowboy, a dispetto del pensiero di molti, si muove in una direzione opposta e contraria. Il sodalizio tra il colosso Netflix e Refn - incarnazione del concetto di autorialità contemporanea - da vita ad un racconto di quasi sei ore in cui il regista accompagna lo spettatore in una danza ammaliante, fiabesca. Refn riesce in un’impresa tutt’altro che semplice: quella di portare a compimento un processo di totale immedesimazione da parte del pubblico in Miu, eroina silenziosa, laconica. La Copenhagen oscura, evanescente e minacciosa che abbraccia e fa da sfondo al peregrinare di Miu, diventa luogo dell’anima, visione archetipica che assume le sembianze dell’incubo. Immigrata balcanica, Miu finisce nelle grinfie di una megera di mezza età, quasi nel ruolo di talismano della fortuna. La donna infatti, oltre a gestire un vero e proprio racket di prostituzione di giovanissime ragazze insieme al violento fratello, è letteralmente ossessionata dall’idea di voler rimanere incinta di suo marito, un danese che grugnisce come un maiale ogni volta che apre bocca.
Refn torna in Danimarca, dopo diversi anni di assenza, e si addentra nuovamente nel mondo del crimine della capitale, visto attraverso gli occhi di Miu. La giovane ed esile protagonista però, è parte di una minoranza etnica immigrata nel paese scandinavo. Nel suo peregrinare senza sosta si schiera dalla parte di una donna di origine cinese, di cui diventerà amica e protettrice, aiutandola nella complessa ricerca dell’amata figlia rapita da un boss malavitoso. Miu è l’incarnazione della sempiterna lotta contro le tenebre che, in questo caso, si impersonificano in una famiglia ariana e alto borghese che gestisce - ovviamente - un traffico di maiali. In Copenhagen Cowboy, così come in tutto il personalissimo universo visivo di Nicolas Winding Refn, è l’immagine a dominare su tutto. L’assolutezza della luce, i colori e lo spasmodico utilizzo del neon permeano tutto il racconto e lo elevano verso la dimensione dell’epica, riuscendo a far sì che la narrazione si astragga oltre la dimensione del reale. Miu diventa così icona di un eroismo tutto al femminile, invischiata in una perpetua battaglia contro il male, forte della consapevolezza di non poterne annullare l’essenza uccidendolo completamente, ma capace di sovvertire la dominante maschile di esso.
L’ultimo lavoro di Refn diventa quindi sintesi perfetta del suo cinema, sia a livello tematico che estetico, riuscendo, forse per primo, in un’impresa per nulla scontata, che tira direttamente in ballo Netflix stesso. Per la prima volta, all’interno del catalogo del re dello streaming, siamo testimoni di un prodotto che non si piega ai dettami imposti dalla prassi seriale, sottolineando a gran voce la propria distanza da un certo tipo di prototipo dell’industria. Copenhagen Cowboy mette in scena in modo più che affascinante l’eterno scontro tra la luce e l’ombra. Non c’è un finale perché il termine fine viene privato di qualsivoglia significato o necessità. Un atto di rivendicazione autoriale all’interno della piattaforma più mainstream di sempre.
NC-137
19.01.2023
In una Copenhagen notturna dai confini sfumati e dalle atmosfere soprannaturali si muove Miu, giovane eroina protagonista di Copenhagen Cowboy, nuova serie di Nicolas Winding Refn targata Netflix. Il termine «serie» in riferimento ad un lavoro di Refn non è forse dei più appropriati, ma questo chi conosce bene l’immaginario visivo - e non solo - del regista di origine danese, lo sa bene. Con l’episodico Too Old To Die Young - distribuito sulla piattaforma Amazon Prime Video nel 2019 - il cineasta aveva fatto ritorno, fuori concorso, al Festival di Cannes, dove aveva presentato i suoi due episodi centrali. La scelta di immergere lo spettatore nel centro di un «racconto» visivo rappresentava una presa di posizione chiara. Il prodotto seriale assumeva in quel caso la forma di un’esperienza sensoriale, priva di una tessitura narrativa vera e propria, che avesse un inizio, uno svolgimento ed una fine
Copenaghen Cowboy, a dispetto del pensiero di molti, si muove in una direzione opposta e contraria. Il sodalizio tra il colosso Netflix e Refn - incarnazione del concetto di autorialità contemporanea - da vita ad un racconto di quasi sei ore in cui il regista accompagna lo spettatore in una danza ammaliante, fiabesca. Refn riesce in un’impresa tutt’altro che semplice: quella di portare a compimento un processo di totale immedesimazione da parte del pubblico in Miu, eroina silenziosa, laconica. La Copenhagen oscura, evanescente e minacciosa che abbraccia e fa da sfondo al peregrinare di Miu, diventa luogo dell’anima, visione archetipica che assume le sembianze dell’incubo. Immigrata balcanica, Miu finisce nelle grinfie di una megera di mezza età, quasi nel ruolo di talismano della fortuna. La donna infatti, oltre a gestire un vero e proprio racket di prostituzione di giovanissime ragazze insieme al violento fratello, è letteralmente ossessionata dall’idea di voler rimanere incinta di suo marito, un danese che grugnisce come un maiale ogni volta che apre bocca.
Refn torna in Danimarca, dopo diversi anni di assenza, e si addentra nuovamente nel mondo del crimine della capitale, visto attraverso gli occhi di Miu. La giovane ed esile protagonista però, è parte di una minoranza etnica immigrata nel paese scandinavo. Nel suo peregrinare senza sosta si schiera dalla parte di una donna di origine cinese, di cui diventerà amica e protettrice, aiutandola nella complessa ricerca dell’amata figlia rapita da un boss malavitoso. Miu è l’incarnazione della sempiterna lotta contro le tenebre che, in questo caso, si impersonificano in una famiglia ariana e alto borghese che gestisce - ovviamente - un traffico di maiali. In Copenhagen Cowboy, così come in tutto il personalissimo universo visivo di Nicolas Winding Refn, è l’immagine a dominare su tutto. L’assolutezza della luce, i colori e lo spasmodico utilizzo del neon permeano tutto il racconto e lo elevano verso la dimensione dell’epica, riuscendo a far sì che la narrazione si astragga oltre la dimensione del reale. Miu diventa così icona di un eroismo tutto al femminile, invischiata in una perpetua battaglia contro il male, forte della consapevolezza di non poterne annullare l’essenza uccidendolo completamente, ma capace di sovvertire la dominante maschile di esso.
L’ultimo lavoro di Refn diventa quindi sintesi perfetta del suo cinema, sia a livello tematico che estetico, riuscendo, forse per primo, in un’impresa per nulla scontata, che tira direttamente in ballo Netflix stesso. Per la prima volta, all’interno del catalogo del re dello streaming, siamo testimoni di un prodotto che non si piega ai dettami imposti dalla prassi seriale, sottolineando a gran voce la propria distanza da un certo tipo di prototipo dell’industria. Copenhagen Cowboy mette in scena in modo più che affascinante l’eterno scontro tra la luce e l’ombra. Non c’è un finale perché il termine fine viene privato di qualsivoglia significato o necessità. Un atto di rivendicazione autoriale all’interno della piattaforma più mainstream di sempre.