Il cinema di Christian Petzold
e i fantasmi della Germania riunificata,
di Rodrigo Mella
TR-44
19.12.2021
Il 17 agosto 1962, a circa un anno dall’innalzamento del muro di Berlino, un giovane muratore della zona Est di nome Peter Fechter decise insieme all’amico Helmut Kulbeik di rischiare la vita per provare a scavalcarlo. Il piano era quello di appostarsi all’interno di una falegnameria vicina al muro per monitorare i movimenti delle guardie, e approfittare di un loro momento di distrazione per saltare dalla finestra ed atterrare nella striscia della morte – una zona franca ancora in via di costruzione tra il muro principale e una seconda recinzione parallela. Una volta attraversata di corsa la striscia, i due avrebbero tentato la sorte arrampicandosi sul secondo muro, alto solo due metri e ricoperto di filo spinato. Il piano sembrò funzionare alla perfezione, finché arrivato il momento di scavalcare vennero scoperti dalle guardie di frontiera dell’Est che aprirono il fuoco verso i due uomini in fuga. Tra le varie raffiche Kulbeik riuscì miracolosamente ad arrampicarsi senza essere colpito e a ricadere nella Berlino Ovest, Fechter invece subì una sorte ben meno felice. Una pallottola gli si piantò nel bacino e lo fece ricadere all’indietro nella striscia della morte sotto gli occhi di decine di testimoni. Ferito e incapace di muoversi, Fechter rimase in questa terra di nessuno per circa un’ora senza poter ricevere aiuto da nessuna delle due giurisdizioni, che lo lasciarono morire dissanguato.
La tragedia di Peter Fechter riassume in modo assurdamente didascalico la politicizzazione della relazione tra uomo e spazio, nonché la tenuità della stessa. Lo spazio come nazione e confine, lo spazio come proprietà privata, lo spazio come strumento di repressione, lo spazio come simbolo di libertà – che sia il paese di nascita, la casa in cui si abita o il posto di lavoro, l’essere umano si definisce e viene definito per lo più dalla sua relazione specifica con lo spazio che lo circonda. Il legame inossidabile che si crea tra il senso di sé e lo spazio fa sì che quest’ultimo – e nello specifico l’invasione di uno spazio considerato altrui – diventi un piano di conflitto capace di mobilitare popolazioni intere, un principio per cui vale la pena morire. E se è vero che il conflitto è la forza trainante di qualsiasi storia, allora il cinema di Christian Petzold è la dimostrazione che non esiste motore drammatico più potente dello spazio.
Petzold nasce pochi mesi prima della costruzione del muro, in un momento storico in cui le divisioni interne della Germania stavano contribuendo a creare ulteriori spaccature nella già ambigua e confusa identità nazionale. Il muro, difatti, fu una conseguenza diretta del nazionalismo sfocato dell’epoca, e la sua funzione era proprio quella di definire un confine che altrimenti sarebbe stato impossibile da tracciare. Le migliaia di scissioni familiari causate dalla separazione tra Est e Ovest, nonché gli effetti postumi della guerra, fecero sì che negli anni ‘60 la Germania diventasse una nazione popolata da fantasmi. Petzold cresce, come molti altri della sua generazione, in contrapposizione allo spazio in cui vive. I confini per lui non sono concetti meramente politici o astratti, bensì tangibili e incontrovertibili fonti di conflitto. Finito il liceo nella città di Haan (Germania Ovest), Petzold completa il servizio civile militare in un piccolo cinema di una YMCA locale dove proietta film per adolescenti problematici, per poi trasferirsi a Berlino e iniziare il proprio percorso di formazione. Passa sei anni tra il 1988 e il 1994 all’interno dell’Accademia Tedesca di Cinema e Televisione (DFFB), dove conosce il suo mentore Harun Farocki, e realizza cinque cortometraggi e un lungometraggio per televisione. Nonostante questi lavori fluttuino in modo anche incoerente tra la sperimentazione, il documentario e la finzione, da subito emerge una fascinazione di Petzold per lo spazio, per cui il conflitto tra i personaggi sorge organicamente dal luogo in cui si trovano. Nel cortometraggio-documentario Ostwärts (1991) il regista interroga tre abitanti della Berlino nord sulle proprie intenzioni e prospettive future subito dopo la riunificazione. Da queste tre conversazioni emerge una chiara presa di coscienza su come la cancellazione di uno spazio avesse immediatamente dato il via alla creazione di uno nuovo. Petzold riesce a documentare un momento chiave sia per la storia moderna sia per il proprio percorso artistico, in cui finalmente si danno le condizioni per un’intera generazione di rimodellare il proprio mondo a loro immagine e somiglianza. La nazione era tornata in controllo di sé stessa e la ricerca di una nuova e riunificata identità partì proprio dalla percezione che lo spazio non fosse più un limite, e che immaginare una nuova Germania sia dal punto di vista ideologico che fisico era veramente possibile.
La scoperta del cinema per Petzold avviene in modo poco ortodosso. Non essendoci una sala nel paesino in cui passa sia l’infanzia che l’adolescenza, i suoi primi punti di contatto furono con la rivista Filmkritik – attraverso la quale Petzold si immaginava film che avrebbe visto solo anni dopo – e soprattutto con la televisione. Non sorprende dunque che i primi tre lungometraggi Petzold li abbia realizzati proprio per il piccolo schermo, e che sia stata una complicazione politica con un'emittente televisiva ad accelerare il suo debutto su quello grande. Il primo film per il cinema di Petzold, scritto insieme a Faruki, è infatti il noir Die innere Sicherheit (2000, tradotto letteralmente in “La sicurezza interna”), e racconta la storia di Hans e Clara, due ex-membri di un gruppo terroristico di estrema sinistra in fuga per il Portogallo con la figlia adolescente Jeanne. Nelle prime stesure della sceneggiatura i due genitori appartenevano alla famigerata RAF (Rote Armee Fraktion), uno dei gruppi più influenti e violenti sorti nel dopoguerra nella Germania Ovest. In maniera analoga alle Brigate Rosse in Italia, la RAF era stata assambelta in risposta al percepito fallimento della generazione precedente di confrontare il proprio passato nazista. La televisione non aveva nessuna intenzione di finanziare o trasmettere un prodotto legato alla RAF, e a Petzold fu chiesto di cambiare la specificità della trama o altrimenti di cercarsi i fondi da un’altra parte. Alla fine, affiliando i personaggi ad un gruppo terroristico non meglio specificato, Petzold riuscì comunque a realizzare il film, ma infastidito dalla censura subita decise per la prima volta di distribuirlo in sala.
Die innere Sicherheit, che lo stesso Petzold ha definito essere in parte una critica all’incapacità del cinema di affrontare la contemporaneità, racchiude come una matriosca i conflitti d’identità vissuti dalla Germania durante e dopo il muro. Il personaggio principale è infatti quello della giovane Jeanne (che di per sé rappresenta già una rottura con i canoni del genere noir, un genere in cui non esistono i bambini, e tantomeno le famiglie), interpretato da Julia Hummer, giovanissima attrice scoperta dal fotografo Daniel Josefsohn mentre cercava di rubare qualcosa da un negozio di scarpe. Durante il trascorso del film i comportamenti ribelli di Jeanne finiscono per mettere in pericolo la sicurezza di Hans e Clara, e quella che per lei è un’emancipazione per i suoi genitori diventa una sentenza. È un film fatto di ellissi, che racconta simultaneamente due spaccature tra tre generazioni diverse – da un lato Hans e Clara rappresentano la coscienza politica della generazione del dopoguerra intenta a liberarsi di qualsiasi forma di autoritarismo; dall’altro invece c’è la ribellione di Jeanne, figlia di una Germania riunificata e neonata, e prigioniera di un'ideologia che a tratti appare altrettanto opprimente. Jeanne rappresenta l'apoliticità del mondo moderno, una generazione pronta ad immaginare un mondo costruito non sul totalitarismo ideologico ma sul volere dell’individuo. Con Die innere Sicherheit Petzold segna il primo capitolo della trilogia tematica sui fantasmi del passato – poi completata da Gespenster (2005) e Yella (2007) – e attraverso tre protagoniste in cerca di un’identità, il regista finisce per trovare la sua.
Dopo essersi affermato all’interno dei confini nazionali come uno degli autori più interessanti della sua generazione, l’ascesa di Petzold nel panorama cinematografico europeo comincia nel 2008 con l’uscita di Jerichow, presentato in concorso al 65esimo festival di Venezia. Superficialmente un triangolo amoroso in perfetto stile Il postino suona sempre due volte, il quinto film del regista tedesco è in realtà un thriller fortemente radicato nelle conseguenze della diaspora turca in Germania. Nel dopoguerra, la Germania dell’Ovest si ritrovò improvvisamente nel mezzo di un boom economico senza precedenti, come del resto gran parte del mondo occidentale. La costruzione del muro nel 1961 causò un altrettanto improvvisa carenza di manodopera data dall’interruzione dei flussi migratori dalla Germania Est, e la Germania Ovest si vide costretta a firmare un accordo di reclutamento di forza lavoro con la Turchia. Inizialmente questo prevedeva che i migranti arrivassero con il titolo di gastarbeiter, ovvero lavoratori ospiti, e che avessero il permesso di rimanere nel territorio solo per un periodo limitato di tempo. Il lavoro però continuava ad aumentare, e le pressioni degli imprenditori per prolungare i contratti e più avanti la confusione causata dall’abbattimento del muro fecero sì che gran parte dei migranti turchi finisse per stabilirsi definitivamente. Involontariamente il governo della Germania Ovest aveva dato inizio alla diaspora turca, che ad oggi conta approssimativamente 7 milioni di migranti.
Jerichow è ambientato nell’omonima cittadina nell’est della Germania, dove il capitalismo è ancora in uno stato primitivo non troppo lontano dal Far West, e le strade portano il nome di Friedrich Engels. Thomas, un veterano radiato dall’Afghanistan, torna nella propria città natale per seppellire la madre, e in disperato bisogno di soldi finisce alle dipendenze di un imprenditore turco di nome Ali, che gode di un impero di snack bar in giro per la zona. Tramite Ali, Thomas finisce per conoscere la moglie Laura e se ne innamora, al punto che i due si trovano a complottare per fare fuori il marito di lei.
Quello che potrebbe essere interpretato come un delitto passionale è in realtà un simbolo della violenza neo-nazista subita dalle comunità turche, soprattutto nella vecchia RDT. Qui le nuove generazioni di tedeschi che cercavano disperatamente di liberarsi dell’influenza sovietica finirono per attaccarsi all’unico nazionalismo che conoscevano: quello fascista. La realtà è che la condizione delle cellule di estrema destra non era poi così lontana da quella degli stessi turchi, sospesi tra due mondi ed estranei ad entrambi. Le ostilità razziali vennero man a mano strumentalizzate da entrambe le parti: da un lato appunto le milizie Neo-naziste iniziarono a combattere per la creazione delle Ausländer-freie Zonen, zone libere da migranti; e dall’altro il presidente turco Tayyip Erdogan, che definì l’assimilazione “un crimine contro l’umanità”, cercò con il suo programma politico di riappropriarsi degli abitanti di origine turca stabiliti in Germania. Non a caso, Jerichow uscì quasi in contemporanea con l’emendamento del parlamento turco che permetteva agli emigrati di votare nelle elezioni generali senza dover rientrare nel paese, una concessione di potere politico pensata espressamente per sfruttare le insicurezze di coloro che ancora non si sentivano accettati dalla società tedesca.
Dopo aver attirato l’attenzione internazionale a Venezia con Jerichow e con la vittoria dell’orso d’argento al Festival di Berlino come miglior regista per Barbara (2012), Petzold realizza a distanza di sei anni quelli che sono forse i suoi tre capolavori: Phoenix (2014), Transit (2018) e Undine (2020). Fino a Barbara lo spazio nei film di Petzold era sempre stato inteso come luogo fisico, definito da forze storiche e socio-politiche che lo rendevano incontestabile. Da Phoenix in poi invece lo spazio diventa uno strumento capace di trafiggere il tempo e di esistere in modo informe in una nuova dimensione – quella della memoria.
In Phoenix, Nelly è una superstite di Auschwitz (interpretata da Nina Hoss, alla sesta collaborazione con Petzold) di ritorno a Berlino dopo aver subito un intervento di ricostruzione facciale dovuto ad una ferita da arma da fuoco. Con un volto fasciato che ricorda quello di Christiane in Occhi senza volto, Nelly si mette alla ricerca del marito Johnny, ma una volta rintracciato questo non la riconosce per via dell’intervento. Johnny nota però una strana somiglianza tra la donna e la moglie che lui crede defunta, e decide di assoldarla per vestire i panni della sua Nelly e appropriarsi dell’eredità. Tramite questa strana relazione, Nelly finisce per scoprire che fu proprio il marito a venderla ai nazisti durante la guerra per salvarsi la pelle.
La Berlino di Phoenix è una Berlino fatta di cartapesta, e dà sempre l’impressione di poter crollare da un momento all’altro. Come la relazione tra Nelly e Johnny, anche la città stessa sembra essere costruita sulla menzogna. Petzold indaga sulla memoria fallace dell’umanità, su quanto sia facile manipolarla e distorcerla, e su come le società moderne si reggano proprio su queste falsità raccontate talmente tante volte e talmente tanto tempo fa da diventare verità inconfutabili. Un dei personaggi secondari del film, un’amica di Nelly, da subito la mette in guardia sulla disonestà del marito, e le consiglia di prendere i soldi dell’eredità e andare in Palestina per prendere parte alla creazione di uno stato ebreo indipendente. Sebbene si tratti esclusivamente di una sottotrama, lo stato che sarà poi quello di Israele era nel dopoguerra uno spazio fittizio che esisteva esclusivamente nella memoria, e che qui Petzold usa per enfatizzare la facilità con cui questa viene strumentalizzata.
Transit prende il concetto di spazio come memoria e lo proietta in un impossibile giustapposizione fisica, in quello che è forse il film più ambizioso di Petzold. Tratto dall’omonimo romanzo del 1944, il film racconta la storia di Georg (Franz Rogowski), un rifugiato politico tedesco nella Francia occupata dai nazisti, che cerca di fuggire verso il Messico ma finisce per trattenersi a Marsiglia dopo essersi innamorato della moglie di uno scrittore morto. Tutto ciò non avrebbe nulla di particolarmente originale, se non fosse che la Francia occupata nel film non è quella degli anni ‘40 ma la Francia attuale. La storia si svolge all’interno di questo anacronismo, e la clandestinità di Georg finisce per sovrapporsi alla crisi dei rifugiati di oggi. E anche questa volta il film di Petzold acquista una forza quasi profetica. Qualche mese dopo l’uscita del film infatti ha inizio la guerra del governo italiano all’Aquarius, l’imbarcazione utilizzata dai Medici Senza Frontiere per operazioni di soccorso in mare a migranti e rifugiati, che dopo le pressioni di Salvini ha dovuto interrompere la propria attività per rimanere ancorata nel porto di Marsiglia (tra l’altro, il caso vuole che la nave appartenesse originariamente proprio alla Germania). In Transit la psiche del continente europeo assume la qualità di dimensione parallela, creando un ponte fisico tra i fantasmi di oggi e quelli di ieri. È un film che mette in mostra con un immediatezza disarmante quanto sia corta la memoria collettiva, soprattutto rispetto a quella degli spazi che ci circondano.
Presentato in concorso al 70esimo festival di Berlino, Undine è l’ultimo film di Petzold ed è l’esempio migliore di come i suoi film riescano ad esistere su due livelli d'interpretazione paralleli: uno conscio e uno inconscio. Undine, oltre ad essere uno dei film d’amore più profondi di sempre, è un manifesto alla psicologia dell’individuo come tassello invisibile di quella collettiva. Nel film la memoria dei drammi personali è inestricabilmente legata alla memoria dei drammi storici, e gli eventi si succedono come in un flusso di coscienza senza inizio né fine. Il personaggio di Undine (la cui interpretazione è valsa a Paula Beer l’orso d’argento alla migliore attrice) fa la guida in un museo che offre tour sullo sviluppo urbanistico di Berlino. In una scena in particolare in cui lei e Christoph (ancora Franz Rogowski) sono a casa, Undine ripassa uno dei suoi tour recitandolo all’amante e gli racconta la storia dell’Humboldt Forum. Si tratta di un museo costruito nel 21esimo secolo su modello di un altro palazzo del 18esimo secolo che, prima di essere raso al suolo durante la guerra, occupava quello stesso luogo. La teoria architettonica dietro l’idea di ricreare un luogo già esistito e distrutto, spiega Undine, vuole sostenere che il progresso sia impossibile, e che dal passato è impossibile fuggire. Petzold si avvale della complicata storia urbanistica di Berlino per amplificare quella della vita di Undine, che vede l’amore di Christoph allontanarsi proprio a causa di una sua relazione passata.
La memoria è un elemento onnipresente dell’identità tedesca moderna, ed è proprio questo che alimenta la paura che possa essere corrotta da un momento all’altro. Christian Petzold è riuscito negli ultimi vent’anni a creare uno spazio suo, non solo all’interno del cinema ma anche e soprattutto nella coscienza di una nazione con una storia fatta di confini. I suoi film hanno acquisito la stessa forza emotiva dei ricordi, che invecchiano insieme a chi se li porta dietro e continuano a mutare forma e significato. Quelli di Petzold sono i sogni di migliaia di fantasmi sospesi nella terra di nessuno, che vedono la loro vita riflessa sul mondo e il mondo riflesso su sé stessi. Attraverso la storia di muri e separazioni, e i disperati tentativi dell’uomo di definirsi in relazione alle barriere che crea intorno a sé, il cinema di Christian Petzold è un’ode rivoluzionaria all’ambiguità, una proiezione incensurata di un mondo che a differenza di molti lui percepisce essere uno spazio fluido e sconfinato.
Il cinema di Christian Petzold
e i fantasmi della Germania riunificata,
di Rodrigo Mella
TR-44
19.12.2021
Il 17 agosto 1962, a circa un anno dall’innalzamento del muro di Berlino, un giovane muratore della zona Est di nome Peter Fechter decise insieme all’amico Helmut Kulbeik di rischiare la vita per provare a scavalcarlo. Il piano era quello di appostarsi all’interno di una falegnameria vicina al muro per monitorare i movimenti delle guardie, e approfittare di un loro momento di distrazione per saltare dalla finestra ed atterrare nella striscia della morte – una zona franca ancora in via di costruzione tra il muro principale e una seconda recinzione parallela. Una volta attraversata di corsa la striscia, i due avrebbero tentato la sorte arrampicandosi sul secondo muro, alto solo due metri e ricoperto di filo spinato. Il piano sembrò funzionare alla perfezione, finché arrivato il momento di scavalcare vennero scoperti dalle guardie di frontiera dell’Est che aprirono il fuoco verso i due uomini in fuga. Tra le varie raffiche Kulbeik riuscì miracolosamente ad arrampicarsi senza essere colpito e a ricadere nella Berlino Ovest, Fechter invece subì una sorte ben meno felice. Una pallottola gli si piantò nel bacino e lo fece ricadere all’indietro nella striscia della morte sotto gli occhi di decine di testimoni. Ferito e incapace di muoversi, Fechter rimase in questa terra di nessuno per circa un’ora senza poter ricevere aiuto da nessuna delle due giurisdizioni, che lo lasciarono morire dissanguato.
La tragedia di Peter Fechter riassume in modo assurdamente didascalico la politicizzazione della relazione tra uomo e spazio, nonché la tenuità della stessa. Lo spazio come nazione e confine, lo spazio come proprietà privata, lo spazio come strumento di repressione, lo spazio come simbolo di libertà – che sia il paese di nascita, la casa in cui si abita o il posto di lavoro, l’essere umano si definisce e viene definito per lo più dalla sua relazione specifica con lo spazio che lo circonda. Il legame inossidabile che si crea tra il senso di sé e lo spazio fa sì che quest’ultimo – e nello specifico l’invasione di uno spazio considerato altrui – diventi un piano di conflitto capace di mobilitare popolazioni intere, un principio per cui vale la pena morire. E se è vero che il conflitto è la forza trainante di qualsiasi storia, allora il cinema di Christian Petzold è la dimostrazione che non esiste motore drammatico più potente dello spazio.
Petzold nasce pochi mesi prima della costruzione del muro, in un momento storico in cui le divisioni interne della Germania stavano contribuendo a creare ulteriori spaccature nella già ambigua e confusa identità nazionale. Il muro, difatti, fu una conseguenza diretta del nazionalismo sfocato dell’epoca, e la sua funzione era proprio quella di definire un confine che altrimenti sarebbe stato impossibile da tracciare. Le migliaia di scissioni familiari causate dalla separazione tra Est e Ovest, nonché gli effetti postumi della guerra, fecero sì che negli anni ‘60 la Germania diventasse una nazione popolata da fantasmi. Petzold cresce, come molti altri della sua generazione, in contrapposizione allo spazio in cui vive. I confini per lui non sono concetti meramente politici o astratti, bensì tangibili e incontrovertibili fonti di conflitto. Finito il liceo nella città di Haan (Germania Ovest), Petzold completa il servizio civile militare in un piccolo cinema di una YMCA locale dove proietta film per adolescenti problematici, per poi trasferirsi a Berlino e iniziare il proprio percorso di formazione. Passa sei anni tra il 1988 e il 1994 all’interno dell’Accademia Tedesca di Cinema e Televisione (DFFB), dove conosce il suo mentore Harun Farocki, e realizza cinque cortometraggi e un lungometraggio per televisione. Nonostante questi lavori fluttuino in modo anche incoerente tra la sperimentazione, il documentario e la finzione, da subito emerge una fascinazione di Petzold per lo spazio, per cui il conflitto tra i personaggi sorge organicamente dal luogo in cui si trovano. Nel cortometraggio-documentario Ostwärts (1991) il regista interroga tre abitanti della Berlino nord sulle proprie intenzioni e prospettive future subito dopo la riunificazione. Da queste tre conversazioni emerge una chiara presa di coscienza su come la cancellazione di uno spazio avesse immediatamente dato il via alla creazione di uno nuovo. Petzold riesce a documentare un momento chiave sia per la storia moderna sia per il proprio percorso artistico, in cui finalmente si danno le condizioni per un’intera generazione di rimodellare il proprio mondo a loro immagine e somiglianza. La nazione era tornata in controllo di sé stessa e la ricerca di una nuova e riunificata identità partì proprio dalla percezione che lo spazio non fosse più un limite, e che immaginare una nuova Germania sia dal punto di vista ideologico che fisico era veramente possibile.
La scoperta del cinema per Petzold avviene in modo poco ortodosso. Non essendoci una sala nel paesino in cui passa sia l’infanzia che l’adolescenza, i suoi primi punti di contatto furono con la rivista Filmkritik – attraverso la quale Petzold si immaginava film che avrebbe visto solo anni dopo – e soprattutto con la televisione. Non sorprende dunque che i primi tre lungometraggi Petzold li abbia realizzati proprio per il piccolo schermo, e che sia stata una complicazione politica con un'emittente televisiva ad accelerare il suo debutto su quello grande. Il primo film per il cinema di Petzold, scritto insieme a Faruki, è infatti il noir Die innere Sicherheit (2000, tradotto letteralmente in “La sicurezza interna”), e racconta la storia di Hans e Clara, due ex-membri di un gruppo terroristico di estrema sinistra in fuga per il Portogallo con la figlia adolescente Jeanne. Nelle prime stesure della sceneggiatura i due genitori appartenevano alla famigerata RAF (Rote Armee Fraktion), uno dei gruppi più influenti e violenti sorti nel dopoguerra nella Germania Ovest. In maniera analoga alle Brigate Rosse in Italia, la RAF era stata assambelta in risposta al percepito fallimento della generazione precedente di confrontare il proprio passato nazista. La televisione non aveva nessuna intenzione di finanziare o trasmettere un prodotto legato alla RAF, e a Petzold fu chiesto di cambiare la specificità della trama o altrimenti di cercarsi i fondi da un’altra parte. Alla fine, affiliando i personaggi ad un gruppo terroristico non meglio specificato, Petzold riuscì comunque a realizzare il film, ma infastidito dalla censura subita decise per la prima volta di distribuirlo in sala.
Die innere Sicherheit, che lo stesso Petzold ha definito essere in parte una critica all’incapacità del cinema di affrontare la contemporaneità, racchiude come una matriosca i conflitti d’identità vissuti dalla Germania durante e dopo il muro. Il personaggio principale è infatti quello della giovane Jeanne (che di per sé rappresenta già una rottura con i canoni del genere noir, un genere in cui non esistono i bambini, e tantomeno le famiglie), interpretato da Julia Hummer, giovanissima attrice scoperta dal fotografo Daniel Josefsohn mentre cercava di rubare qualcosa da un negozio di scarpe. Durante il trascorso del film i comportamenti ribelli di Jeanne finiscono per mettere in pericolo la sicurezza di Hans e Clara, e quella che per lei è un’emancipazione per i suoi genitori diventa una sentenza. È un film fatto di ellissi, che racconta simultaneamente due spaccature tra tre generazioni diverse – da un lato Hans e Clara rappresentano la coscienza politica della generazione del dopoguerra intenta a liberarsi di qualsiasi forma di autoritarismo; dall’altro invece c’è la ribellione di Jeanne, figlia di una Germania riunificata e neonata, e prigioniera di un'ideologia che a tratti appare altrettanto opprimente. Jeanne rappresenta l'apoliticità del mondo moderno, una generazione pronta ad immaginare un mondo costruito non sul totalitarismo ideologico ma sul volere dell’individuo. Con Die innere Sicherheit Petzold segna il primo capitolo della trilogia tematica sui fantasmi del passato – poi completata da Gespenster (2005) e Yella (2007) – e attraverso tre protagoniste in cerca di un’identità, il regista finisce per trovare la sua.
Dopo essersi affermato all’interno dei confini nazionali come uno degli autori più interessanti della sua generazione, l’ascesa di Petzold nel panorama cinematografico europeo comincia nel 2008 con l’uscita di Jerichow, presentato in concorso al 65esimo festival di Venezia. Superficialmente un triangolo amoroso in perfetto stile Il postino suona sempre due volte, il quinto film del regista tedesco è in realtà un thriller fortemente radicato nelle conseguenze della diaspora turca in Germania. Nel dopoguerra, la Germania dell’Ovest si ritrovò improvvisamente nel mezzo di un boom economico senza precedenti, come del resto gran parte del mondo occidentale. La costruzione del muro nel 1961 causò un altrettanto improvvisa carenza di manodopera data dall’interruzione dei flussi migratori dalla Germania Est, e la Germania Ovest si vide costretta a firmare un accordo di reclutamento di forza lavoro con la Turchia. Inizialmente questo prevedeva che i migranti arrivassero con il titolo di gastarbeiter, ovvero lavoratori ospiti, e che avessero il permesso di rimanere nel territorio solo per un periodo limitato di tempo. Il lavoro però continuava ad aumentare, e le pressioni degli imprenditori per prolungare i contratti e più avanti la confusione causata dall’abbattimento del muro fecero sì che gran parte dei migranti turchi finisse per stabilirsi definitivamente. Involontariamente il governo della Germania Ovest aveva dato inizio alla diaspora turca, che ad oggi conta approssimativamente 7 milioni di migranti.
Jerichow è ambientato nell’omonima cittadina nell’est della Germania, dove il capitalismo è ancora in uno stato primitivo non troppo lontano dal Far West, e le strade portano il nome di Friedrich Engels. Thomas, un veterano radiato dall’Afghanistan, torna nella propria città natale per seppellire la madre, e in disperato bisogno di soldi finisce alle dipendenze di un imprenditore turco di nome Ali, che gode di un impero di snack bar in giro per la zona. Tramite Ali, Thomas finisce per conoscere la moglie Laura e se ne innamora, al punto che i due si trovano a complottare per fare fuori il marito di lei.
Quello che potrebbe essere interpretato come un delitto passionale è in realtà un simbolo della violenza neo-nazista subita dalle comunità turche, soprattutto nella vecchia RDT. Qui le nuove generazioni di tedeschi che cercavano disperatamente di liberarsi dell’influenza sovietica finirono per attaccarsi all’unico nazionalismo che conoscevano: quello fascista. La realtà è che la condizione delle cellule di estrema destra non era poi così lontana da quella degli stessi turchi, sospesi tra due mondi ed estranei ad entrambi. Le ostilità razziali vennero man a mano strumentalizzate da entrambe le parti: da un lato appunto le milizie Neo-naziste iniziarono a combattere per la creazione delle Ausländer-freie Zonen, zone libere da migranti; e dall’altro il presidente turco Tayyip Erdogan, che definì l’assimilazione “un crimine contro l’umanità”, cercò con il suo programma politico di riappropriarsi degli abitanti di origine turca stabiliti in Germania. Non a caso, Jerichow uscì quasi in contemporanea con l’emendamento del parlamento turco che permetteva agli emigrati di votare nelle elezioni generali senza dover rientrare nel paese, una concessione di potere politico pensata espressamente per sfruttare le insicurezze di coloro che ancora non si sentivano accettati dalla società tedesca.
Dopo aver attirato l’attenzione internazionale a Venezia con Jerichow e con la vittoria dell’orso d’argento al Festival di Berlino come miglior regista per Barbara (2012), Petzold realizza a distanza di sei anni quelli che sono forse i suoi tre capolavori: Phoenix (2014), Transit (2018) e Undine (2020). Fino a Barbara lo spazio nei film di Petzold era sempre stato inteso come luogo fisico, definito da forze storiche e socio-politiche che lo rendevano incontestabile. Da Phoenix in poi invece lo spazio diventa uno strumento capace di trafiggere il tempo e di esistere in modo informe in una nuova dimensione – quella della memoria.
In Phoenix, Nelly è una superstite di Auschwitz (interpretata da Nina Hoss, alla sesta collaborazione con Petzold) di ritorno a Berlino dopo aver subito un intervento di ricostruzione facciale dovuto ad una ferita da arma da fuoco. Con un volto fasciato che ricorda quello di Christiane in Occhi senza volto, Nelly si mette alla ricerca del marito Johnny, ma una volta rintracciato questo non la riconosce per via dell’intervento. Johnny nota però una strana somiglianza tra la donna e la moglie che lui crede defunta, e decide di assoldarla per vestire i panni della sua Nelly e appropriarsi dell’eredità. Tramite questa strana relazione, Nelly finisce per scoprire che fu proprio il marito a venderla ai nazisti durante la guerra per salvarsi la pelle.
La Berlino di Phoenix è una Berlino fatta di cartapesta, e dà sempre l’impressione di poter crollare da un momento all’altro. Come la relazione tra Nelly e Johnny, anche la città stessa sembra essere costruita sulla menzogna. Petzold indaga sulla memoria fallace dell’umanità, su quanto sia facile manipolarla e distorcerla, e su come le società moderne si reggano proprio su queste falsità raccontate talmente tante volte e talmente tanto tempo fa da diventare verità inconfutabili. Un dei personaggi secondari del film, un’amica di Nelly, da subito la mette in guardia sulla disonestà del marito, e le consiglia di prendere i soldi dell’eredità e andare in Palestina per prendere parte alla creazione di uno stato ebreo indipendente. Sebbene si tratti esclusivamente di una sottotrama, lo stato che sarà poi quello di Israele era nel dopoguerra uno spazio fittizio che esisteva esclusivamente nella memoria, e che qui Petzold usa per enfatizzare la facilità con cui questa viene strumentalizzata.
Transit prende il concetto di spazio come memoria e lo proietta in un impossibile giustapposizione fisica, in quello che è forse il film più ambizioso di Petzold. Tratto dall’omonimo romanzo del 1944, il film racconta la storia di Georg (Franz Rogowski), un rifugiato politico tedesco nella Francia occupata dai nazisti, che cerca di fuggire verso il Messico ma finisce per trattenersi a Marsiglia dopo essersi innamorato della moglie di uno scrittore morto. Tutto ciò non avrebbe nulla di particolarmente originale, se non fosse che la Francia occupata nel film non è quella degli anni ‘40 ma la Francia attuale. La storia si svolge all’interno di questo anacronismo, e la clandestinità di Georg finisce per sovrapporsi alla crisi dei rifugiati di oggi. E anche questa volta il film di Petzold acquista una forza quasi profetica. Qualche mese dopo l’uscita del film infatti ha inizio la guerra del governo italiano all’Aquarius, l’imbarcazione utilizzata dai Medici Senza Frontiere per operazioni di soccorso in mare a migranti e rifugiati, che dopo le pressioni di Salvini ha dovuto interrompere la propria attività per rimanere ancorata nel porto di Marsiglia (tra l’altro, il caso vuole che la nave appartenesse originariamente proprio alla Germania). In Transit la psiche del continente europeo assume la qualità di dimensione parallela, creando un ponte fisico tra i fantasmi di oggi e quelli di ieri. È un film che mette in mostra con un immediatezza disarmante quanto sia corta la memoria collettiva, soprattutto rispetto a quella degli spazi che ci circondano.
Presentato in concorso al 70esimo festival di Berlino, Undine è l’ultimo film di Petzold ed è l’esempio migliore di come i suoi film riescano ad esistere su due livelli d'interpretazione paralleli: uno conscio e uno inconscio. Undine, oltre ad essere uno dei film d’amore più profondi di sempre, è un manifesto alla psicologia dell’individuo come tassello invisibile di quella collettiva. Nel film la memoria dei drammi personali è inestricabilmente legata alla memoria dei drammi storici, e gli eventi si succedono come in un flusso di coscienza senza inizio né fine. Il personaggio di Undine (la cui interpretazione è valsa a Paula Beer l’orso d’argento alla migliore attrice) fa la guida in un museo che offre tour sullo sviluppo urbanistico di Berlino. In una scena in particolare in cui lei e Christoph (ancora Franz Rogowski) sono a casa, Undine ripassa uno dei suoi tour recitandolo all’amante e gli racconta la storia dell’Humboldt Forum. Si tratta di un museo costruito nel 21esimo secolo su modello di un altro palazzo del 18esimo secolo che, prima di essere raso al suolo durante la guerra, occupava quello stesso luogo. La teoria architettonica dietro l’idea di ricreare un luogo già esistito e distrutto, spiega Undine, vuole sostenere che il progresso sia impossibile, e che dal passato è impossibile fuggire. Petzold si avvale della complicata storia urbanistica di Berlino per amplificare quella della vita di Undine, che vede l’amore di Christoph allontanarsi proprio a causa di una sua relazione passata.
La memoria è un elemento onnipresente dell’identità tedesca moderna, ed è proprio questo che alimenta la paura che possa essere corrotta da un momento all’altro. Christian Petzold è riuscito negli ultimi vent’anni a creare uno spazio suo, non solo all’interno del cinema ma anche e soprattutto nella coscienza di una nazione con una storia fatta di confini. I suoi film hanno acquisito la stessa forza emotiva dei ricordi, che invecchiano insieme a chi se li porta dietro e continuano a mutare forma e significato. Quelli di Petzold sono i sogni di migliaia di fantasmi sospesi nella terra di nessuno, che vedono la loro vita riflessa sul mondo e il mondo riflesso su sé stessi. Attraverso la storia di muri e separazioni, e i disperati tentativi dell’uomo di definirsi in relazione alle barriere che crea intorno a sé, il cinema di Christian Petzold è un’ode rivoluzionaria all’ambiguità, una proiezione incensurata di un mondo che a differenza di molti lui percepisce essere uno spazio fluido e sconfinato.