INT-06
20.07.2022
Il cinema britannico è uno dei più sottovalutati in Europa. Ogni anno registi emergenti presentano opere meritevoli che faticano in un primo momento a trovare un pubblico. Il nome non conosciuto del regista gioca un ruolo chiave, ma anche l’approccio sperimentale adottato può non essere subito capito o apprezzato. Uno di questi cineasti è Mark Jenkin, autore proveniente dalla Cornovaglia in grado di distinguersi da molti registi della sua generazione. L’utilizzo del suono non sincronizzato all’immagine, lo specifico lavoro sul grain della pellicola e il montaggio rapido che accosta molti frame in maniera dissonante sono solo alcune delle caratteristiche del suo cinema. La visione a 360 gradi del filmmaker britannico viene confermata dal fatto che egli non si occupa solo della regia e della scrittura dei film, ma anche del montaggio, del suono e della fotografia, curando quasi ogni aspetto della lavorazione dei suoi lavori.
Nel 2019 Mark Jenkin ha presentato al Festival di Berlino Bait, il suo primo lungometraggio, ricevendo molte lodi. Il film è un dramma incentrato sulla persistente tensione tra le classi sociali di un villaggio di pescatori della Cornovaglia che ogni estate viene invaso da miriadi di turisti, disturbando la quiete locale. Nonostante il grande successo in patria e la vittoria del premio BAFTA come miglior regista esordiente, Bait ha faticato a trovare una distribuzione nel resto del mondo, Italia compresa.
Dopo tre anni, il cineasta presenta nella sezione Quinzaine des Realisateurs di Cannes il suo nuovo progetto sperimentale, Enys Men (pronunciato “Mein”). Il film racconta le indagini quotidiane che una donna compie riguardo un fiore misterioso apparso sull’isola in cui vive. L’ambiente isolato, la presenza di alcune rocce pagane e questa pianta fanno sì che la protagonista inizi a intuire la presenza di una comunità di minatori che non “vive” più fisicamente sull’isola. Parlare del film in maniera dettagliata ci risulta difficile perché l’approccio utilizzato da Mark Jenkin punta sull’ambiguità e non permette al pubblico di avere una risposta definita sugli eventi che accadono nel film. Siamo rimasti lo stesso ipnotizzati dalla messa in scena e dall’atmosfera claustrofobica realizzata dal cineasta, nonché dall’interpretazione di Mary Woodvine, collaboratrice di lunga data e compagna del regista. Abbiamo avuto l’occasione di parlare con entrambi durante il Festival di Cannes, discutendo del processo creativo e delle scelte tecniche dietro alla realizzazione di Enys Men.
Come è il vostro rapporto lavorativo? E più nello specifico Mark, visto che Mary è stata la protagonista di un paio dei tuoi film, tra cui Enys Men, ci chiedevamo se avesse dato qualche contributo nella scrittura dei tuoi progetti.
Per quanto riguarda Enys Men no, non ha dato nessun contributo. Ma il nostro prossimo film è una storia originale su cui abbiamo lavorato insieme, scrivendolo durante la pandemia quando eravamo letteralmente insieme tutto il tempo. Per Enys Men l’idea mi è venuta collaborando con un altro sceneggiatore ma poco dopo le nostre strade si sono separate, così ho preso le redini del progetto e ho finito di scrivere il film in tempi brevi. Questa volta non ho voluto dare nessuna informazione a Mary sul passato o le motivazioni del suo personaggio. Ho provato a fare lo stesso con chiunque lavorasse al film perché mi occupo della sceneggiatura così come dirigo e monto i miei film e in qualche modo, ogni personaggio della storia rappresenta me. Ma c’è sempre un punto durante le riprese dove qualcun altro si "impossessa" di un personaggio, è una cosa inevitabile. Lo stesso succede anche con il resto della mia crew: è capitato ad esempio che lo scenografo si occupasse di rimediare gli accessori e gli oggetti di scena che riteneva più consoni dato che nel copione non avevo scritto dettagli specifici a riguardo. Per quanto riguarda le interpretazioni, non voglio avere un attore a cui devo dire “fai questo e fai quello” perché alla fine diventerebbe solo un’altra versione di me. (“Sì, tu permetti agli attori di portare un qualcosa di personale dentro i tuoi personaggi” - aggiunge Mary Woodvine, n.d.r.). Se Mary ha qualche domanda, sono più che felice di risponderle, ma non sono la persona che dà istruzioni dettagliate su come recitare, perché ciò limita le possibili chiavi di lettura del personaggio. Quello che lei legge dalla sceneggiatura potrebbe essere diverso da quello che ho in mente io e anzi, potrebbe essere anche più interessante. Lo faccio sempre con i miei attori, ma con Enys Men è stato fondamentale, perché non voglio che la protagonista rappresenti una persona o un individuo, ma un gruppo di persone o addirittura, un’intera popolazione. “È stato un po’ frustrante e difficile perché continuavo a fare domande a Mark sul significato di alcune scene” (risponde Mary Woodvine ridendo, n.d.r.). Se fosse stato qualcun altro a farmi queste domande, avrei sentito l’obbligo di rispondere, ma siccome io e Mary siamo in stretto rapporto le rispondevo con frasi del tipo “dimmi tu cosa ne pensi di questo”. Perché alla fine, l’ambiguità che Mary ha trovato nel personaggio le ha permesso di portare sullo schermo qualcosa di specifico in grado di far provare al pubblico quella sensazione di ambiguità che circonda il personaggio. Ed è a questo punto che si ha la vera reazione dell’audience. Stamattina, durante un’altra intervista, un giornalista mi ha chiesto “allora, che diavolo era quello?” ed è stato fantastico (Mark e Mary scoppiano a ridere, n.d.r.). Mi ha detto che gli era piaciuto il film ma che continuava a chiedersi quella stessa domanda a ogni scena. Quando ho partecipato alla premiere, ho visto un film diverso rispetto a due settimane fa, forse per il contesto o la sala cinematografica in cui mi trovavo. Davanti a questo film “non narrativo”, non riesco a immaginare cosa abbia potuto pensare il pubblico se non un “cosa diavolo era quello?”. Se un cineasta vuole mettersi in discussione dal punto di vista artistico, la Quinzaine des Realisateurs è il posto giusto. Se il film fosse stato proiettato in un multiplex, tipo a Milano o a Roma, davanti a un pubblico pagante che non conosce la trama del film, quale sarebbe la reazione della gente? Potrebbero uscire dopo trenta secondi o magari, rimanere fino alla fine e riflettere su questa opera per i prossimi anni, senza sapere se sia piaciuta o no.
Uno degli aspetti chiave del film è il fiore oggetto delle analisi diurne della protagonista e che assume un ruolo sempre più importante man mano che prosegue il racconto. Puoi spiegarci qualcosa in più dietro la scelta di questo particolare fiore? È tipico della Cornovaglia?
A dire il vero il fiore non esiste, è stato creato da una delle scenografe e le dirò sicuramente di questa domanda perché sul set continuava a chiedermi se il fiore assomigliasse a uno vero. Penso che avere un elemento che avesse la purezza, la delicatezza, ma al tempo stesso un forte impatto visivo, sia stato fondamentale per il film. Inoltre, questo fiore con il suo colore acceso crea un netto contrasto con l’ambiente circostante. Quando ho deciso di fare il film a colori, ho voluto accentuarne molto l’uso, “spingendoli” più che potevo (pushing, tecnica che permette di creare contrasti elevati grazie alla maggiore durata di sviluppo della pellicola n.d.r.). Non è come il Technicolor, ma utilizza lo stesso approccio. Quando hanno iniziato a fare film a colori, i cineasti “spingevano” i colori più che potevano. Ho sempre fatto film in bianco e nero, quindi volevo un po’ sperimentare con la palette, divertirmi in poche parole. “Come Les Parapluies de Cherbourg (1964) di Jacques Demy, lo hai per caso visto? In quel film ogni stanza e ogni parete hanno un design particolare e acceso, mentre ogni personaggio indossa abiti colorati e sgargianti” (dice Mary per far capire meglio l’idea dietro la scelta di Mark, n.d.r.). In Enys Men prendi come esempio il colore rosso del faro: non credo che la gente si renda conto che è impossibile catturare quella tonalità specifica digitalmente, e lo stesso vale per il verde. Non so come hai percepito tu questi colori, o come il resto del pubblico li ha percepiti, ma quando provo a fare il rendering di un’immagine, non riesco a catturare quella tonalità di rosso e di verde che hai visto nel film. Questa procedura funziona abbastanza con il colore blu e con altre sfumature, ma in questo film volevo creare dei contrasti netti tra i vari colori. Il fiore invece è bianco e in qualche modo rappresenta la purezza e la pace, creando un buon contrasto con il rosso, colore simbolo del personaggio di Mary, e con il giallo del marinaio.
Molto interessante questo discorso che hai fatto sui colori. Ci domandavamo se avessi già in mente tutte queste scelte prima di iniziare a girare il film o se avessi lavorato sui contrasti in fase di montaggio.
Sapevo ciò che volevo dai colori, in laboratorio non volevo lavorare con delle immagini chiare o limpide. Durante le riprese ho deciso di sottoesporre ogni scena, dando poca luce e oscurando leggermente l'obiettivo. Facendo così ho potuto lavorare sui colori una volta finite le riprese, spingendoli più che potevo in modo da “distruggerli” e creare in seguito la tonalità che cercavo. È stata una scelta rischiosa, ma sapevo quello che volevo. A differenza del digitale, dove basta cliccare qualche numero per ottenere quello che vuoi, quando giri in pellicola non saprai mai esattamente come sarà il prodotto finale. L’inconsistenza delle immagini girate in pellicola è una caratteristica comune e fa parte dello charme del cinema degli anni ’70.
Ti sei ispirato a qualche pellicola degli anni ’70 in particolare?
Sì, i primi film che mi vengono in mente sono The Shout (1978) di Jerzy Skolimowski e Symptoms (1974) di José Ramòn Larraz. Don’t Look Now (1973) è un altro film, ma potrei dire lo stesso per tutto il cinema di Nicholas Roeg. Un altro regista è sicuramente Jean Rollin: non mi sono ispirato ai film porno che ha diretto verso la fine degli anni ‘70, ma ai film horror a sfondo erotico che ha fatto a inizio carriera. Mi ha ispirato il modo in cui lavorava questo autore, sempre con un budget ristretto. Mi piace l’idea di rispettare un “limite” quando si dirige un film. Inoltre, l’uso dei colori nei suoi film e il fatto che sceglieva pellicola a basso costo mi ha sempre colpito. Mi piacerebbe usare quel tipo di pellicola, ma da quello che so non lo producono più. Comunque, nei film di Jean Rollin il rosso del sangue in contrasto con la carnagione bianca dei vampiri mi ha sempre affascinato (il film a cui sta facendo riferimento è Fascination (1979), n.d.r.).
Hai citato a inizio intervista che stai lavorando a un nuovo film. Per concludere puoi dirci qualcosa su questo progetto? Lavorerai con un budget ristretto come in Bait ed Enys Men oppure sarà una produzione più grossa?
Sarà una produzione più grande, ma per necessità; il film sarà sui viaggi nel tempo, avrà due linee temporali, e collaborerò con un cast più ampio. Probabilmente dovrò ingaggiare un DOP che mi aiuti con le riprese (Mark ha fatto da DOP in tutti i suoi film, n.d.r.) perché in sostanza sarà un film in costume, ambientato in Cornovaglia nel 1990 e ai giorni nostri. Al centro della storia c’è una nave fantasma, un’imbarcazione scomparsa per trent’anni.
INT-06
20.07.2022
Il cinema britannico è uno dei più sottovalutati in Europa. Ogni anno registi emergenti presentano opere meritevoli che faticano in un primo momento a trovare un pubblico. Il nome non conosciuto del regista gioca un ruolo chiave, ma anche l’approccio sperimentale adottato può non essere subito capito o apprezzato. Uno di questi cineasti è Mark Jenkin, autore proveniente dalla Cornovaglia in grado di distinguersi da molti registi della sua generazione. L’utilizzo del suono non sincronizzato all’immagine, lo specifico lavoro sul grain della pellicola e il montaggio rapido che accosta molti frame in maniera dissonante sono solo alcune delle caratteristiche del suo cinema. La visione a 360 gradi del filmmaker britannico viene confermata dal fatto che egli non si occupa solo della regia e della scrittura dei film, ma anche del montaggio, del suono e della fotografia, curando quasi ogni aspetto della lavorazione dei suoi lavori.
Nel 2019 Mark Jenkin ha presentato al Festival di Berlino Bait, il suo primo lungometraggio, ricevendo molte lodi. Il film è un dramma incentrato sulla persistente tensione tra le classi sociali di un villaggio di pescatori della Cornovaglia che ogni estate viene invaso da miriadi di turisti, disturbando la quiete locale. Nonostante il grande successo in patria e la vittoria del premio BAFTA come miglior regista esordiente, Bait ha faticato a trovare una distribuzione nel resto del mondo, Italia compresa.
Dopo tre anni, il cineasta presenta nella sezione Quinzaine des Realisateurs di Cannes il suo nuovo progetto sperimentale, Enys Men (pronunciato “Mein”). Il film racconta le indagini quotidiane che una donna compie riguardo un fiore misterioso apparso sull’isola in cui vive. L’ambiente isolato, la presenza di alcune rocce pagane e questa pianta fanno sì che la protagonista inizi a intuire la presenza di una comunità di minatori che non “vive” più fisicamente sull’isola. Parlare del film in maniera dettagliata ci risulta difficile perché l’approccio utilizzato da Mark Jenkin punta sull’ambiguità e non permette al pubblico di avere una risposta definita sugli eventi che accadono nel film. Siamo rimasti lo stesso ipnotizzati dalla messa in scena e dall’atmosfera claustrofobica realizzata dal cineasta, nonché dall’interpretazione di Mary Woodvine, collaboratrice di lunga data e compagna del regista. Abbiamo avuto l’occasione di parlare con entrambi durante il Festival di Cannes, discutendo del processo creativo e delle scelte tecniche dietro alla realizzazione di Enys Men.
Come è il vostro rapporto lavorativo? E più nello specifico Mark, visto che Mary è stata la protagonista di un paio dei tuoi film, tra cui Enys Men, ci chiedevamo se avesse dato qualche contributo nella scrittura dei tuoi progetti.
Per quanto riguarda Enys Men no, non ha dato nessun contributo. Ma il nostro prossimo film è una storia originale su cui abbiamo lavorato insieme, scrivendolo durante la pandemia quando eravamo letteralmente insieme tutto il tempo. Per Enys Men l’idea mi è venuta collaborando con un altro sceneggiatore ma poco dopo le nostre strade si sono separate, così ho preso le redini del progetto e ho finito di scrivere il film in tempi brevi. Questa volta non ho voluto dare nessuna informazione a Mary sul passato o le motivazioni del suo personaggio. Ho provato a fare lo stesso con chiunque lavorasse al film perché mi occupo della sceneggiatura così come dirigo e monto i miei film e in qualche modo, ogni personaggio della storia rappresenta me. Ma c’è sempre un punto durante le riprese dove qualcun altro si "impossessa" di un personaggio, è una cosa inevitabile. Lo stesso succede anche con il resto della mia crew: è capitato ad esempio che lo scenografo si occupasse di rimediare gli accessori e gli oggetti di scena che riteneva più consoni dato che nel copione non avevo scritto dettagli specifici a riguardo. Per quanto riguarda le interpretazioni, non voglio avere un attore a cui devo dire “fai questo e fai quello” perché alla fine diventerebbe solo un’altra versione di me. (“Sì, tu permetti agli attori di portare un qualcosa di personale dentro i tuoi personaggi” - aggiunge Mary Woodvine, n.d.r.). Se Mary ha qualche domanda, sono più che felice di risponderle, ma non sono la persona che dà istruzioni dettagliate su come recitare, perché ciò limita le possibili chiavi di lettura del personaggio. Quello che lei legge dalla sceneggiatura potrebbe essere diverso da quello che ho in mente io e anzi, potrebbe essere anche più interessante. Lo faccio sempre con i miei attori, ma con Enys Men è stato fondamentale, perché non voglio che la protagonista rappresenti una persona o un individuo, ma un gruppo di persone o addirittura, un’intera popolazione. “È stato un po’ frustrante e difficile perché continuavo a fare domande a Mark sul significato di alcune scene” (risponde Mary Woodvine ridendo, n.d.r.). Se fosse stato qualcun altro a farmi queste domande, avrei sentito l’obbligo di rispondere, ma siccome io e Mary siamo in stretto rapporto le rispondevo con frasi del tipo “dimmi tu cosa ne pensi di questo”. Perché alla fine, l’ambiguità che Mary ha trovato nel personaggio le ha permesso di portare sullo schermo qualcosa di specifico in grado di far provare al pubblico quella sensazione di ambiguità che circonda il personaggio. Ed è a questo punto che si ha la vera reazione dell’audience. Stamattina, durante un’altra intervista, un giornalista mi ha chiesto “allora, che diavolo era quello?” ed è stato fantastico (Mark e Mary scoppiano a ridere, n.d.r.). Mi ha detto che gli era piaciuto il film ma che continuava a chiedersi quella stessa domanda a ogni scena. Quando ho partecipato alla premiere, ho visto un film diverso rispetto a due settimane fa, forse per il contesto o la sala cinematografica in cui mi trovavo. Davanti a questo film “non narrativo”, non riesco a immaginare cosa abbia potuto pensare il pubblico se non un “cosa diavolo era quello?”. Se un cineasta vuole mettersi in discussione dal punto di vista artistico, la Quinzaine des Realisateurs è il posto giusto. Se il film fosse stato proiettato in un multiplex, tipo a Milano o a Roma, davanti a un pubblico pagante che non conosce la trama del film, quale sarebbe la reazione della gente? Potrebbero uscire dopo trenta secondi o magari, rimanere fino alla fine e riflettere su questa opera per i prossimi anni, senza sapere se sia piaciuta o no.
Uno degli aspetti chiave del film è il fiore oggetto delle analisi diurne della protagonista e che assume un ruolo sempre più importante man mano che prosegue il racconto. Puoi spiegarci qualcosa in più dietro la scelta di questo particolare fiore? È tipico della Cornovaglia?
A dire il vero il fiore non esiste, è stato creato da una delle scenografe e le dirò sicuramente di questa domanda perché sul set continuava a chiedermi se il fiore assomigliasse a uno vero. Penso che avere un elemento che avesse la purezza, la delicatezza, ma al tempo stesso un forte impatto visivo, sia stato fondamentale per il film. Inoltre, questo fiore con il suo colore acceso crea un netto contrasto con l’ambiente circostante. Quando ho deciso di fare il film a colori, ho voluto accentuarne molto l’uso, “spingendoli” più che potevo (pushing, tecnica che permette di creare contrasti elevati grazie alla maggiore durata di sviluppo della pellicola n.d.r.). Non è come il Technicolor, ma utilizza lo stesso approccio. Quando hanno iniziato a fare film a colori, i cineasti “spingevano” i colori più che potevano. Ho sempre fatto film in bianco e nero, quindi volevo un po’ sperimentare con la palette, divertirmi in poche parole. “Come Les Parapluies de Cherbourg (1964) di Jacques Demy, lo hai per caso visto? In quel film ogni stanza e ogni parete hanno un design particolare e acceso, mentre ogni personaggio indossa abiti colorati e sgargianti” (dice Mary per far capire meglio l’idea dietro la scelta di Mark, n.d.r.). In Enys Men prendi come esempio il colore rosso del faro: non credo che la gente si renda conto che è impossibile catturare quella tonalità specifica digitalmente, e lo stesso vale per il verde. Non so come hai percepito tu questi colori, o come il resto del pubblico li ha percepiti, ma quando provo a fare il rendering di un’immagine, non riesco a catturare quella tonalità di rosso e di verde che hai visto nel film. Questa procedura funziona abbastanza con il colore blu e con altre sfumature, ma in questo film volevo creare dei contrasti netti tra i vari colori. Il fiore invece è bianco e in qualche modo rappresenta la purezza e la pace, creando un buon contrasto con il rosso, colore simbolo del personaggio di Mary, e con il giallo del marinaio.
Molto interessante questo discorso che hai fatto sui colori. Ci domandavamo se avessi già in mente tutte queste scelte prima di iniziare a girare il film o se avessi lavorato sui contrasti in fase di montaggio.
Sapevo ciò che volevo dai colori, in laboratorio non volevo lavorare con delle immagini chiare o limpide. Durante le riprese ho deciso di sottoesporre ogni scena, dando poca luce e oscurando leggermente l'obiettivo. Facendo così ho potuto lavorare sui colori una volta finite le riprese, spingendoli più che potevo in modo da “distruggerli” e creare in seguito la tonalità che cercavo. È stata una scelta rischiosa, ma sapevo quello che volevo. A differenza del digitale, dove basta cliccare qualche numero per ottenere quello che vuoi, quando giri in pellicola non saprai mai esattamente come sarà il prodotto finale. L’inconsistenza delle immagini girate in pellicola è una caratteristica comune e fa parte dello charme del cinema degli anni ’70.
Ti sei ispirato a qualche pellicola degli anni ’70 in particolare?
Sì, i primi film che mi vengono in mente sono The Shout (1978) di Jerzy Skolimowski e Symptoms (1974) di José Ramòn Larraz. Don’t Look Now (1973) è un altro film, ma potrei dire lo stesso per tutto il cinema di Nicholas Roeg. Un altro regista è sicuramente Jean Rollin: non mi sono ispirato ai film porno che ha diretto verso la fine degli anni ‘70, ma ai film horror a sfondo erotico che ha fatto a inizio carriera. Mi ha ispirato il modo in cui lavorava questo autore, sempre con un budget ristretto. Mi piace l’idea di rispettare un “limite” quando si dirige un film. Inoltre, l’uso dei colori nei suoi film e il fatto che sceglieva pellicola a basso costo mi ha sempre colpito. Mi piacerebbe usare quel tipo di pellicola, ma da quello che so non lo producono più. Comunque, nei film di Jean Rollin il rosso del sangue in contrasto con la carnagione bianca dei vampiri mi ha sempre affascinato (il film a cui sta facendo riferimento è Fascination (1979), n.d.r.).
Hai citato a inizio intervista che stai lavorando a un nuovo film. Per concludere puoi dirci qualcosa su questo progetto? Lavorerai con un budget ristretto come in Bait ed Enys Men oppure sarà una produzione più grossa?
Sarà una produzione più grande, ma per necessità; il film sarà sui viaggi nel tempo, avrà due linee temporali, e collaborerò con un cast più ampio. Probabilmente dovrò ingaggiare un DOP che mi aiuti con le riprese (Mark ha fatto da DOP in tutti i suoi film, n.d.r.) perché in sostanza sarà un film in costume, ambientato in Cornovaglia nel 1990 e ai giorni nostri. Al centro della storia c’è una nave fantasma, un’imbarcazione scomparsa per trent’anni.