Come il genere techno-horror
riflette sui media e la tecnologia,
di Aurora Santacroce
TR-97
07.04.2024
Nessun genere riesce a raccontare le sfaccettature più nascoste della società come l’horror. Considerato nell’immaginario comune come un genere di puro intrattenimento, e spesso ignorato dai grandi festival europei o dagli Academy Awards, in realtà risulta uno dei più interessanti di sempre, declinabile in forme estremamente diverse tra loro. Tra le sue molteplici “espressioni”si insinua anche il techno-horror, una tipologia di narrazione che si focalizza sui rischi e i pericoli dell’imperante progresso tecnologico.
Possono essere considerati precursori legati a questo genere film come Videodrome (1983) o eXistenZ (1999), entrambi diretti da David Cronenberg, dove la raffigurazione di una tecnologia ostile ed orrorifica trova piena espressione attraverso la televisione e il videogioco. Un esempio perfetto, che sembra racchiudere pienamente questo modello di cinema, si può trovare proprio nella celebre sequenza della chiesa catodica in Videodrome, dove un allucinato James Wood si ritrova nel mezzo di una gruppo di persone ipnotizzate da vari schermi televisivi. La scena, investita di una sacralità grottesca, sembra esprimere pienamente la simbologia che questo genere si porta dietro.
Non a caso, come ci racconta lo stesso Cronenberg, l’ispirazione per questo grande cult degli anni ’80 arrivò facendo zapping notturno e immaginando la possibilità di trovare, su quegli schermi, qualcosa di proibito e pericoloso. Max Renn, il protagonista della pellicola, è l’arrogante proprietario di un’emittente televisiva privata che sponsorizza esclusivamente contenuti pornografici o violenti. Un giorno, un suo collaboratore capta il segnale satellitare di uno strambo canale che manda in onda un programma chiamato Videodrome; lo snuff movie a cui Max assiste sembra fin troppo reale e l’ossessione per la misteriosa stazione televisiva lo fa precipitare in un vortice di ferocia ed eccitazione mai provato prima.
Oltre a rappresentare una totale novità per il panorama cinematografico dell’epoca, il lungometraggio di Cronenberg preparò il terreno per un altro genere: il body horror. Tuttavia, come afferma lo stesso regista, il messaggio di Videodrome oltrepassa le sue scene violente per descrivere, precorrendo i tempi, ciò che sta avvenendo nel corso del nostro secolo. I personaggi del film sono immersi in una metropoli alienante, vivono nel torpore le loro vite, le loro conversazioni sono aride e niente sembra animarli.
Una condizione, insomma, che si può riconnettere pienamente alle teorie di Marshall McLuhan riguardanti gli effetti dei nuovi media e di come vengono veicolate le informazioni attraverso essi. Non a caso il sociologo canadese coniugò il termine villaggio globale: un'espressione che ci illustra come il mondo che viviamo sia attraversato, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, da un flusso d’informazioni continuo che supera le distanze passate. Questa condizione spezza le barriere temporali e spaziali, permettendo ad un singolo individuo di conoscere potenzialmente tutto ciò che accade ovunque, in qualsiasi momento. Inutile dire quanto questa attestazione esprima il clima, ed il flusso d’informazioni, che è ormai insito nei nostri “media di comunicazione”, descrivendo perfettamente come il continuo passaggio da un’informazione all’altra possa confondere il fruitore fino a creare fenomeni, tipici di quest’epoca, come le shitstorm o la disinformazione dilagante.
Questa condizione è pienamente rappresentata da Max Renn: un personaggio che cerca sempre di spingersi al limite rimanendo, in questo modo, vittima di quel processo causato dalle eccessive informazioni e dai nuovi media. Improvvisamente la scoperta del programma Videodrome provoca in lui un piacere talmente estremo da trascinarlo verso una mutazione fisica. Partendo da una storia che ha le fattezze di un noir-thriller la pellicola si orienta, man mano che la narrazione avanza, verso un tono estremamente eccentrico e sovrannaturale.
Ritornando sul tema del body horror, in Videodrome i corpi mutati diventano lo stato di passaggio tra l’individuo e la nuova carne, attraverso cui la televisione diviene la retina dell’occhio della mente. Attivamente si sceglie la “dimensione televisiva”, e le iconiche sequenze mostrano una fisicità che muta a causa dei media, che distorcono la nostra percezione e, di conseguenza, la realtà che ci circonda. Si ritorna così alla lezione di McLuhan su quanto i nuovi mezzi di comunicazione, nelle mani sbagliate, rischino di generare una vera e propria Videocrazia. La mutazione è la metafora perfetta per spiegare quanto estremo possa essere l’effetto che ha su di noi questo nuovo “governo”. Renn non riesce più a distinguere la realtà fisica dalla realtà televisiva, si arrende, si fa trasportare dal caos e dall’anarchia e, da produttore televisivo quale è, dà in pasto scene di sesso e violenza al proprio pubblico. È così che l’uomo diventa pedina del progetto Videodrome.
Cronenberg ci presenta una dimensione che ingloba lo spettatore, il quale non riesce più ad assumere un punto di vista distaccato rispetto alle modalità narrative del mezzo televisivo. L’abulia in cui sono immersi i protagonisti è totalizzante, la finzione diventa la realtà a cui credere e in estremo il corpo si trasforma, divenendo, come ci descrive anche Donna Haraway nel suo famoso Manifesto cyborg, un ibrido scisso tra la macchina e la carne. In conclusione, Videodrome rimane ancora attualissimo, persino profetico, riuscendo a descrivere perfettamente, con estrema lucidità e dopo ben trentacinque anni, il nostro rapporto con i media e la tecnologia.
In un altro celebre capolavoro cronenberghiano, eXistenZ, è invece il videogioco a diventare il contenitore perfetto per esprimere la violenza esercitata dai personaggi, una brutalità che essi tentano di celare ma che lasciano completamente libera nel momento in cui il confine tra realtà e videogame diviene labile. Il gioco virtuale svincola le persone dalle regole della società, ma, nello stesso tempo, risveglia le loro pulsioni più nascoste. Ambientato in una futuro imprecisato, eXistenZ ruota attorno al personaggio di Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh), l’inventrice di un videogame che proietta i suoi giocatori in una dimensione parallela estremamente realistica. Durante una presentazione, Allegra viene aggredita da Noel Dichter - un individuo ostile alle nuove tecnologie a cui la donna si dedica - e, spaventata che la sua creazione possa aver subito dei danni, decide di testare lei stessa, con l’aiuto del collega Ted Pikul (Jude Law), la realtà virtuale del gioco.
Anche in quest’opera, similmente a Videodrome, la “caccia all’uomo” in chiave noir-thriller diventa il pretesto per riflettere su tematiche legate alla minaccia tecnologica. Per i personaggi la connessione con cui si accede al cyberspazio non avviene attraverso un computer, ma tramite delle “console biotecnologiche” chiamate game pod e inserite chirurgicamente nel sistema nervoso. In un continuo labirinto di colpi di scena, il lungometraggio ritrae una tecnologia talmente ipnotizzante e immersiva da provocare, anche in questo caso, una metamorfosi del corpo.
Il film approda sugli schermi nel 1999, all’alba del cinema post-moderno, ma si ritrova adombrato dall’uscita di The Matrix, opera cardine del genere. Eppure eXistenZ mantiene un’estrema coerenza tematica con il suo predecessore Videodrome, ma per comprendere appieno i collegamenti fra le due pellicole bisogna riallacciarsi nuovamente agli studi di Marshall McLuhan. Uno dei concetti chiave delle teorie di McLuhan ci mostra come media e messaggio siano la medesima cosa, e quanto sia importante esaminare tanto l’informazione quanto il mezzo che la veicola. I mezzi di comunicazione a nostra disposizione hanno caratteristiche differenti, che condizionano l’esito e l’elaborazione delle informazioni.
Come si lega tutto questo ad eXistenZ? I protagonisti della storia cambiano il loro corpo per entrare in contatto con una realtà alternativa - realtà, inoltre, molto simile ad internet - e le loro coordinate spazio temporali si modificano fino a non riconoscere più la differenza tra reale e virtuale. L'obiettivo del film di Cronenberg non è quello di sfociare in discorsi semplicistici e banali su quanto i videogame siano potenzialmente pericolosi o violenti, ma di riflettere su come i nuovi media diventino la valvola di sfogo per alcune pulsioni umane .
Per trovare un riscontro nella realtà, basti pensare a come, nel corso degli anni, i cellulari abbiano modificato il nostro rapporto con il sesso, le relazioni, il cibo o il ritmo sonno-veglia. L’opera di Cronenberg vuole esaminare come determinati mezzi abbiano, in qualche modo, modificato la nostra visione e narrazione del mondo, un argomento cardine del techno-horror.
Spostandosi invece in Oriente, il cinema giapponese decide di non focalizzarsi su una visione distopica del futuro, ma sulla tecnologia che utilizziamo tutti i giorni. Partendo dal famosissimo Ring (1998) di Hideo Nakata, sono molteplici le produzioni horror che contengono riferimenti ad apparecchi ormai indispensabili per la nostra vita. Oggetti come i computer, le macchine fotografiche, i televisori e le videocamere di sorveglianza, perdono completamente la loro aura di affidabilità per incarnare il male più assoluto. Un male atavico, che trova nei mezzi digitali il tramite perfetto per diffondersi in una spirale di confusione e viralità.
In Ring di Hideo Nakata si notano i primi segni di una critica differente alla tecnologia e ai media. La televisione è il mezzo che permette al demone malvagio Sadako di trasformarsi continuamente e di non essere né spirito né materia, in modo da poter rinnovare continuamente la sua maledizione. Sadako è inscenato attraverso il classico aspetto degli spiriti giapponesi, ma le sue intenzioni, e il suo modo di agire, sono totalmente conformi a come vengono veicolati i messaggi dalle tecnologie odierne. Il demone non cerca di vendicarsi di qualcuno in particolare, ma colpisce chiunque e non c’è soluzione alla sua maledizione.
Solo Reiko, la protagonista del film, scopre un “antidoto” al maleficio: per non morire dopo aver visto il video maledetto attraverso cui Sadako esercita il suo potere, bisogna produrre una copia della cassetta e farla visionare ad altri. Potremmo aggiungere che non c’è nessuno scopo reale dietro alle azioni del demone, ma solo una mera volontà di riprodursi ormai svuotata del suo significato originale. In conclusione, non c’è soluzione definitiva al terrore, grazie ai mezzi di comunicazione Sadako può infestare il mondo reale per sempre e, anche se la sua vendetta è priva di senso, continuerà all’infinito.
Un altro film di primaria importanza nell’ambito del techno-horror è Kairo (2001) di Kiyoshi Kurosawa, un lavoro ancora attualissimo e perturbante. Il lungometraggio uscì nel 2001, agli albori di Internet, e partecipò alla 54° edizione del Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Kairo racconta due storie parallele ambientate in un mondo dove i fantasmi si manifestano, e influenzano le vite dei vivi, attraverso la rete.
Il lungometraggio si focalizza su diversi personaggi, tra questi figura Kudo Michi, una ragazza impiegata in un negozio di piante che riceve, da un collega suicida, un floppy disk dai contenuti spettrali. Nello stesso tempo, Ryosuke Kawashima, uno studente di diritto, accede ad uno spaventoso sito che mostra persone dagli strani comportamenti e situate in stanze buie ed inquietanti. Dopo un serie di ulteriori e inspiegabili episodi, sarà un amico di Ryosuke a formulare la teoria secondo cui le anime dei morti, non avendo più posto nel loro regno, hanno deciso di invadere il mondo dei vivi. Le continue sparizioni in una città ormai totalmente infestata dagli spiriti, porteranno Kudo e Ryosuke ad incontrarsi per poter risolvere insieme il mistero del perturbante sito.
In Kairo, come nel precedente Cure (1997), Kurosawa esce dai binari tracciati dal cinema horror occidentale eliminando jumpscare e ricorrendo ad un montaggio maggiormente dilatato. La sensazione che si prova guardando il film è più vicina allo spaesamento e alla confusione che al terrore. Non a caso, all’epoca dell’uscita di Kairo nella sale, molti spettatori affermarono di essersi sentiti tristi e depressi dopo la sua visione, probabilmente a causa della riflessione di Kurosawa sulla solitudine nell’era contemporanea.
La pellicola si pone delle domande controcorrente rispetto all’idea positivista che si aveva sull’universo di Internet in quegli anni. È possibile che un mezzo simile, invece di creare connessioni, generi solitudine? Che ci disabitui dalla vita sociale che abbiamo sempre condotto? Il leitmotiv dei morti sulla terra per mancanza di spazio nell’aldilà diventa il punto di partenza per focalizzarsi sulla somiglianza tra fantasmi reali e fantasmi di Internet. Le strade si spopolano, il nuovo virus si propaga attraverso i mezzi digitali e le persone vedono tutto tramite uno schermo. Non a caso, per lo studioso Jay McRoy, Kairo descrive la solitudine e il disfacimento delle nostre identità:
«Si possono comprendere le identità presenti su internet come liminali… Nonostante il grado di familiarità che un essere umano può sentire con un altro essere umano, le persone rimangono infine sconosciute. Se i nostri corpi sono riducibili ad un ammasso di carne e ossa, le nostre identità sono assiduamente costruite. Il risultato è che i vari sé che noi proiettiamo sono soggetti a molteplici letture, ma rimangono incomprensibili, irriducibili e incompleti».
In molte scene del film le pareti separano i personaggi dall’occhio della macchina da presa, creando un distacco tra lo spettatore e i protagonisti e mostrando come essi siano incapaci di comunicare con l’altro. Perché ci sentiamo ancora soli anche se siamo continuamente connessi? Forse la nostra solitudine è inguaribile? Questi sono i principali interrogativi di un film che, attraverso i suoi toni apocalittici, si discosta dalle classiche regole dell’horror per virare su sfumature maggiormente drammatiche e malinconiche.
Anche il film di produzione americana Unfriended (2014) affronta con successo il connubio tra fantasmi e internet. La pellicola di Levan Gabriazde è un found-footage horror totalmente ambientato sullo schermo del pc della protagonista Blaire. La storia si apre su sei ragazzi che, durante una videochiamata di gruppo su Skype, notano la presenza di un settimo account che risponde al nome di Laura Barns, una loro amica morta suicida a seguito della diffusione in rete di un imbarazzante video che la riguardava.
Focalizzandosi sulla pericolosità della divulgazione di determinati contenuti su internet, e adoperando la logica del revenge movie, il film mostra come lo spirito della ragazza cerchi vendetta attraverso lo stesso mezzo con cui i suoi amici le hanno rovinato la vita. Seguiamo le attività di Blaire attraverso il suo portatile e notiamo in quale modo disumanizzante il suicidio della sua amica venga narrato su internet. Unfriended si sofferma anche sulla mancanza di privacy, mostrandoci i fatti solo attraverso la narrazione digitale: riguardo al suicidio di Laura non vediamo le lacrime della sua famiglia, dei suoi amici o il suo funerale, ma solo le notizie dei giornali e i commenti di dubbio gusto dei troll anonimi sul web.
Unfriended sottolinea come nulla sui social media sia privato, anche le nostre conversazioni passano attraverso algoritmi e interfacce controllate, e così il video di Laura diventa virale, appare ovunque e non potrà mai più scomparire. L’umiliazione online perseguita la ragazza persino nei suoi spazi privati, che non a caso saranno gli stessi dove i suoi carnefici verranno colpiti. In un connubio di sorveglianza e connessioni che creano ancora più solitudini, le persone sui social cercano di seguire le mode passeggere del web per rientrare in un modello evanescente e etereo che, come il male arcaico e antico dei film J-Horror, è virale e sconosciuto.
Ultimo caso occidentale su cui riflettere è We’re all going to the world’s fair (2021) di Jane Schoenbrun. Il film, prodotto da David Lowery con la colonna sonora di Alex G, mette in scena, attraverso il mondo delle challenge del web a tema horror, la metodologia con cui ci si immerge nelle narrazioni online quando la realtà esterna è troppo dolorosa. Il film fa riferimento all'universo delle creepypasta, storie horror verosimili che hanno generato personaggi come lo Slenderman, protagonista di film e videogiochi. Nella prima scena della pellicola, la protagonista Casey è davanti allo schermo del suo computer con gli occhi lucidi e, attraverso l’incisione di un taglio sul dito, da inizio alla World’s Fair Challenge, una sfida che porta cambiamenti al corpo delle persone rendendole, per esempio, insensibili al freddo o al dolore.
L’inizio del film ricorda Eighth Grade (2018) di Bo Burnham, in cui la protagonista Kayla ha un canale youtube che adopera per mettere in scena una versione di se stessa più estroversa e completamente differente dalla sua identità offline. Sia Casey che Kayla sono spesso sole e isolate, e scorgono in Internet una scappatoia e un mondo ideale dove potersi sentire appagate. Casey cerca in tutti i modi di farsi notare dagli altri giocatori, vive attraverso la webcam e impersona a fondo il suo personaggio. Si riappropria del suo corpo, ma nello stesso tempo non riconosce più la differenza tra la realtà e il digitale. In qualche modo la sua discesa verso la pazzia è salvifica, finalmente la ragazza si sente parte di una collettività di giocatori che, sostituendo gli amici e la famiglia, leniscono la sua solitudine. Casey accompagna i suoi diari giornalieri con considerazioni inquietanti, la ragazza afferma di immaginarsi sempre di più attraverso uno schermo e di pensare che il mondo non sia reale, una dinamica che la porterà a cucirsi addosso una narrazione totalmente straniante.
Il film di Schoenbrum si interroga sull’ambiguità del web: quello che fa la protagonista sembra pericoloso ma forse la distrae abbastanza dalla solitudine e le permette di non compiere azioni sconsiderate. Che cosa stiamo guardando quindi? Un’adolescente con problemi mentali, una possessione demoniaca o una ragazza amante dell’horror che si sta divertendo con una challenge del web? Schoenbrun non si limita ad un banale attacco nei confronti di internet e delle sue dinamiche, ma riflette sulla condizione di Casey e ci mostra come la sua storia abbia due differenti punti di vista, nel bene e nel male. La regista, in un’intervista, affermò a riguardo:
«Penso che nei film su Internet contemporanei e nei film horror contemporanei quello che spesso viene tralasciato è il perché una cosa come Internet esiste: il web esiste perché c’è il desiderio di riempire un vuoto e una grande solitudine… Lo abbiamo inventato noi il web, non va separato da noi, è una cosa umana. Un mezzo che ha cambiato la mia vita più di qualunque altra cosa».
Jean Schoebrun afferma che Internet l’ha resa la persona che è oggi, e il suo film racconta l’esperienza di un'intera generazione. La regista non intende criticare il web alla vecchia maniera, ma riconosce la natura ambigua e fluida di uno strumento così potente. I mezzi tecnologici, da che dovevano rappresentare semplicemente una finestra sul mondo, hanno ricostruito e plasmato l’immaginario collettivo.
Citando un passo del libro Memestetica, il settembre eterno dell’Arte di Valentina Tanni, si arriverà alla conclusione che Internet ci appare come un luogo dagli infiniti strati di comprensione, un mondo sconosciuto e spesso paranormale.
«…Si aggiunge un’altra suggestione, che aleggia tra le pagine dei blog e dei forum dove queste raccolte nascono: la possibilità che le tecnologie nascondano un layer paranormale, che infestino la nostra vita possedendoci, ipnotizzandoci, dirigendo i nostri comportamenti e svelandoci dettagli di un mondo inconoscibile».
La riflessione cinematografica sui media è presente da diversi anni ed è parte di un discorso assoluto che permea la forma e i contenuti di molti film. La televisione in Videodrome o il web in Kairo sono attraversati da questo soffio occulto che li rende i soggetti perfetti per una storia horror. Sorprende quanto questa visione sia attinente alla realtà, e perfino le nuove tecnologie, tra fenomeni come i deepfakes e le nuove intelligenze artificiali, confermano questa traiettoria e ci raccomandano di usare con cautela i nuovi media, in modo che il messaggio non si perda nelle trame del mezzo.
Come il genere techno-horror
riflette sui media e la tecnologia,
di Aurora Santacroce
TR-97
07.04.2024
Nessun genere riesce a raccontare le sfaccettature più nascoste della società come l’horror. Considerato nell’immaginario comune come un genere di puro intrattenimento, e spesso ignorato dai grandi festival europei o dagli Academy Awards, in realtà risulta uno dei più interessanti di sempre, declinabile in forme estremamente diverse tra loro. Tra le sue molteplici “espressioni”si insinua anche il techno-horror, una tipologia di narrazione che si focalizza sui rischi e i pericoli dell’imperante progresso tecnologico.
Possono essere considerati precursori legati a questo genere film come Videodrome (1983) o eXistenZ (1999), entrambi diretti da David Cronenberg, dove la raffigurazione di una tecnologia ostile ed orrorifica trova piena espressione attraverso la televisione e il videogioco. Un esempio perfetto, che sembra racchiudere pienamente questo modello di cinema, si può trovare proprio nella celebre sequenza della chiesa catodica in Videodrome, dove un allucinato James Wood si ritrova nel mezzo di una gruppo di persone ipnotizzate da vari schermi televisivi. La scena, investita di una sacralità grottesca, sembra esprimere pienamente la simbologia che questo genere si porta dietro.
Non a caso, come ci racconta lo stesso Cronenberg, l’ispirazione per questo grande cult degli anni ’80 arrivò facendo zapping notturno e immaginando la possibilità di trovare, su quegli schermi, qualcosa di proibito e pericoloso. Max Renn, il protagonista della pellicola, è l’arrogante proprietario di un’emittente televisiva privata che sponsorizza esclusivamente contenuti pornografici o violenti. Un giorno, un suo collaboratore capta il segnale satellitare di uno strambo canale che manda in onda un programma chiamato Videodrome; lo snuff movie a cui Max assiste sembra fin troppo reale e l’ossessione per la misteriosa stazione televisiva lo fa precipitare in un vortice di ferocia ed eccitazione mai provato prima.
Oltre a rappresentare una totale novità per il panorama cinematografico dell’epoca, il lungometraggio di Cronenberg preparò il terreno per un altro genere: il body horror. Tuttavia, come afferma lo stesso regista, il messaggio di Videodrome oltrepassa le sue scene violente per descrivere, precorrendo i tempi, ciò che sta avvenendo nel corso del nostro secolo. I personaggi del film sono immersi in una metropoli alienante, vivono nel torpore le loro vite, le loro conversazioni sono aride e niente sembra animarli.
Una condizione, insomma, che si può riconnettere pienamente alle teorie di Marshall McLuhan riguardanti gli effetti dei nuovi media e di come vengono veicolate le informazioni attraverso essi. Non a caso il sociologo canadese coniugò il termine villaggio globale: un'espressione che ci illustra come il mondo che viviamo sia attraversato, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, da un flusso d’informazioni continuo che supera le distanze passate. Questa condizione spezza le barriere temporali e spaziali, permettendo ad un singolo individuo di conoscere potenzialmente tutto ciò che accade ovunque, in qualsiasi momento. Inutile dire quanto questa attestazione esprima il clima, ed il flusso d’informazioni, che è ormai insito nei nostri “media di comunicazione”, descrivendo perfettamente come il continuo passaggio da un’informazione all’altra possa confondere il fruitore fino a creare fenomeni, tipici di quest’epoca, come le shitstorm o la disinformazione dilagante.
Questa condizione è pienamente rappresentata da Max Renn: un personaggio che cerca sempre di spingersi al limite rimanendo, in questo modo, vittima di quel processo causato dalle eccessive informazioni e dai nuovi media. Improvvisamente la scoperta del programma Videodrome provoca in lui un piacere talmente estremo da trascinarlo verso una mutazione fisica. Partendo da una storia che ha le fattezze di un noir-thriller la pellicola si orienta, man mano che la narrazione avanza, verso un tono estremamente eccentrico e sovrannaturale.
Ritornando sul tema del body horror, in Videodrome i corpi mutati diventano lo stato di passaggio tra l’individuo e la nuova carne, attraverso cui la televisione diviene la retina dell’occhio della mente. Attivamente si sceglie la “dimensione televisiva”, e le iconiche sequenze mostrano una fisicità che muta a causa dei media, che distorcono la nostra percezione e, di conseguenza, la realtà che ci circonda. Si ritorna così alla lezione di McLuhan su quanto i nuovi mezzi di comunicazione, nelle mani sbagliate, rischino di generare una vera e propria Videocrazia. La mutazione è la metafora perfetta per spiegare quanto estremo possa essere l’effetto che ha su di noi questo nuovo “governo”. Renn non riesce più a distinguere la realtà fisica dalla realtà televisiva, si arrende, si fa trasportare dal caos e dall’anarchia e, da produttore televisivo quale è, dà in pasto scene di sesso e violenza al proprio pubblico. È così che l’uomo diventa pedina del progetto Videodrome.
Cronenberg ci presenta una dimensione che ingloba lo spettatore, il quale non riesce più ad assumere un punto di vista distaccato rispetto alle modalità narrative del mezzo televisivo. L’abulia in cui sono immersi i protagonisti è totalizzante, la finzione diventa la realtà a cui credere e in estremo il corpo si trasforma, divenendo, come ci descrive anche Donna Haraway nel suo famoso Manifesto cyborg, un ibrido scisso tra la macchina e la carne. In conclusione, Videodrome rimane ancora attualissimo, persino profetico, riuscendo a descrivere perfettamente, con estrema lucidità e dopo ben trentacinque anni, il nostro rapporto con i media e la tecnologia.
In un altro celebre capolavoro cronenberghiano, eXistenZ, è invece il videogioco a diventare il contenitore perfetto per esprimere la violenza esercitata dai personaggi, una brutalità che essi tentano di celare ma che lasciano completamente libera nel momento in cui il confine tra realtà e videogame diviene labile. Il gioco virtuale svincola le persone dalle regole della società, ma, nello stesso tempo, risveglia le loro pulsioni più nascoste. Ambientato in una futuro imprecisato, eXistenZ ruota attorno al personaggio di Allegra Geller (Jennifer Jason Leigh), l’inventrice di un videogame che proietta i suoi giocatori in una dimensione parallela estremamente realistica. Durante una presentazione, Allegra viene aggredita da Noel Dichter - un individuo ostile alle nuove tecnologie a cui la donna si dedica - e, spaventata che la sua creazione possa aver subito dei danni, decide di testare lei stessa, con l’aiuto del collega Ted Pikul (Jude Law), la realtà virtuale del gioco.
Anche in quest’opera, similmente a Videodrome, la “caccia all’uomo” in chiave noir-thriller diventa il pretesto per riflettere su tematiche legate alla minaccia tecnologica. Per i personaggi la connessione con cui si accede al cyberspazio non avviene attraverso un computer, ma tramite delle “console biotecnologiche” chiamate game pod e inserite chirurgicamente nel sistema nervoso. In un continuo labirinto di colpi di scena, il lungometraggio ritrae una tecnologia talmente ipnotizzante e immersiva da provocare, anche in questo caso, una metamorfosi del corpo.
Il film approda sugli schermi nel 1999, all’alba del cinema post-moderno, ma si ritrova adombrato dall’uscita di The Matrix, opera cardine del genere. Eppure eXistenZ mantiene un’estrema coerenza tematica con il suo predecessore Videodrome, ma per comprendere appieno i collegamenti fra le due pellicole bisogna riallacciarsi nuovamente agli studi di Marshall McLuhan. Uno dei concetti chiave delle teorie di McLuhan ci mostra come media e messaggio siano la medesima cosa, e quanto sia importante esaminare tanto l’informazione quanto il mezzo che la veicola. I mezzi di comunicazione a nostra disposizione hanno caratteristiche differenti, che condizionano l’esito e l’elaborazione delle informazioni.
Come si lega tutto questo ad eXistenZ? I protagonisti della storia cambiano il loro corpo per entrare in contatto con una realtà alternativa - realtà, inoltre, molto simile ad internet - e le loro coordinate spazio temporali si modificano fino a non riconoscere più la differenza tra reale e virtuale. L'obiettivo del film di Cronenberg non è quello di sfociare in discorsi semplicistici e banali su quanto i videogame siano potenzialmente pericolosi o violenti, ma di riflettere su come i nuovi media diventino la valvola di sfogo per alcune pulsioni umane .
Per trovare un riscontro nella realtà, basti pensare a come, nel corso degli anni, i cellulari abbiano modificato il nostro rapporto con il sesso, le relazioni, il cibo o il ritmo sonno-veglia. L’opera di Cronenberg vuole esaminare come determinati mezzi abbiano, in qualche modo, modificato la nostra visione e narrazione del mondo, un argomento cardine del techno-horror.
Spostandosi invece in Oriente, il cinema giapponese decide di non focalizzarsi su una visione distopica del futuro, ma sulla tecnologia che utilizziamo tutti i giorni. Partendo dal famosissimo Ring (1998) di Hideo Nakata, sono molteplici le produzioni horror che contengono riferimenti ad apparecchi ormai indispensabili per la nostra vita. Oggetti come i computer, le macchine fotografiche, i televisori e le videocamere di sorveglianza, perdono completamente la loro aura di affidabilità per incarnare il male più assoluto. Un male atavico, che trova nei mezzi digitali il tramite perfetto per diffondersi in una spirale di confusione e viralità.
In Ring di Hideo Nakata si notano i primi segni di una critica differente alla tecnologia e ai media. La televisione è il mezzo che permette al demone malvagio Sadako di trasformarsi continuamente e di non essere né spirito né materia, in modo da poter rinnovare continuamente la sua maledizione. Sadako è inscenato attraverso il classico aspetto degli spiriti giapponesi, ma le sue intenzioni, e il suo modo di agire, sono totalmente conformi a come vengono veicolati i messaggi dalle tecnologie odierne. Il demone non cerca di vendicarsi di qualcuno in particolare, ma colpisce chiunque e non c’è soluzione alla sua maledizione.
Solo Reiko, la protagonista del film, scopre un “antidoto” al maleficio: per non morire dopo aver visto il video maledetto attraverso cui Sadako esercita il suo potere, bisogna produrre una copia della cassetta e farla visionare ad altri. Potremmo aggiungere che non c’è nessuno scopo reale dietro alle azioni del demone, ma solo una mera volontà di riprodursi ormai svuotata del suo significato originale. In conclusione, non c’è soluzione definitiva al terrore, grazie ai mezzi di comunicazione Sadako può infestare il mondo reale per sempre e, anche se la sua vendetta è priva di senso, continuerà all’infinito.
Un altro film di primaria importanza nell’ambito del techno-horror è Kairo (2001) di Kiyoshi Kurosawa, un lavoro ancora attualissimo e perturbante. Il lungometraggio uscì nel 2001, agli albori di Internet, e partecipò alla 54° edizione del Festival di Cannes nella sezione Un Certain Regard. Kairo racconta due storie parallele ambientate in un mondo dove i fantasmi si manifestano, e influenzano le vite dei vivi, attraverso la rete.
Il lungometraggio si focalizza su diversi personaggi, tra questi figura Kudo Michi, una ragazza impiegata in un negozio di piante che riceve, da un collega suicida, un floppy disk dai contenuti spettrali. Nello stesso tempo, Ryosuke Kawashima, uno studente di diritto, accede ad uno spaventoso sito che mostra persone dagli strani comportamenti e situate in stanze buie ed inquietanti. Dopo un serie di ulteriori e inspiegabili episodi, sarà un amico di Ryosuke a formulare la teoria secondo cui le anime dei morti, non avendo più posto nel loro regno, hanno deciso di invadere il mondo dei vivi. Le continue sparizioni in una città ormai totalmente infestata dagli spiriti, porteranno Kudo e Ryosuke ad incontrarsi per poter risolvere insieme il mistero del perturbante sito.
In Kairo, come nel precedente Cure (1997), Kurosawa esce dai binari tracciati dal cinema horror occidentale eliminando jumpscare e ricorrendo ad un montaggio maggiormente dilatato. La sensazione che si prova guardando il film è più vicina allo spaesamento e alla confusione che al terrore. Non a caso, all’epoca dell’uscita di Kairo nella sale, molti spettatori affermarono di essersi sentiti tristi e depressi dopo la sua visione, probabilmente a causa della riflessione di Kurosawa sulla solitudine nell’era contemporanea.
La pellicola si pone delle domande controcorrente rispetto all’idea positivista che si aveva sull’universo di Internet in quegli anni. È possibile che un mezzo simile, invece di creare connessioni, generi solitudine? Che ci disabitui dalla vita sociale che abbiamo sempre condotto? Il leitmotiv dei morti sulla terra per mancanza di spazio nell’aldilà diventa il punto di partenza per focalizzarsi sulla somiglianza tra fantasmi reali e fantasmi di Internet. Le strade si spopolano, il nuovo virus si propaga attraverso i mezzi digitali e le persone vedono tutto tramite uno schermo. Non a caso, per lo studioso Jay McRoy, Kairo descrive la solitudine e il disfacimento delle nostre identità:
«Si possono comprendere le identità presenti su internet come liminali… Nonostante il grado di familiarità che un essere umano può sentire con un altro essere umano, le persone rimangono infine sconosciute. Se i nostri corpi sono riducibili ad un ammasso di carne e ossa, le nostre identità sono assiduamente costruite. Il risultato è che i vari sé che noi proiettiamo sono soggetti a molteplici letture, ma rimangono incomprensibili, irriducibili e incompleti».
In molte scene del film le pareti separano i personaggi dall’occhio della macchina da presa, creando un distacco tra lo spettatore e i protagonisti e mostrando come essi siano incapaci di comunicare con l’altro. Perché ci sentiamo ancora soli anche se siamo continuamente connessi? Forse la nostra solitudine è inguaribile? Questi sono i principali interrogativi di un film che, attraverso i suoi toni apocalittici, si discosta dalle classiche regole dell’horror per virare su sfumature maggiormente drammatiche e malinconiche.
Anche il film di produzione americana Unfriended (2014) affronta con successo il connubio tra fantasmi e internet. La pellicola di Levan Gabriazde è un found-footage horror totalmente ambientato sullo schermo del pc della protagonista Blaire. La storia si apre su sei ragazzi che, durante una videochiamata di gruppo su Skype, notano la presenza di un settimo account che risponde al nome di Laura Barns, una loro amica morta suicida a seguito della diffusione in rete di un imbarazzante video che la riguardava.
Focalizzandosi sulla pericolosità della divulgazione di determinati contenuti su internet, e adoperando la logica del revenge movie, il film mostra come lo spirito della ragazza cerchi vendetta attraverso lo stesso mezzo con cui i suoi amici le hanno rovinato la vita. Seguiamo le attività di Blaire attraverso il suo portatile e notiamo in quale modo disumanizzante il suicidio della sua amica venga narrato su internet. Unfriended si sofferma anche sulla mancanza di privacy, mostrandoci i fatti solo attraverso la narrazione digitale: riguardo al suicidio di Laura non vediamo le lacrime della sua famiglia, dei suoi amici o il suo funerale, ma solo le notizie dei giornali e i commenti di dubbio gusto dei troll anonimi sul web.
Unfriended sottolinea come nulla sui social media sia privato, anche le nostre conversazioni passano attraverso algoritmi e interfacce controllate, e così il video di Laura diventa virale, appare ovunque e non potrà mai più scomparire. L’umiliazione online perseguita la ragazza persino nei suoi spazi privati, che non a caso saranno gli stessi dove i suoi carnefici verranno colpiti. In un connubio di sorveglianza e connessioni che creano ancora più solitudini, le persone sui social cercano di seguire le mode passeggere del web per rientrare in un modello evanescente e etereo che, come il male arcaico e antico dei film J-Horror, è virale e sconosciuto.
Ultimo caso occidentale su cui riflettere è We’re all going to the world’s fair (2021) di Jane Schoenbrun. Il film, prodotto da David Lowery con la colonna sonora di Alex G, mette in scena, attraverso il mondo delle challenge del web a tema horror, la metodologia con cui ci si immerge nelle narrazioni online quando la realtà esterna è troppo dolorosa. Il film fa riferimento all'universo delle creepypasta, storie horror verosimili che hanno generato personaggi come lo Slenderman, protagonista di film e videogiochi. Nella prima scena della pellicola, la protagonista Casey è davanti allo schermo del suo computer con gli occhi lucidi e, attraverso l’incisione di un taglio sul dito, da inizio alla World’s Fair Challenge, una sfida che porta cambiamenti al corpo delle persone rendendole, per esempio, insensibili al freddo o al dolore.
L’inizio del film ricorda Eighth Grade (2018) di Bo Burnham, in cui la protagonista Kayla ha un canale youtube che adopera per mettere in scena una versione di se stessa più estroversa e completamente differente dalla sua identità offline. Sia Casey che Kayla sono spesso sole e isolate, e scorgono in Internet una scappatoia e un mondo ideale dove potersi sentire appagate. Casey cerca in tutti i modi di farsi notare dagli altri giocatori, vive attraverso la webcam e impersona a fondo il suo personaggio. Si riappropria del suo corpo, ma nello stesso tempo non riconosce più la differenza tra la realtà e il digitale. In qualche modo la sua discesa verso la pazzia è salvifica, finalmente la ragazza si sente parte di una collettività di giocatori che, sostituendo gli amici e la famiglia, leniscono la sua solitudine. Casey accompagna i suoi diari giornalieri con considerazioni inquietanti, la ragazza afferma di immaginarsi sempre di più attraverso uno schermo e di pensare che il mondo non sia reale, una dinamica che la porterà a cucirsi addosso una narrazione totalmente straniante.
Il film di Schoenbrum si interroga sull’ambiguità del web: quello che fa la protagonista sembra pericoloso ma forse la distrae abbastanza dalla solitudine e le permette di non compiere azioni sconsiderate. Che cosa stiamo guardando quindi? Un’adolescente con problemi mentali, una possessione demoniaca o una ragazza amante dell’horror che si sta divertendo con una challenge del web? Schoenbrun non si limita ad un banale attacco nei confronti di internet e delle sue dinamiche, ma riflette sulla condizione di Casey e ci mostra come la sua storia abbia due differenti punti di vista, nel bene e nel male. La regista, in un’intervista, affermò a riguardo:
«Penso che nei film su Internet contemporanei e nei film horror contemporanei quello che spesso viene tralasciato è il perché una cosa come Internet esiste: il web esiste perché c’è il desiderio di riempire un vuoto e una grande solitudine… Lo abbiamo inventato noi il web, non va separato da noi, è una cosa umana. Un mezzo che ha cambiato la mia vita più di qualunque altra cosa».
Jean Schoebrun afferma che Internet l’ha resa la persona che è oggi, e il suo film racconta l’esperienza di un'intera generazione. La regista non intende criticare il web alla vecchia maniera, ma riconosce la natura ambigua e fluida di uno strumento così potente. I mezzi tecnologici, da che dovevano rappresentare semplicemente una finestra sul mondo, hanno ricostruito e plasmato l’immaginario collettivo.
Citando un passo del libro Memestetica, il settembre eterno dell’Arte di Valentina Tanni, si arriverà alla conclusione che Internet ci appare come un luogo dagli infiniti strati di comprensione, un mondo sconosciuto e spesso paranormale.
«…Si aggiunge un’altra suggestione, che aleggia tra le pagine dei blog e dei forum dove queste raccolte nascono: la possibilità che le tecnologie nascondano un layer paranormale, che infestino la nostra vita possedendoci, ipnotizzandoci, dirigendo i nostri comportamenti e svelandoci dettagli di un mondo inconoscibile».
La riflessione cinematografica sui media è presente da diversi anni ed è parte di un discorso assoluto che permea la forma e i contenuti di molti film. La televisione in Videodrome o il web in Kairo sono attraversati da questo soffio occulto che li rende i soggetti perfetti per una storia horror. Sorprende quanto questa visione sia attinente alla realtà, e perfino le nuove tecnologie, tra fenomeni come i deepfakes e le nuove intelligenze artificiali, confermano questa traiettoria e ci raccomandano di usare con cautela i nuovi media, in modo che il messaggio non si perda nelle trame del mezzo.