NC-108
23.04.2022
Andrea Maguolo, classe 1980, è un montatore italiano, a lungo attivo anche come colorist. Diplomatosi nel 2005 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dopo una gavetta nel mondo della produzione televisiva e dei videoclip, inizia a lavorare per il cinema al fianco di registi come Daniele Segre, Pippo Mezzapesa e Claudio Noce. Nel 2016 vince il David di Donatello come miglior montatore per Lo chiamavano Jeeg Robot, instant cult diretto dall’esordiente Gabriele Mainetti e interpretato da Claudio Santamaria e Luca Marinelli. Tra i suoi ultimi impegni, il documentario Vado verso dove vengo di Nicola Ragone e il premiato Sole di Carlo Sironi.
Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio il suo lavoro e riflettere insieme sullo stato del cinema italiano.
Come hai iniziato il tuo percorso da montatore e quale è stata la tua formazione?
Io ho iniziato ad appassionarmi al montaggio e in generale al linguaggio cinematografico quando ancora frequentavo il liceo classico. Subito dopo il liceo, parallelamente a studi universitari di argomento scientifico, ho iniziato a lavorare sempre più spesso come montatore inizialmente televisivo. Pian piano il montaggio ha preso tutta la mia vita, ho capito che era l’attività che volevo fare a tempo pieno e mi sono iscritto al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ho trascorso i tre anni canonici al CSC e poi dopo il diploma mi sono rimesso a lavorare, generalmente per il cinema.
Come sei stato coinvolto da Gabriele Mainetti ne Lo chiamavano Jeeg Robot? Avevi lavorato anche tu come altri membri del team al cortometraggio Tiger Boy?
Tiger Boy lo avevo per così dire “incrociato”, avevo iniziato a metterci le mani finché non sono subentrati dei problemi nel dietro-le-quinte per cui l’aveva dovuto ultimare un altro montatore. Anche su Lo chiamavano Jeeg Robot ci sono state delle turbolenze nel corso della lavorazione: ho iniziato il film, poi ci sono stati problemi e attriti di vario tipo per cui ho sospeso e ho fatto un altro film nel mentre. Dopo che il girato era passato fra le mani di altri montatori, Gabriele mi ha richiamato e ho finito io il film. Certo anche Jeeg Robot è stata un’esperienza piuttosto turbolenta, come sempre capita con Mainetti.
La concitata sequenza d’apertura mostra Enzo Ceccotti, il protagonista, scappare inseguito dalla polizia dopo un piccolo furto, per poi andare a rifugiarsi in un’ansa del Tevere dove entra in contatto con la sostanza tossica che lo trasforma in Jeeg Robot. Come si è svolto il montaggio di questi minuti iniziali del film?
Quella è una sequenza abbastanza significativa, è stata montata e rimontata più volte non solo da me ma anche da altri montatori che si sono succeduti nell’interregno dei tre mesi in cui io avevo smesso di lavorare al film. Per come era stata girata, la sequenza d’apertura poteva effettivamente essere montata in molti modi diversi: Gabriele Mainetti e il suo direttore della fotografia Michele D’Attanasio avevano fatto tanti tagli sia su Enzo Ceccotti che scappa sia sui poliziotti che lo inseguono. Nelle varie stesure che io ho curato di prima mano, con Gabriele ho deciso di rimanere molto più su Enzo, raccontando i poliziotti soltanto come elemento ansiogeno e disturbante della fuga del protagonista, ma staccando il meno possibile su di loro: la loro presenza sullo sfondo serviva però ad aumentare l’ansia, la paura e la suspense dell’inseguimento.
Dopo essere entrato in contatto con la sostanza misteriosa nel Tevere, Enzo è diventato inconsapevolmente un “supereroe”, o quantomeno un superumano: se ne accorge soltanto quando, dopo uno scambio di droga finito male, cade da un palazzo per un’altezza di almeno dieci metri senza farsi un graffio. A livello di montaggio, come hai lavorato sulla scena per simulare meglio la caduta?
Quella scena, per quel che mi ricordo, era studiata quasi da storyboard, con un minutaggio molto preciso. Gabriele aveva molto chiaro in mente come voleva montarla, la successione delle inquadrature attraverso le quali raccontare tutta la situazione. È stata studiata molto bene a tavolino, anche perché quando ci sono di mezzo degli effetti visivi bisogna essere già chiari e consapevoli sin dall’inizio, sin dal set. Grazie a questo lavoro preparatorio la scena fondamentalmente è venuta un po’ da sé; l’unico intervento di montaggio è andato nel senso di enfatizzare la caduta stessa. Innanzitutto c’è stato un ovvio intervento di effetti visivi, per cui è stato allungato e in parte ricostruito il palazzo con i VFX, per farlo risultare più alto di quanto effettivamente fosse; poi, attraverso il montaggio che in qualche modo riprendeva la caduta da varie angolazioni, abbiamo allungato un po’ il tempo della caduta, almeno a livello di percezione dello spettatore. Chiaramente è un’illusione, è solo un fatto di enfasi, ma la percezione che si ha è quella di una caduta da un’altezza maggiore.
Una scena con molti personaggi e quindi con molti punti di vista è quella dello scontro tra Enzo e gli uomini della banda dello Zingaro nella casa che apparteneva al padre del personaggio di Ilenia Pastorelli. Come hai montato quella scena? Non sembra essere stata una scena facile neanche sul versante VFX…
Quella è una scena complicatissima, girata da tantissimi punti di vista diversi. A differenza di altre scene, Gabriele non aveva un’idea molto chiara di come voleva raccontarla, e quindi neanche di come voleva montarla. Sul set è stato attento a “portarsi a casa” quante più angolazioni possibili, spesso scavalcando anche il campo ma con la consapevolezza di dover scegliere al montaggio su quale linea di campo rimanere. Proprio per questo è stata una delle scene del film più faticose da montare: avevamo tantissime opzioni diverse che si escludevano a vicenda, ed era necessario anche mantenere un buon ritmo, perché era pur sempre una scena d’azione.
Nel momento in cui Enzo Ceccotti “smaschera” i suoi poteri e inizia a gettare per aria gli uomini dello Zingaro fino a tirare via dal muro un termosifone, come hai integrato nel montaggio gli SFX, gli stunt e i VFX?
In fase di ripresa c’erano stati anche alcuni problemi di stunt che non erano andati benissimo: al di là di tutto Lo chiamavano Jeeg Robot è un film girato con un budget molto inferiore rispetto a quello che un film del genere richiedeva, per cui spesso la parte stunt ed effetti sul set non era sempre ottima e all’altezza delle aspettative, e durante la post-produzione è stato necessario correre ai ripari. Le integrazioni in VFX hanno riguardato innanzitutto cancellazioni e rimozioni delle funi che tenevano in aria il personaggio di Salvatore Esposito, ma sono intervenuti anche sui personaggi che venivano tirati via rapidamente per dare l’effetto del colpo di Ceccotti col pugno: c’erano vari sistemi classici di stunt che poi sono in qualche modo stati aggiustati ulteriormente con gli effetti visivi. Per quanto riguarda il montaggio, la scena è stata molto faticosa perché non era stata storyboardata. L’abbiamo dovuta un pochino trovare al montaggio, tenendo conto al tempo stesso delle integrazioni VFX che non sempre avevamo a portata di mano.
Dopo una serie di sequenze d’azione, subentra una parte più anticlimatica dove, tra una ruota panoramica e un centro commerciale, Enzo e Alessia approfondiscono il loro rapporto. Come hai differenziato questa parte de Lo chiamavano Jeeg Robot rispetto alle scene più “action” del film?
Queste, se posso dirlo, sono le scene de Lo chiamavano Jeeg Robot che sento più vicine alla mia sensibilità. Non era l’azione esterna dei personaggi che faceva da traino e quindi da guida al montaggio, ma i loro movimenti interiori, le loro emozioni, quindi il sottotesto emotivo del film. Per questa sequenza, Gabriele mi ha lasciato molta libertà di espressione. Mainetti firma anche le musiche de Lo chiamavano Jeeg Robot come fa sempre essendo un bravissimo compositore, in questo caso assieme a Michele Braga. Nella sequenza che si sofferma sul rapporto tra Enzo e Alessia, soprattutto nella scena della ruota panoramica, Gabriele ed io abbiamo condiviso un lavoro di sinergia anche sul versante musicale, innanzitutto per individuare il mood giusto da dare alle musiche, poi anche per sviluppare parallelamente il tono emotivo, facendo interagire le note con le immagini.
È raro che un regista sia anche compositore, per quanto non manchino esempi illustri in questo senso.
Siccome Gabriele voleva vestire questa doppia veste di regista e compositore, quando lui indossava i panni del compositore io in un certo senso dovevo prendere anche un po’ la parte del regista, per fare da avvocato del diavolo o comunque da controparte: un processo creativo atipico, ma interessante.
La sequenza allo Stadio Olimpico, dove lo Zingaro vorrebbe piazzare una bomba per fare un attentato, è una delle più impressionanti e note di tutto il film: quali interventi ha richiesto, a livello di montaggio e VFX?
La sequenza dello stadio è tra le più complesse del film, sia per la lunghezza della sequenza in sé, sia per il grado di difficoltà dei VFX. Secondo me soffre, più di altre sequenze, del poco budget. Anche per questioni di tempi e giornate di riprese, nell’ottica di queste limitazioni abbiamo lavorato per cercare di renderla il più adrenalinica e impressionante possibile. In una sequenza del genere l’intervento VFX in digitale è stato fondamentale, chiaramente: Mainetti e la troupe hanno girato davvero nello Stadio Olimpico, ma con un centinaio di comparse; tutte le inquadrature in cui si vedono gli spalti dello stadio pieni di spettatori sono state oggetto di pesanti interventi VFX, tanto le inquadrature più larghe quanto i campi medi, e a volte anche nelle inquadrature più strette su loro due. Anche quando Enzo e lo Zingaro se le danno “di santa ragione” fuori dalle porte dello Stadio Olimpico ci sono state molte integrazioni di effetti visivi: sono stati aggiunti i calcinacci che volano, e anche delle piccole accelerazioni che enfatizzavano la velocità dei pugni e dei movimenti. Sul set, tutta la scena dello scontro fra i due era stata preparata come se fosse una danza, con una vera e propria coreografia, e tutte le varie posizioni e inquadrature erano molto ben immaginate e strutturate: questo ha agevolato molto il passaggio in montaggio e agli effetti visivi. Quando Enzo prende l’autoambulanza, subentra a livello di montaggio un topos cinematografico classico: il montaggio alternato tra lui in fuga al volante del mezzo e la bomba che inesorabilmente scandisce il suo countdown. Il passaggio in cui Enzo deve superare le barriere preparate dalla polizia e i relativi automezzi è un altro di quei momenti di Jeeg Robot in cui, almeno secondo me, si avverte di più la povertà dei mezzi del film.
Quanto è stato impiegato consapevolmente il montaggio, in questa e in altre sequenze del film, per “camuffare” la scarsità produttiva?
Il montaggio a volte ha dovuto coprire la scarsità del budget, ma abbiamo fatto il massimo del lavoro possibile per camuffarla: in ogni caso, anche se Lo chiamavano Jeeg Robot è stato girato e post-prodotto con mezzi inferiori rispetto a quelli che avrebbe meritato, la sua estetica grezza fa parte senz’altro dello stile che Gabriele cercava. Uno stile che in qualche modo si rispecchiava anche nel personaggio di Ceccotti, un “rozzone” che si ritrova con dei superpoteri che all’inizio non sa gestire. La metafora esistenziale alla base del film viene rispecchiata nello stile, e proprio per questo motivo non avevamo bisogno di un’estetica da supereroe americano in stile Marvel, epico, fanfarone, perfetto: ci bastava anche quell’estetica più low-fi che poi effettivamente abbiamo avuto.
Lo chiamavano Jeeg Robot è stato accolto come una novità nel panorama produttivo italiano degli ultimi anni, e certo è atipico vedere film di genere in Italia, soprattutto quando sono così ricchi di effetti. Quanto diverge montare un tipo di cinema bene o male action rispetto ai film più statici che generalmente vengono realizzati in Italia? E secondo te come mai in Italia c’è questa penuria dei generi, nonostante i buoni incassi di film come Jeeg Robot?
Il perché dovresti chiederlo ai produttori, sono i produttori che non sembrano essere molto interessati a questo tipo di film di genere. Mainetti per Lo chiamavano Jeeg Robot aveva bussato alle porte di tutti i produttori e alla fine se l’è dovuto produrre da solo; così come lo stesso Freaks Out, che pure ha avuto un forte intervento da parte della 01 e della Lucky Red, comunque lo ha prodotto in gran parte Gabriele in prima persona, con la sua casa di produzione. Fondamentalmente credo che ci sia un problema di tipo produttivo: i produttori hanno paura di investire in progetti così complessi, innanzitutto perché costano di più rispetto a un film “tradizionale” e hanno sequenze più complicate d’azione, che giocoforza richiedono tempi più lunghi, e quindi costi più alti. Così facendo però finiamo per produrre quasi sempre film che nascono, crescono e muoiono solo dentro il nostro paese, dove c’è un bacino di utenza e quindi di spettatori molto limitato rispetto alla cinematografia di livello mondiale: non riusciamo proprio a vedere le potenzialità anche commerciali di film del tipo di Jeeg Robot. Bisogna saper “guardare lungo” e cercare di creare prodotti che siano italiani, come può esserlo Jeeg Robot nel senso buono del termine, ma che possano essere visti, apprezzati e distribuiti in tutto il mondo.
NC-108
23.04.2022
Andrea Maguolo, classe 1980, è un montatore italiano, a lungo attivo anche come colorist. Diplomatosi nel 2005 al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dopo una gavetta nel mondo della produzione televisiva e dei videoclip, inizia a lavorare per il cinema al fianco di registi come Daniele Segre, Pippo Mezzapesa e Claudio Noce. Nel 2016 vince il David di Donatello come miglior montatore per Lo chiamavano Jeeg Robot, instant cult diretto dall’esordiente Gabriele Mainetti e interpretato da Claudio Santamaria e Luca Marinelli. Tra i suoi ultimi impegni, il documentario Vado verso dove vengo di Nicola Ragone e il premiato Sole di Carlo Sironi.
Lo abbiamo intervistato per conoscere meglio il suo lavoro e riflettere insieme sullo stato del cinema italiano.
Come hai iniziato il tuo percorso da montatore e quale è stata la tua formazione?
Io ho iniziato ad appassionarmi al montaggio e in generale al linguaggio cinematografico quando ancora frequentavo il liceo classico. Subito dopo il liceo, parallelamente a studi universitari di argomento scientifico, ho iniziato a lavorare sempre più spesso come montatore inizialmente televisivo. Pian piano il montaggio ha preso tutta la mia vita, ho capito che era l’attività che volevo fare a tempo pieno e mi sono iscritto al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ho trascorso i tre anni canonici al CSC e poi dopo il diploma mi sono rimesso a lavorare, generalmente per il cinema.
Come sei stato coinvolto da Gabriele Mainetti ne Lo chiamavano Jeeg Robot? Avevi lavorato anche tu come altri membri del team al cortometraggio Tiger Boy?
Tiger Boy lo avevo per così dire “incrociato”, avevo iniziato a metterci le mani finché non sono subentrati dei problemi nel dietro-le-quinte per cui l’aveva dovuto ultimare un altro montatore. Anche su Lo chiamavano Jeeg Robot ci sono state delle turbolenze nel corso della lavorazione: ho iniziato il film, poi ci sono stati problemi e attriti di vario tipo per cui ho sospeso e ho fatto un altro film nel mentre. Dopo che il girato era passato fra le mani di altri montatori, Gabriele mi ha richiamato e ho finito io il film. Certo anche Jeeg Robot è stata un’esperienza piuttosto turbolenta, come sempre capita con Mainetti.
La concitata sequenza d’apertura mostra Enzo Ceccotti, il protagonista, scappare inseguito dalla polizia dopo un piccolo furto, per poi andare a rifugiarsi in un’ansa del Tevere dove entra in contatto con la sostanza tossica che lo trasforma in Jeeg Robot. Come si è svolto il montaggio di questi minuti iniziali del film?
Quella è una sequenza abbastanza significativa, è stata montata e rimontata più volte non solo da me ma anche da altri montatori che si sono succeduti nell’interregno dei tre mesi in cui io avevo smesso di lavorare al film. Per come era stata girata, la sequenza d’apertura poteva effettivamente essere montata in molti modi diversi: Gabriele Mainetti e il suo direttore della fotografia Michele D’Attanasio avevano fatto tanti tagli sia su Enzo Ceccotti che scappa sia sui poliziotti che lo inseguono. Nelle varie stesure che io ho curato di prima mano, con Gabriele ho deciso di rimanere molto più su Enzo, raccontando i poliziotti soltanto come elemento ansiogeno e disturbante della fuga del protagonista, ma staccando il meno possibile su di loro: la loro presenza sullo sfondo serviva però ad aumentare l’ansia, la paura e la suspense dell’inseguimento.
Dopo essere entrato in contatto con la sostanza misteriosa nel Tevere, Enzo è diventato inconsapevolmente un “supereroe”, o quantomeno un superumano: se ne accorge soltanto quando, dopo uno scambio di droga finito male, cade da un palazzo per un’altezza di almeno dieci metri senza farsi un graffio. A livello di montaggio, come hai lavorato sulla scena per simulare meglio la caduta?
Quella scena, per quel che mi ricordo, era studiata quasi da storyboard, con un minutaggio molto preciso. Gabriele aveva molto chiaro in mente come voleva montarla, la successione delle inquadrature attraverso le quali raccontare tutta la situazione. È stata studiata molto bene a tavolino, anche perché quando ci sono di mezzo degli effetti visivi bisogna essere già chiari e consapevoli sin dall’inizio, sin dal set. Grazie a questo lavoro preparatorio la scena fondamentalmente è venuta un po’ da sé; l’unico intervento di montaggio è andato nel senso di enfatizzare la caduta stessa. Innanzitutto c’è stato un ovvio intervento di effetti visivi, per cui è stato allungato e in parte ricostruito il palazzo con i VFX, per farlo risultare più alto di quanto effettivamente fosse; poi, attraverso il montaggio che in qualche modo riprendeva la caduta da varie angolazioni, abbiamo allungato un po’ il tempo della caduta, almeno a livello di percezione dello spettatore. Chiaramente è un’illusione, è solo un fatto di enfasi, ma la percezione che si ha è quella di una caduta da un’altezza maggiore.
Una scena con molti personaggi e quindi con molti punti di vista è quella dello scontro tra Enzo e gli uomini della banda dello Zingaro nella casa che apparteneva al padre del personaggio di Ilenia Pastorelli. Come hai montato quella scena? Non sembra essere stata una scena facile neanche sul versante VFX…
Quella è una scena complicatissima, girata da tantissimi punti di vista diversi. A differenza di altre scene, Gabriele non aveva un’idea molto chiara di come voleva raccontarla, e quindi neanche di come voleva montarla. Sul set è stato attento a “portarsi a casa” quante più angolazioni possibili, spesso scavalcando anche il campo ma con la consapevolezza di dover scegliere al montaggio su quale linea di campo rimanere. Proprio per questo è stata una delle scene del film più faticose da montare: avevamo tantissime opzioni diverse che si escludevano a vicenda, ed era necessario anche mantenere un buon ritmo, perché era pur sempre una scena d’azione.
Nel momento in cui Enzo Ceccotti “smaschera” i suoi poteri e inizia a gettare per aria gli uomini dello Zingaro fino a tirare via dal muro un termosifone, come hai integrato nel montaggio gli SFX, gli stunt e i VFX?
In fase di ripresa c’erano stati anche alcuni problemi di stunt che non erano andati benissimo: al di là di tutto Lo chiamavano Jeeg Robot è un film girato con un budget molto inferiore rispetto a quello che un film del genere richiedeva, per cui spesso la parte stunt ed effetti sul set non era sempre ottima e all’altezza delle aspettative, e durante la post-produzione è stato necessario correre ai ripari. Le integrazioni in VFX hanno riguardato innanzitutto cancellazioni e rimozioni delle funi che tenevano in aria il personaggio di Salvatore Esposito, ma sono intervenuti anche sui personaggi che venivano tirati via rapidamente per dare l’effetto del colpo di Ceccotti col pugno: c’erano vari sistemi classici di stunt che poi sono in qualche modo stati aggiustati ulteriormente con gli effetti visivi. Per quanto riguarda il montaggio, la scena è stata molto faticosa perché non era stata storyboardata. L’abbiamo dovuta un pochino trovare al montaggio, tenendo conto al tempo stesso delle integrazioni VFX che non sempre avevamo a portata di mano.
Dopo una serie di sequenze d’azione, subentra una parte più anticlimatica dove, tra una ruota panoramica e un centro commerciale, Enzo e Alessia approfondiscono il loro rapporto. Come hai differenziato questa parte de Lo chiamavano Jeeg Robot rispetto alle scene più “action” del film?
Queste, se posso dirlo, sono le scene de Lo chiamavano Jeeg Robot che sento più vicine alla mia sensibilità. Non era l’azione esterna dei personaggi che faceva da traino e quindi da guida al montaggio, ma i loro movimenti interiori, le loro emozioni, quindi il sottotesto emotivo del film. Per questa sequenza, Gabriele mi ha lasciato molta libertà di espressione. Mainetti firma anche le musiche de Lo chiamavano Jeeg Robot come fa sempre essendo un bravissimo compositore, in questo caso assieme a Michele Braga. Nella sequenza che si sofferma sul rapporto tra Enzo e Alessia, soprattutto nella scena della ruota panoramica, Gabriele ed io abbiamo condiviso un lavoro di sinergia anche sul versante musicale, innanzitutto per individuare il mood giusto da dare alle musiche, poi anche per sviluppare parallelamente il tono emotivo, facendo interagire le note con le immagini.
È raro che un regista sia anche compositore, per quanto non manchino esempi illustri in questo senso.
Siccome Gabriele voleva vestire questa doppia veste di regista e compositore, quando lui indossava i panni del compositore io in un certo senso dovevo prendere anche un po’ la parte del regista, per fare da avvocato del diavolo o comunque da controparte: un processo creativo atipico, ma interessante.
La sequenza allo Stadio Olimpico, dove lo Zingaro vorrebbe piazzare una bomba per fare un attentato, è una delle più impressionanti e note di tutto il film: quali interventi ha richiesto, a livello di montaggio e VFX?
La sequenza dello stadio è tra le più complesse del film, sia per la lunghezza della sequenza in sé, sia per il grado di difficoltà dei VFX. Secondo me soffre, più di altre sequenze, del poco budget. Anche per questioni di tempi e giornate di riprese, nell’ottica di queste limitazioni abbiamo lavorato per cercare di renderla il più adrenalinica e impressionante possibile. In una sequenza del genere l’intervento VFX in digitale è stato fondamentale, chiaramente: Mainetti e la troupe hanno girato davvero nello Stadio Olimpico, ma con un centinaio di comparse; tutte le inquadrature in cui si vedono gli spalti dello stadio pieni di spettatori sono state oggetto di pesanti interventi VFX, tanto le inquadrature più larghe quanto i campi medi, e a volte anche nelle inquadrature più strette su loro due. Anche quando Enzo e lo Zingaro se le danno “di santa ragione” fuori dalle porte dello Stadio Olimpico ci sono state molte integrazioni di effetti visivi: sono stati aggiunti i calcinacci che volano, e anche delle piccole accelerazioni che enfatizzavano la velocità dei pugni e dei movimenti. Sul set, tutta la scena dello scontro fra i due era stata preparata come se fosse una danza, con una vera e propria coreografia, e tutte le varie posizioni e inquadrature erano molto ben immaginate e strutturate: questo ha agevolato molto il passaggio in montaggio e agli effetti visivi. Quando Enzo prende l’autoambulanza, subentra a livello di montaggio un topos cinematografico classico: il montaggio alternato tra lui in fuga al volante del mezzo e la bomba che inesorabilmente scandisce il suo countdown. Il passaggio in cui Enzo deve superare le barriere preparate dalla polizia e i relativi automezzi è un altro di quei momenti di Jeeg Robot in cui, almeno secondo me, si avverte di più la povertà dei mezzi del film.
Quanto è stato impiegato consapevolmente il montaggio, in questa e in altre sequenze del film, per “camuffare” la scarsità produttiva?
Il montaggio a volte ha dovuto coprire la scarsità del budget, ma abbiamo fatto il massimo del lavoro possibile per camuffarla: in ogni caso, anche se Lo chiamavano Jeeg Robot è stato girato e post-prodotto con mezzi inferiori rispetto a quelli che avrebbe meritato, la sua estetica grezza fa parte senz’altro dello stile che Gabriele cercava. Uno stile che in qualche modo si rispecchiava anche nel personaggio di Ceccotti, un “rozzone” che si ritrova con dei superpoteri che all’inizio non sa gestire. La metafora esistenziale alla base del film viene rispecchiata nello stile, e proprio per questo motivo non avevamo bisogno di un’estetica da supereroe americano in stile Marvel, epico, fanfarone, perfetto: ci bastava anche quell’estetica più low-fi che poi effettivamente abbiamo avuto.
Lo chiamavano Jeeg Robot è stato accolto come una novità nel panorama produttivo italiano degli ultimi anni, e certo è atipico vedere film di genere in Italia, soprattutto quando sono così ricchi di effetti. Quanto diverge montare un tipo di cinema bene o male action rispetto ai film più statici che generalmente vengono realizzati in Italia? E secondo te come mai in Italia c’è questa penuria dei generi, nonostante i buoni incassi di film come Jeeg Robot?
Il perché dovresti chiederlo ai produttori, sono i produttori che non sembrano essere molto interessati a questo tipo di film di genere. Mainetti per Lo chiamavano Jeeg Robot aveva bussato alle porte di tutti i produttori e alla fine se l’è dovuto produrre da solo; così come lo stesso Freaks Out, che pure ha avuto un forte intervento da parte della 01 e della Lucky Red, comunque lo ha prodotto in gran parte Gabriele in prima persona, con la sua casa di produzione. Fondamentalmente credo che ci sia un problema di tipo produttivo: i produttori hanno paura di investire in progetti così complessi, innanzitutto perché costano di più rispetto a un film “tradizionale” e hanno sequenze più complicate d’azione, che giocoforza richiedono tempi più lunghi, e quindi costi più alti. Così facendo però finiamo per produrre quasi sempre film che nascono, crescono e muoiono solo dentro il nostro paese, dove c’è un bacino di utenza e quindi di spettatori molto limitato rispetto alla cinematografia di livello mondiale: non riusciamo proprio a vedere le potenzialità anche commerciali di film del tipo di Jeeg Robot. Bisogna saper “guardare lungo” e cercare di creare prodotti che siano italiani, come può esserlo Jeeg Robot nel senso buono del termine, ma che possano essere visti, apprezzati e distribuiti in tutto il mondo.