Il rapporto del regista inglese con gli attori
e il metodo di creazione dei suoi personaggi,
di Federico Mattioni
TR-91
20.01.2024
Mike Leigh cresce e matura la sua “consapevolezza cinematografica” tramite le vicissitudini della sua stessa infanzia: i conflitti familiari con l’autoritario padre, secondo il quale portare avanti la professione dell’artista era da considerarsi un anatema, l’ebraismo da membro attivo Hebonim (il movimento socialista-sionista) e l’ateismo. Non a caso il regista affermerà: ‹‹Ho avuto fin da piccolo l’impressione che la religione fosse solo un gioco per intrattenere gli esseri umani. Dirigere un film è tanto sociale quanto solitario. Bisogna essere autoritari e dire alla gente cosa fare, far muovere le persone e manovrarle. Devi essere un amante del controllo››.
Per Mike, come per i più grandi autori del cinema, fare film è un modo per empatizzare con i propri collaboratori e costruire un mondo a parte con gli interpreti, secondo un percorso che il regista inglese, nato e cresciuto a Salford, ha intrapreso in maniera davvero unica ed esemplare. Il contrasto tra filistei borghesi e anime hippie, i contesti familiari arrangiati che vanno incontro ad imprevedibili sviluppi, le conseguenze di divergenze generazionali, sono elementi evidenti in tutti quei film che hanno contribuito a definire la sua poetica: da High Hopes (Belle speranze, 1988) a Naked (Nudo,1993), da Secrets & Lies (Segreti e bugie, 1996) a Career Girls (Ragazze, 1997), da Happy Go Lucky (La felicità porta fortuna, 2008) ad Another Year (2010). Un contrasto inevitabilmente biografico che ha recessi insiti nell’educazione che Leigh a ricevuto sul mondo e sulla vita.
Quando il giovane cineasta giunge a Londra nel 1960 dando inizio ai suoi studi alla RADA (Royal Academy of Dramatic Art), i suoi orizzonti culturali mutano velocemente. Passa dall’amore per il cinema inglese di David Lean e Carol Reed alla scoperta del cinema mondiale dei maestri: Ejzenstein, Keaton, Buñuel, Renoir, Ozu, Kurosawa, Bergman, Wilder, Fellini, Satjiat Ray e naturalmente gli antieroi del Free Cinema Inglese Lindsay Anderson, Tony Richardson e Karel Reisz. ‹‹Di sicuro ho subito l’influenza di Godard e Truffaut. Truffaut per la sua umanità e Godard perché mi ha aperto gli occhi sul concetto di film in quanto tale, della natura filmica del film. Durante tutta l’infanzia e l’adolescenza ho amato i film inglesi e hollywoodiani, ma ho sempre sognato un genere di opere in cui si vedessero personaggi che erano come me, nel bene e nel male. Una vera svolta fu la visione di La strada dei quartieri alti (1959) di Jack Clayton. Uscire dal film ed immergermi nel mondo reale che avevo appena visto sullo schermo è stato molto entusiasmante. Ma se lo si guarda adesso risulta un lavoro molto sorpassato e teatrale, soprattutto la recitazione››.
Ecco, la recitazione. Quella cosa che Mike Leigh cura più di tutte le altre. In una scala di valori la recitazione figura sempre e comunque al primo posto nei suoi lungometraggi. Il modo in cui si relaziona con gli attori, costruendo con essi qualcosa che comincia da quando si inizia a lavorare sul testo. Un processo di costruzione che parte sia dalle vite degli interpreti stessi che da quelle di sconosciuti, e che non ha eguali nel mondo del cinema. La stranezza e le peculiarità del suo modo di lavorare e di approcciare alla materia filmica, implicano una costruzione dei personaggi e della storia che procede, spesso e volentieri, di pari passo con lo svolgersi delle riprese. Un metodo di lavoro così può ricordare quello di John Cassavetes, ma Leigh ci tiene a precisare: ‹‹Nel corso degli anni ho provato sentimenti contrastanti nei confronti di Cassavetes, in alcuni casi è eccezionale, adoro per esempio Assassinio di un allibratore cinese (1976), ma film come Mariti (1970) o in modo particolare Gloria (1980), risentono del fatto che gli attori si comportano come tali, improvvisano loro stessi, e quello che ne risulta sono atteggiamenti da attore, pensieri da attore, cosa che, secondo me, non funziona››.
Dietro questo processo, c’è anche lo studio del teatro naturalmente, in particolare quello di Peter Brook: ‹‹A teatro andavo a vedere tutto quello che potevo: Gorki, Rudkin, Grotowski, Artaud, Brecht. Ma Pinter e Beckett hanno avuto una particolare influenza su di me. La fusione tra le parole, il silenzio, il visivo, lo spazio, il comico, il tragico, lo specifico, l’astratto, il trascendente, il ridicolo››. Ma le fondamenta “dell’arte di fare cinema” di Mike, si drasticizzarono nella fattispecie durante il corso degli studi alla Camberwell Art School: ‹‹Un giorno ero alla lezione di disegno dal vivo. Disegnare era molto importante alla Camberwell, erano famosi per quello. Eravamo circa una ventina, tutti in silenzio intenti a disegnare una modella. La luce del sole entrava dalle ampie vetrate vittoriane. La concentrazione era assoluta, si sarebbe sentito cadere uno spillo. Mi sono guardato attorno e, d’un tratto, ho avuto una rivelazione. Era quello il nocciolo della questione. Una cosa che non avevo mai sperimentato come studente di teatro. Tutti erano impegnati in un’indagine spontanea della realtà, di qualcosa di molto significativo per ciascuno. Ognuno di noi era immerso in un’esperienza unica e personale. Osservavamo il mondo ed eravamo creativi. E ho pensato: perché le prove di teatro non possono essere così? Perché si devono svolgere in maniera indisciplinata e poco concentrata, con la gente che legge il giornale in un angolo della stanza senza prestare attenzione al lavoro? Questo è un gruppo di individui ognuno concentrato sul proprio lavoro, eppure è un’esercitazione molto più omogenea di qualunque altra, perché qui ogni studente è equilibrato, sicuro e non è destabilizzato dalle insicurezze altrui. Perché gli attori devono mettere in pratica la loro abilità solo in prestazioni interpretative? Non possono essere loro stessi gli artisti? E per quale ragione, a questo proposito, la regia dovrebbe essere un lavoro d’interpretazione? E perché regia e scrittura devono per forza essere due abilità separate? E scrivere e fare le prove non possono diventare parte di un unico processo che coinvolge l’attore in una maniera veramente creativa?››.
L’attrazione verso gli attori e la recitazione germina da quell’esperienza. La creazione di un metodo in cui gli interpreti danno vita alle situazioni, generando universi all’interno di contesti non immediatamente convergibili. Creare un percorso nel quale il collettivo si autodisciplina registicamente per rintracciare la verità dell’interpretazione partendo dal vissuto personale. Non c’è solo il regista a dirigere la banda, poiché questo "processo attitudinale" libero e creativo nasce dalla sicurezza di ogni interprete. Ciascun attore, in pratica, comincia con il lavorare individualmente sul suo personaggio in modo da esporlo al regista così che lui possa “coniugarli” tutti assieme.
Fu l’esperienza teatrale a Birmingham a consolidare le idee del cineasta nel lavoro con gli attori: ‹‹Nel 1968, mettendo in scena lo spettacolo teatrale Individual Fruit Pies, ho realizzato la prima vera opera alla Mike Leigh. Per la prima volta la rappresentazione si era sviluppata attraverso un lavoro personale con gli attori e la costruzione di personaggi molto dettagliati e individuali. Gli attori non sapevano nulla del resto dell’opera, a eccezione di quello che i loro personaggi potevano conoscere. I vari protagonisti nascevano ed erano costruiti prendendo spunto da persone che gli attori avevano incontrato nella realtà››. In questo modo i personaggi vengono scelti da Leigh, ma sono gli attori ad esserne autori. Al regista spettano, ovviamente, scelte di carattere drammatico, tematico ed estetico. Inizialmente, i primi esperimenti sembrarono ricondurre ad una sorta di anti-teatro e anti-cinema, ma presto, Mike, capì che i personaggi potevano essere molto più di esseri che reprimono tutto. Le emozioni sono una rivelazione: la scoperta dell’interiorità che si palesa agli occhi del pubblico.
Tutti gli attori che negli anni hanno abitualmente collaborato con Mike Leigh (Ruth Sheen, Lesley Manville, Catrin Kartlidge, Timothy Spall, Jim Broadbent, Sally Hawkins, Eddie Marsan) ne parlano in maniera entusiastica, senza nascondere un velo di paura nei suoi riguardi. ‹‹In linea di principio chiedo all’attore o all’attrice di partire da una data persona. Poi chiedo di cominciare a interpretare il personaggio in solitudine in una stanza. Non è necessario che succeda niente di particolare, serve solo a calarsi nel personaggio. Stando al modo in cui si è evoluto il metodo negli anni, se con un attore creo una figura che si ispira a tre o più persone ricorro a delle tecniche per farlo immedesimare nel personaggio: ad esempio ripercorriamo insieme passato e futuro per poi mescolarli attraverso la recitazione, anziché limitarci semplicemente a parlarne. Si tratta di dire all’attore di fare quello che vuole, di agire come agirebbe il suo personaggio. Non deve far finta di avere un amico immaginario. Perciò, quando l’attore si è abituato a interpretare il personaggio da solo, può interagire con gli altri, che si sono preparati allo stesso modo. Con qualche base solida: sanno chi sono, cosa hanno vissuto e tutto quello che riguarda il loro personaggio. Dapprincipio, incoraggiavo l’attore non soltanto a interpretare da solo quella persona, ma anche a parlare tra sé e sé. Adoro Beckett che usa molto il flusso di coscienza. Ma ho dovuto imparare ad avere pazienza e a saper individuare l’enorme differenza tra un artificio che mi attrae o che trovo interessante e qualcosa che invece deve necessariamente succedere, in quanto fa parte della struttura conclusiva. In altre parole, dovevo imparare la differenza tra le fondamenta di un edificio e un edificio vero e proprio. Non credo che sarei stato capace di fare quello che faccio se non avessi trascorso del tempo, per quanto breve, alla scuola d’arte. Tutta l’arte è una sintesi tra improvvisazione e ordine››.
L’intera opera di Leigh si basa quindi sull’evoluzione di un film in termini di creazione del personaggio, costruzione della sua storia e delle sue relazioni, ricerca di ogni tipo di informazioni finalizzate a dare contenuto a tutta l’esperienza e infine creazione di una struttura nel corso delle prove, con susseguente ripresa cinematografica del materiale prodotto. Un processo di rivelazioni che inizialmente non può essere pienamente conscio. Una sorta di esplorazione dell’ignoto, del mistero dell’uomo, con tutte le sue idiosincrasie. Un metodo complesso ma estremamente affascinante e imprevedibile, poiché prende vita per mezzo delle improvvisazioni dettate dall’emotività degli attori. Nessuno si fa inibire da nessuno. Si agisce privi di preconcetti. Il regista ammette però, che non è per niente facile parlare del suo metodo, men che meno riassumerlo.
Uno dei momenti più alti di questo "processo di realizzazione" è quasi tutto concentrato nella lunga, sporca e pericolosa notte londinese di Naked (1993), che vede protagonista il barbone/filosofo Johnny, magnificamente interpretato da un cinico David Thewlis (che per questo ruolo si aggiudicò il Prix d'interprétation masculine al Festival di Cannes e che, per arrivare ad inquadrare perfettamente il suo personaggio, esaminò circa cento persone). Dialoghi che vanno oltre, discorsi che sanno di bruciato, accensioni improvvise, spegnimenti latenti, un marcescente sentore di nichilismo da fine secolo, aspro e ribelle. Idee che spuntano improvvisamente, direzionando la traiettoria del percorso dei personaggi. Tutto sembra far parte di un quadro ricco di punti di fuga.
Ma non tutti gli attori riescono ad intraprendere quest’esperienza. Alcuni se ne sono andati e se ne sono pentiti, ammette Mike: ‹‹Per molti, recitare significa fare un mestiere, evitando d’immedesimarsi in persone vere, del mondo reale. La verità è che molti attori non fanno davvero finta di essere qualcun altro in un contesto credibile, ma rimangono loro stessi nella situazione contingente, sul palco o di fronte la macchina da presa. Io invece sono alla ricerca di attori che si immergano completamente nel personaggio e che sforzino la loro immaginazione al punto da sapere in modo istintivo come reagire. Come nel momento in cui, ad esempio, si presenta la polizia per arrestare Vera Drake. Quella scena è stata il risultato di dieci ore di improvvisazione che hanno avuto luogo per tre mesi prima che la girassimo. Chiedere a un gruppo di adulti di travestirsi per dieci ore fingendo di essere qualcun altro, con lo stesso coinvolgimento e sospensione dell’incredulità di un gruppo di bambini che giocano agli indiani e ai cowboy nel bosco, non è cosa da poco››.
Quando Leigh fa colloqui per scegliere i suoi attori non ci deve essere nessun altro nella stanza e gli incontri devono essere almeno di mezz’ora a testa. Per il casting non crede che sia opportuno avere una commissione giudicante. Quello che va cercando è un rapporto umano, una relazione personale che vada al di là delle metodiche prove di recitazione. Una bella chiacchierata nella quale raccontarsi le proprie esperienze e rivelare le proprie idee, visioni. Già da lì, si può capire se c’è sintonia. A quel punto fa tornare gli attori che lo hanno convinto invitandoli a parlare, per almeno un’ora, di persone che conoscono, facendogliele interpretare un poco. Dal modo in cui ne parlano, e le interpretano, si può intuire davvero molto del loro modo di osservare la vita.
Mike Leigh dichiara di non essere capace di descrivere, in termini narrativi convenzionali, quello di cui tratterà la sua prossima pellicola. L’idea dell’oggettiva difficoltà di realizzare un film che somigli anche solo in maniera vaga a quanto immaginato, deve essergli servito da guida per il suo approccio alla regia. Un entusiasmante viaggio di esplorazione. Viene in mente la vitale ed antidepressiva Poppy, mentre se ne va in giro in bicicletta per una colorata e profumata Londra (la Londra più colorata di sempre), nell’incipit del bel Happy Go Lucky (2008), lungometraggio che lo stesso Leigh dichiara di amare più di tutti gli altri proprio per lo spirito che trasmette grazie al lavoro svolto con Sally Hawkins (riconosciuta come miglior attrice al Festival di Berlino e ai Golden Globe 2009). Un esempio lampante di film costruito a partire dalle caratteristiche del personaggio della protagonista. Tutti gli altri, e tutto il resto, non possono che ruotarle attorno.
Nella filmografia del regista vi sono personaggi letteralmente allergici alle vicinanze ed altri che, invece, ne hanno un bisogno quasi spasmodico. L’incontro, dopo tanti anni di silenzi e dinieghi tra le protagoniste, madre e figlia ignare, di Secrets & Lies (1996) ne è decisamente esemplificativo. Brenda Blethyn (nel ruolo di Cynthia Rose Purley) e l’esordiente Marianne Jeanne-Baptiste (Hortense Cumberbatch) sono meravigliose nella scena più straordinaria della filmografia di Mike (in ex-aequo con il finale di Naked, al quale il cineasta arrivò senza sapere come far terminare la storia): Cynthia non ha memoria di essere stata a letto con un uomo africano, tende a negarlo fino all’ultimo con tutta se stessa, ma poi si comincia a scorgere nel suo sguardo la forza dirompente del ricordo inatteso, un ricordo che la porta ad un pianto che scoppia a strappi e inumidisce l’aria. Un gran lavoro di autenticità, frutto di lunghissime prove e di un procedimento che si fissa, cronologicamente, come un calendario fitto d’impegni nelle tappe delle rivelazioni di una vita. E poi la sintesi, la festa di compleanno di Roxanne: il finale di Segreti e bugie che vede tutti, finalmente, riuniti - un pò come in Another Year (2010), il film che offre meglio l’idea di un ritrovo con gli amici/attori di una carriera iniziata nel 1971 con Bleak Moments.
Le pellicole di Mike Leigh sono, a tutti gli effetti, opere che ci paiono familiari. Film che nascono e maturano in famiglia, dentro un processo gravido di vita. Le storie che il regista ha in mente di raccontare non possono che mutare, espandersi, ridursi ed evolversi persino mentre sceglie gli attori, fa le prove, le gira e le assembla. Un materiale grezzo che non prende mai una direzione precisa per poter essere pienamente creativo fino all’atto finale del montaggio. Del resto, una direzione esatta non ce l’ha nessuno dei suoi personaggi: Johnny scappa da qualcosa e finisce per tornare fumosamente da dove era fuggito; Hortense si mette alla ricerca della sua vera madre finendo per incedere verso il futuro attraverso un ritorno al passato e alle sue origini; Poppy vive decisamente alla giornata ed è allergica ai metodi di chi pensa di avere tutto sotto controllo (come l’isterico e ossessivo Scott, suo istruttore di guida), e così via per tutte le Career Girls (1997), protagoniste senza punti fermi.
Direzioni che portano decise dentro quelle dinamiche associate agli spunti emotivi, al sense of humour, all’istinto (e al panico che ne consegue). Un processo nel quale vi accedono anche il direttore della fotografia, lo scenografo, la costumista, la truccatrice, il responsabile delle location. Prima di girare il film, solo una struttura di massima, senza dialogo e senza descrizioni dettagliate. Durante le riprese, in maniera genuina, il processo di creazione si innesca attraverso il contributo sinergico di tutta la squadra. Tutto in funzione della riuscita di un film. Tutto o (al contrario) niente. Prendere o lasciare. Il cinema di Mike Leigh, l’umanista. L’uomo al servizio dell’umano.
Il rapporto del regista inglese con gli attori
e il metodo di creazione dei suoi personaggi,
di Federico Mattioni
TR-91
20.01.2024
Mike Leigh cresce e matura la sua “consapevolezza cinematografica” tramite le vicissitudini della sua stessa infanzia: i conflitti familiari con l’autoritario padre, secondo il quale portare avanti la professione dell’artista era da considerarsi un anatema, l’ebraismo da membro attivo Hebonim (il movimento socialista-sionista) e l’ateismo. Non a caso il regista affermerà: ‹‹Ho avuto fin da piccolo l’impressione che la religione fosse solo un gioco per intrattenere gli esseri umani. Dirigere un film è tanto sociale quanto solitario. Bisogna essere autoritari e dire alla gente cosa fare, far muovere le persone e manovrarle. Devi essere un amante del controllo››.
Per Mike, come per i più grandi autori del cinema, fare film è un modo per empatizzare con i propri collaboratori e costruire un mondo a parte con gli interpreti, secondo un percorso che il regista inglese, nato e cresciuto a Salford, ha intrapreso in maniera davvero unica ed esemplare. Il contrasto tra filistei borghesi e anime hippie, i contesti familiari arrangiati che vanno incontro ad imprevedibili sviluppi, le conseguenze di divergenze generazionali, sono elementi evidenti in tutti quei film che hanno contribuito a definire la sua poetica: da High Hopes (Belle speranze, 1988) a Naked (Nudo,1993), da Secrets & Lies (Segreti e bugie, 1996) a Career Girls (Ragazze, 1997), da Happy Go Lucky (La felicità porta fortuna, 2008) ad Another Year (2010). Un contrasto inevitabilmente biografico che ha recessi insiti nell’educazione che Leigh a ricevuto sul mondo e sulla vita.
Quando il giovane cineasta giunge a Londra nel 1960 dando inizio ai suoi studi alla RADA (Royal Academy of Dramatic Art), i suoi orizzonti culturali mutano velocemente. Passa dall’amore per il cinema inglese di David Lean e Carol Reed alla scoperta del cinema mondiale dei maestri: Ejzenstein, Keaton, Buñuel, Renoir, Ozu, Kurosawa, Bergman, Wilder, Fellini, Satjiat Ray e naturalmente gli antieroi del Free Cinema Inglese Lindsay Anderson, Tony Richardson e Karel Reisz. ‹‹Di sicuro ho subito l’influenza di Godard e Truffaut. Truffaut per la sua umanità e Godard perché mi ha aperto gli occhi sul concetto di film in quanto tale, della natura filmica del film. Durante tutta l’infanzia e l’adolescenza ho amato i film inglesi e hollywoodiani, ma ho sempre sognato un genere di opere in cui si vedessero personaggi che erano come me, nel bene e nel male. Una vera svolta fu la visione di La strada dei quartieri alti (1959) di Jack Clayton. Uscire dal film ed immergermi nel mondo reale che avevo appena visto sullo schermo è stato molto entusiasmante. Ma se lo si guarda adesso risulta un lavoro molto sorpassato e teatrale, soprattutto la recitazione››.
Ecco, la recitazione. Quella cosa che Mike Leigh cura più di tutte le altre. In una scala di valori la recitazione figura sempre e comunque al primo posto nei suoi lungometraggi. Il modo in cui si relaziona con gli attori, costruendo con essi qualcosa che comincia da quando si inizia a lavorare sul testo. Un processo di costruzione che parte sia dalle vite degli interpreti stessi che da quelle di sconosciuti, e che non ha eguali nel mondo del cinema. La stranezza e le peculiarità del suo modo di lavorare e di approcciare alla materia filmica, implicano una costruzione dei personaggi e della storia che procede, spesso e volentieri, di pari passo con lo svolgersi delle riprese. Un metodo di lavoro così può ricordare quello di John Cassavetes, ma Leigh ci tiene a precisare: ‹‹Nel corso degli anni ho provato sentimenti contrastanti nei confronti di Cassavetes, in alcuni casi è eccezionale, adoro per esempio Assassinio di un allibratore cinese (1976), ma film come Mariti (1970) o in modo particolare Gloria (1980), risentono del fatto che gli attori si comportano come tali, improvvisano loro stessi, e quello che ne risulta sono atteggiamenti da attore, pensieri da attore, cosa che, secondo me, non funziona››.
Dietro questo processo, c’è anche lo studio del teatro naturalmente, in particolare quello di Peter Brook: ‹‹A teatro andavo a vedere tutto quello che potevo: Gorki, Rudkin, Grotowski, Artaud, Brecht. Ma Pinter e Beckett hanno avuto una particolare influenza su di me. La fusione tra le parole, il silenzio, il visivo, lo spazio, il comico, il tragico, lo specifico, l’astratto, il trascendente, il ridicolo››. Ma le fondamenta “dell’arte di fare cinema” di Mike, si drasticizzarono nella fattispecie durante il corso degli studi alla Camberwell Art School: ‹‹Un giorno ero alla lezione di disegno dal vivo. Disegnare era molto importante alla Camberwell, erano famosi per quello. Eravamo circa una ventina, tutti in silenzio intenti a disegnare una modella. La luce del sole entrava dalle ampie vetrate vittoriane. La concentrazione era assoluta, si sarebbe sentito cadere uno spillo. Mi sono guardato attorno e, d’un tratto, ho avuto una rivelazione. Era quello il nocciolo della questione. Una cosa che non avevo mai sperimentato come studente di teatro. Tutti erano impegnati in un’indagine spontanea della realtà, di qualcosa di molto significativo per ciascuno. Ognuno di noi era immerso in un’esperienza unica e personale. Osservavamo il mondo ed eravamo creativi. E ho pensato: perché le prove di teatro non possono essere così? Perché si devono svolgere in maniera indisciplinata e poco concentrata, con la gente che legge il giornale in un angolo della stanza senza prestare attenzione al lavoro? Questo è un gruppo di individui ognuno concentrato sul proprio lavoro, eppure è un’esercitazione molto più omogenea di qualunque altra, perché qui ogni studente è equilibrato, sicuro e non è destabilizzato dalle insicurezze altrui. Perché gli attori devono mettere in pratica la loro abilità solo in prestazioni interpretative? Non possono essere loro stessi gli artisti? E per quale ragione, a questo proposito, la regia dovrebbe essere un lavoro d’interpretazione? E perché regia e scrittura devono per forza essere due abilità separate? E scrivere e fare le prove non possono diventare parte di un unico processo che coinvolge l’attore in una maniera veramente creativa?››.
L’attrazione verso gli attori e la recitazione germina da quell’esperienza. La creazione di un metodo in cui gli interpreti danno vita alle situazioni, generando universi all’interno di contesti non immediatamente convergibili. Creare un percorso nel quale il collettivo si autodisciplina registicamente per rintracciare la verità dell’interpretazione partendo dal vissuto personale. Non c’è solo il regista a dirigere la banda, poiché questo "processo attitudinale" libero e creativo nasce dalla sicurezza di ogni interprete. Ciascun attore, in pratica, comincia con il lavorare individualmente sul suo personaggio in modo da esporlo al regista così che lui possa “coniugarli” tutti assieme.
Fu l’esperienza teatrale a Birmingham a consolidare le idee del cineasta nel lavoro con gli attori: ‹‹Nel 1968, mettendo in scena lo spettacolo teatrale Individual Fruit Pies, ho realizzato la prima vera opera alla Mike Leigh. Per la prima volta la rappresentazione si era sviluppata attraverso un lavoro personale con gli attori e la costruzione di personaggi molto dettagliati e individuali. Gli attori non sapevano nulla del resto dell’opera, a eccezione di quello che i loro personaggi potevano conoscere. I vari protagonisti nascevano ed erano costruiti prendendo spunto da persone che gli attori avevano incontrato nella realtà››. In questo modo i personaggi vengono scelti da Leigh, ma sono gli attori ad esserne autori. Al regista spettano, ovviamente, scelte di carattere drammatico, tematico ed estetico. Inizialmente, i primi esperimenti sembrarono ricondurre ad una sorta di anti-teatro e anti-cinema, ma presto, Mike, capì che i personaggi potevano essere molto più di esseri che reprimono tutto. Le emozioni sono una rivelazione: la scoperta dell’interiorità che si palesa agli occhi del pubblico.
Tutti gli attori che negli anni hanno abitualmente collaborato con Mike Leigh (Ruth Sheen, Lesley Manville, Catrin Kartlidge, Timothy Spall, Jim Broadbent, Sally Hawkins, Eddie Marsan) ne parlano in maniera entusiastica, senza nascondere un velo di paura nei suoi riguardi. ‹‹In linea di principio chiedo all’attore o all’attrice di partire da una data persona. Poi chiedo di cominciare a interpretare il personaggio in solitudine in una stanza. Non è necessario che succeda niente di particolare, serve solo a calarsi nel personaggio. Stando al modo in cui si è evoluto il metodo negli anni, se con un attore creo una figura che si ispira a tre o più persone ricorro a delle tecniche per farlo immedesimare nel personaggio: ad esempio ripercorriamo insieme passato e futuro per poi mescolarli attraverso la recitazione, anziché limitarci semplicemente a parlarne. Si tratta di dire all’attore di fare quello che vuole, di agire come agirebbe il suo personaggio. Non deve far finta di avere un amico immaginario. Perciò, quando l’attore si è abituato a interpretare il personaggio da solo, può interagire con gli altri, che si sono preparati allo stesso modo. Con qualche base solida: sanno chi sono, cosa hanno vissuto e tutto quello che riguarda il loro personaggio. Dapprincipio, incoraggiavo l’attore non soltanto a interpretare da solo quella persona, ma anche a parlare tra sé e sé. Adoro Beckett che usa molto il flusso di coscienza. Ma ho dovuto imparare ad avere pazienza e a saper individuare l’enorme differenza tra un artificio che mi attrae o che trovo interessante e qualcosa che invece deve necessariamente succedere, in quanto fa parte della struttura conclusiva. In altre parole, dovevo imparare la differenza tra le fondamenta di un edificio e un edificio vero e proprio. Non credo che sarei stato capace di fare quello che faccio se non avessi trascorso del tempo, per quanto breve, alla scuola d’arte. Tutta l’arte è una sintesi tra improvvisazione e ordine››.
L’intera opera di Leigh si basa quindi sull’evoluzione di un film in termini di creazione del personaggio, costruzione della sua storia e delle sue relazioni, ricerca di ogni tipo di informazioni finalizzate a dare contenuto a tutta l’esperienza e infine creazione di una struttura nel corso delle prove, con susseguente ripresa cinematografica del materiale prodotto. Un processo di rivelazioni che inizialmente non può essere pienamente conscio. Una sorta di esplorazione dell’ignoto, del mistero dell’uomo, con tutte le sue idiosincrasie. Un metodo complesso ma estremamente affascinante e imprevedibile, poiché prende vita per mezzo delle improvvisazioni dettate dall’emotività degli attori. Nessuno si fa inibire da nessuno. Si agisce privi di preconcetti. Il regista ammette però, che non è per niente facile parlare del suo metodo, men che meno riassumerlo.
Uno dei momenti più alti di questo "processo di realizzazione" è quasi tutto concentrato nella lunga, sporca e pericolosa notte londinese di Naked (1993), che vede protagonista il barbone/filosofo Johnny, magnificamente interpretato da un cinico David Thewlis (che per questo ruolo si aggiudicò il Prix d'interprétation masculine al Festival di Cannes e che, per arrivare ad inquadrare perfettamente il suo personaggio, esaminò circa cento persone). Dialoghi che vanno oltre, discorsi che sanno di bruciato, accensioni improvvise, spegnimenti latenti, un marcescente sentore di nichilismo da fine secolo, aspro e ribelle. Idee che spuntano improvvisamente, direzionando la traiettoria del percorso dei personaggi. Tutto sembra far parte di un quadro ricco di punti di fuga.
Ma non tutti gli attori riescono ad intraprendere quest’esperienza. Alcuni se ne sono andati e se ne sono pentiti, ammette Mike: ‹‹Per molti, recitare significa fare un mestiere, evitando d’immedesimarsi in persone vere, del mondo reale. La verità è che molti attori non fanno davvero finta di essere qualcun altro in un contesto credibile, ma rimangono loro stessi nella situazione contingente, sul palco o di fronte la macchina da presa. Io invece sono alla ricerca di attori che si immergano completamente nel personaggio e che sforzino la loro immaginazione al punto da sapere in modo istintivo come reagire. Come nel momento in cui, ad esempio, si presenta la polizia per arrestare Vera Drake. Quella scena è stata il risultato di dieci ore di improvvisazione che hanno avuto luogo per tre mesi prima che la girassimo. Chiedere a un gruppo di adulti di travestirsi per dieci ore fingendo di essere qualcun altro, con lo stesso coinvolgimento e sospensione dell’incredulità di un gruppo di bambini che giocano agli indiani e ai cowboy nel bosco, non è cosa da poco››.
Quando Leigh fa colloqui per scegliere i suoi attori non ci deve essere nessun altro nella stanza e gli incontri devono essere almeno di mezz’ora a testa. Per il casting non crede che sia opportuno avere una commissione giudicante. Quello che va cercando è un rapporto umano, una relazione personale che vada al di là delle metodiche prove di recitazione. Una bella chiacchierata nella quale raccontarsi le proprie esperienze e rivelare le proprie idee, visioni. Già da lì, si può capire se c’è sintonia. A quel punto fa tornare gli attori che lo hanno convinto invitandoli a parlare, per almeno un’ora, di persone che conoscono, facendogliele interpretare un poco. Dal modo in cui ne parlano, e le interpretano, si può intuire davvero molto del loro modo di osservare la vita.
Mike Leigh dichiara di non essere capace di descrivere, in termini narrativi convenzionali, quello di cui tratterà la sua prossima pellicola. L’idea dell’oggettiva difficoltà di realizzare un film che somigli anche solo in maniera vaga a quanto immaginato, deve essergli servito da guida per il suo approccio alla regia. Un entusiasmante viaggio di esplorazione. Viene in mente la vitale ed antidepressiva Poppy, mentre se ne va in giro in bicicletta per una colorata e profumata Londra (la Londra più colorata di sempre), nell’incipit del bel Happy Go Lucky (2008), lungometraggio che lo stesso Leigh dichiara di amare più di tutti gli altri proprio per lo spirito che trasmette grazie al lavoro svolto con Sally Hawkins (riconosciuta come miglior attrice al Festival di Berlino e ai Golden Globe 2009). Un esempio lampante di film costruito a partire dalle caratteristiche del personaggio della protagonista. Tutti gli altri, e tutto il resto, non possono che ruotarle attorno.
Nella filmografia del regista vi sono personaggi letteralmente allergici alle vicinanze ed altri che, invece, ne hanno un bisogno quasi spasmodico. L’incontro, dopo tanti anni di silenzi e dinieghi tra le protagoniste, madre e figlia ignare, di Secrets & Lies (1996) ne è decisamente esemplificativo. Brenda Blethyn (nel ruolo di Cynthia Rose Purley) e l’esordiente Marianne Jeanne-Baptiste (Hortense Cumberbatch) sono meravigliose nella scena più straordinaria della filmografia di Mike (in ex-aequo con il finale di Naked, al quale il cineasta arrivò senza sapere come far terminare la storia): Cynthia non ha memoria di essere stata a letto con un uomo africano, tende a negarlo fino all’ultimo con tutta se stessa, ma poi si comincia a scorgere nel suo sguardo la forza dirompente del ricordo inatteso, un ricordo che la porta ad un pianto che scoppia a strappi e inumidisce l’aria. Un gran lavoro di autenticità, frutto di lunghissime prove e di un procedimento che si fissa, cronologicamente, come un calendario fitto d’impegni nelle tappe delle rivelazioni di una vita. E poi la sintesi, la festa di compleanno di Roxanne: il finale di Segreti e bugie che vede tutti, finalmente, riuniti - un pò come in Another Year (2010), il film che offre meglio l’idea di un ritrovo con gli amici/attori di una carriera iniziata nel 1971 con Bleak Moments.
Le pellicole di Mike Leigh sono, a tutti gli effetti, opere che ci paiono familiari. Film che nascono e maturano in famiglia, dentro un processo gravido di vita. Le storie che il regista ha in mente di raccontare non possono che mutare, espandersi, ridursi ed evolversi persino mentre sceglie gli attori, fa le prove, le gira e le assembla. Un materiale grezzo che non prende mai una direzione precisa per poter essere pienamente creativo fino all’atto finale del montaggio. Del resto, una direzione esatta non ce l’ha nessuno dei suoi personaggi: Johnny scappa da qualcosa e finisce per tornare fumosamente da dove era fuggito; Hortense si mette alla ricerca della sua vera madre finendo per incedere verso il futuro attraverso un ritorno al passato e alle sue origini; Poppy vive decisamente alla giornata ed è allergica ai metodi di chi pensa di avere tutto sotto controllo (come l’isterico e ossessivo Scott, suo istruttore di guida), e così via per tutte le Career Girls (1997), protagoniste senza punti fermi.
Direzioni che portano decise dentro quelle dinamiche associate agli spunti emotivi, al sense of humour, all’istinto (e al panico che ne consegue). Un processo nel quale vi accedono anche il direttore della fotografia, lo scenografo, la costumista, la truccatrice, il responsabile delle location. Prima di girare il film, solo una struttura di massima, senza dialogo e senza descrizioni dettagliate. Durante le riprese, in maniera genuina, il processo di creazione si innesca attraverso il contributo sinergico di tutta la squadra. Tutto in funzione della riuscita di un film. Tutto o (al contrario) niente. Prendere o lasciare. Il cinema di Mike Leigh, l’umanista. L’uomo al servizio dell’umano.