Freaks Out ha dimostrato che film di questo
tipo si possono fare anche in Italia,
di Ludovico Cantisani e Tobia Cimini
TR-43
12.21.2021
Intervista a Michele D’Attanasio su Freaks Out
Michele D’Attanasio (Pescara, 1976) è uno dei più affermati direttori della fotografia del cinema italiano contemporaneo. Socio e in passato anche vicepresidente dell’AIC (Associazione Italiana Autori della Fotografia Cinematografica), ha vinto il David di Donatello nel 2017 per Veloce come il vento di Matteo Rovere. Tra gli altri film da lui fotografati, Il paese delle spose infelici di Pippo Mezzapesa, In grazia di Dio di Edoardo Winspeare, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Capri Revolution di Mario Martone, Il grande spirito di Sergio Rubini, Padrenostro di Claudio Noce e Tre Piani di Nanni Moretti. È tornato al fianco di Gabriele Mainetti per firmare la fotografia di Freaks Out, opera seconda del regista ambientata nella Roma dell’occupazione nazista uscita a ottobre 2021.
Freaks Out è in sala già da qualche settimana e sta ottenendo un buon successo di pubblico. Come stai vivendo questo momento?
Devo dire che sono molto contento. Tra l’altro mi chiamano tante persone tra colleghi e addetti ai lavori per farmi i complimenti o chiedermi come ho realizzato alcune cose. Non è una cosa scontata, molte persone sono rimaste entusiaste del film.
Dopo il grande successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, in molti aspettavano il secondo film di Gabriele Mainetti. Com’è stata la genesi di Freaks Out?
Gabriele è una persona che ragiona molto su quello che fa ed è anche uno spettatore vorace. La frenesia che ha da spettatore non ce l’ha però come regista. Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot avrebbe potuto girare qualsiasi cosa, soprattutto il sequel che in molti gli chiedevano. Invece Freaks Out è uscito sette anni dopo il suo primo film, certo con il rallentamento della pandemia, ma comunque sarebbe uscito nel 2020. Freaks Out non è stato un film nato sull’onda del successo di Jeeg Robot, Gabriele si è preso del tempo per pensare.
In che momento sei stato coinvolto? E quando effettivamente avete iniziato a girare?
Abbiamo iniziato a girare a fine aprile del 2018, ma la prima riunione “amichevole”, solamente per parlarne insieme, era stata a dicembre del 2016. Per un anno e mezzo abbiamo avuto solamente un lavoro sulla sceneggiatura, era chiaro che ci sarebbero voluti più soldi che per Jeeg Robot e avevamo pianificato una lavorazione di 12 settimane. Alla fine è venuto a costare più del doppio di quanto avevamo immaginato e le riprese sono durate molto di più. La preparazione vera e propria è partita tra ottobre e novembre del 2017. Più si andava avanti e più capivamo che c’era bisogno di più tempo, ci è cresciuto tra le mani strada facendo.
Com’è stato il lavoro scenografico e a livello di location?
Volevamo fare un qualcosa di epico e avevamo un grande scenografo, Max Sturiale. Ha ricostruito in studio quasi tutto quel che si vede nel film. In esterno, dove le possibilità di intervento erano minori essendo location dal vero (per la scena della battaglia finale, ad esempio), abbiamo aumentato la profondità con le luci, mettendole addirittura in campo ma sempre coperte dal fumo. In tutto il film abbiamo usato moltissimo l’haze, che è un fumo molto leggero ed era in grado di costruire una tridimensionalità anche nei punti in cui non c’era più nulla.
Per il circo di Franz, ad esempio, per avere più libertà di movimento abbiamo scelto un circo vero. Il tendone rosso era di plastica, cosa che risultava anacronistica rispetto all’epoca in cui il film è ambientato, per non far vedere il materiale ho lavorato sui sottotoni, dimodoché la brillantezza data dalle luci non andasse sul telone e mantenesse l’illusione della stoffa. Il nostro obiettivo è stato ricavare il massimo possibile da tutto quello che abbiamo avuto a disposizione. È vero che le nostre disponibilità sono state maggiori della media, ma rivedendo il film finito mi sono detto che siamo stati capaci di raggiungere una qualità del risultato che normalmente richiede anche risorse ben più grandi.
Quale macchina da presa e quale set di lenti hai scelto e perché? Hai voluto fare dei test?
Abbiamo testato vari tipi di ottiche e il genere di color che avevamo intenzione di usare per il film. I test li abbiamo fatti ad aprile, nei teatri di posa dove abbiamo poi girato il film, in una scenografia abbozzata e con i nostri quattro protagonisti davanti alla macchina. Per le lenti, dopo un’attenta selezione, avevamo ridotto le possibilità a tre tipi: le Master Anamorphic, le Todd-AO e le Summicron. Dunque due set anamorfici e uno sferico, le Summicron. Come pasta e rapporto incisione/morbidezza preferivo le Summicron, ma devo dire che anche le Master erano al pari. Nei tagli più stretti facevo anche fatica a distinguere le Summicron dalle Master.
Piccola digressione: faccio una considerazione sull’apporto che per me un direttore della fotografia deve dare al regista e quindi al film. Oltre alle questioni estetiche che rappresentano la maggior parte del mio lavoro, secondo me ci sono anche delle questioni realizzative. Devo garantire, oltre all’estetica, la fattibilità delle cose che propongo. Ad esempio: le visioni di Franz, che abbiamo realizzato prima di iniziare a girare, ci hanno portato a creare immagini che dessero al film quella “magia” che a noi piaceva. Questa digressione per dirti che, nel pratico, girare con le Summicron ci permetteva di avere più libertà creativa, di avere meno vincoli tecnici, senza avere un look del quale ci saremmo dovuti accontentare.
Alla fine hai optato per i Summicron, quindi. Le anamorfiche invece che possibilità ti offrivano?
Sicuramente le anamorfiche (parlo soprattutto del confronto 18sferico/35 anamorfico) avevano degli sfondi che ci davano più “magia”. Ma già con il confronto 25sferico/50 anamorfico questa distinzione netta andava quasi a decadere. Avevo notato poi che paragonando 20sferico e 40anamorfico, il secondo aveva meno aberrazioni di linee e più profondità di campo, dava perciò l’impressione che la scenografia del circo fosse più piccola; il 20sferico ha chiaramente una profondità di fuoco maggiore e anche una leggera distorsione, dunque faceva sì che con i soggetti in primo piano il circo sembrasse più grande e noi avevamo bisogno che il circo di Franz fosse magnificente, enorme. Questo effetto, questa piccola bombatura delle ottiche più larghe funzionava anche nel circhetto più piccolo perché dava un senso di claustrofobia.
Venendo alla color: quel pizzico di “magia” in meno che davano i Summicron sulle larghe lo avremmo potuto dare in color e anche sul set, inventandoci dei contrasti di luce, dei tagli di inquadratura. Già riflettevo infatti anche sulla color, che avrei voluto fare un po’ più estrema rispetto al nostro solito, e trovare una chiave che accompagnasse la color seguendo la narrazione del film.
Il film inizia con un’esplosione e una scena molto caotica. Come avete realizzato quella sequenza?
L’abbiamo girata con due setup, ma forse sarebbe meglio dire tre. Il primo è stato anche quello che è durato di più e riguardava tutto quello che accade dentro il circo; lo abbiamo girato tutto in teatro di posa con dei semplici proiettori Fresnel 5000-10000, che all’inizio pensavo di tenere ribattuti ma ho scelto invece di mantenere diretti perché il telone del circo assorbiva moltissima luce. Mentre per l’inquadratura della ragazza che scende dall’alto abbiamo aggiunto la chiusura del tendone in postproduzione, in alto noi avevamo un lucernario che mi faceva arrivare anche un po’ di luce, che magari non era credibilissima ma mi è servita per rischiarare un poco l’interno. Io poi avevo anche una leggere diffusa dietro macchina. Tutto questo setup è servito per tutta la sequenza fino al momento dello squarcio. Per il secondo setup abbiamo trasportato tutto il circhetto in una piazza di Viterbo e lo abbiamo reilluminato, con degli Arri M90 che facevano lo stesso lavoro dei proiettori in teatro di posa ma erano chiaramente molto più potenti. Ci servivano per avere maggior equilibrio tra interno ed esterno, fuori ovviamente c’era la luce naturale e gli Arri hanno la stessa temperatura-colore del sole.
Il terzo setup è sempre all’interno del circo, ma nella piazza vera e propria. Il tendone del circo si squarcia mentre la macchina da presa è all’interno e da lì esce, riprendendo il resto della scena fino alla caduta del campanile. Gli Arri sono stati fondamentali anche per questo, compensavano la luce all’interno con quella esterna del sole. A tutto ciò si abbina anche un cambio dinamico di diaframma effettuato in fase di ripresa.
Il personaggio di Matilde ha un rapporto molto stretto con la luce. Come hai gestito sul set e poi con i tecnici degli effetti speciali le scene in cui il suo corpo è fonte di luce?
È stato un lavoro di coordinazione fatto da me, dagli SFX (gli effetti scenici, fatti in dal vero in fase di ripresa) e dai VFX, nonché dal reparto costumi, che ha dovuto inserire dei led nel costume di Matilde. Il connubio tra tutti noi ha fatto sì che una parte del lavoro è stata fatta sul set, lavoro che è poi servito come base per iniziare a fare i VFX. Se non c’è una luce sul set a dare l’input agli effetti, questi risulteranno sempre “appiccicati”. In Freaks Out non è così proprio grazie alla sinergia tra i vari reparti. Ogni aumento di luce che veniva effettuato in VFX corrispondeva a una luce in più che mettevamo già sul set. Nella scena finale Matilde aveva inizialmente solo dei led inseriti nel suo corpetto, poi abbiamo aumentato la luce man mano, fino ad arrivare a degli AirCraft posizionati affianco a lei. In questo modo l’illuminazione era dinamica, la luce non batteva solo su di lei ma anche sulle cose che lei illuminava. Arrivati alla fine della sequenza lei indossava solo una tutina aderente cosparsa interamente di led.
Come hai illuminato invece la scena in cui la banda di partigiani sveglia Matilde all’alba ai Fori Imperiali?
La lavorazione allungata del film ha fatto sì che le riprese andassero avanti a singhiozzo, per cui quella scena è stata girata a novembre, nel momento in cui stavo lavorando su un altro set. Per tante scene, compresa questa, abbiamo cercato quindi di semplificare il più possibile l’illuminazione. Il luogo è un piccolo parco per cani a Monteverde in realtà. Essendo autunno la luce era già piuttosto bassa di suo, la nostra idea era perciò sfruttare per quanto possibile la luce naturale, semmai usare dei panni nel caso fosse spuntato il sole. È stata girata così, facendo di necessità virtù. In alcuni momenti infatti si nota il sole sullo sfondo, ma lo abbiamo abbassato moltissimo in color correction.
Queste scene qui sono state girate da Matteo Carlesimo (l’operatore del film), a cui io davo tutte le indicazioni, perché appunto con l’allungarsi delle riprese non riuscivo più ad essere sempre sul set. Riuscivo a girare solo le scene notturne, perché tornavo a Roma da Napoli la sera. Infatti la scena che precede il risveglio, quella in cui Matilde sviene, l’ho girata io con Matteo in macchina.
A conclusione del film c’è la lunga e complessa sequenza dell’assalto al treno. Come l’avete girata e come sei riuscito a illuminarla?
La battaglia finale è costata molto anche come numero di persone. Inizialmente doveva essere di giorno, ma abbiamo voluto farla di notte perché veniva fuori decisamente più spettacolare. Pur essendo una battaglia tra due eserciti al limite dell’assurdo, doveva sembrare credibile e coinvolgente. Oltretutto in quel contesto si scopre il vero potere di Matilde e c’è una quasi esplosione atomica che salva la situazione. Ambientarla di giorno avrebbe fatto perdere molto. Inizialmente abbiamo anche pensato di girare con la luce a cavallo, ma era davvero impossibile, ci sarebbero volute una trentina di gru per capannare tutta quell’area. Solo quella sequenza, partendo da quando escono dal circo, ha richiesto sette settimane di ripresa e l’abbiamo girata a fine estate, un periodo con il sole ancora abbastanza alto. Coprire il sole era impossibile, mentre fare una luce a cavallo vera e propria, girando solo all’alba o al tramonto, ci avrebbe preso molto più tempo. Di notte avevamo almeno una decina d’ore per girare, lavoravamo fin proprio alle luci dell’alba.
Illuminare tutto quello spazio di notte richiedeva un grande sforzo, c’era un tir solamente per i cavi elettrici. Abbiamo letteralmente circondato la montagna di proiettori e luci, a cui si aggiungeva un tubo costruito da Maurizio Corridori (che dirigeva gli SFX) lungo tutto il perimetro della battaglia per distribuire l’haze, il fumo. Ovviamente c’erano anche tutte le esplosioni con la terra dentro, i fuochi e tutto il resto. Elementi come l’haze erano fondamentali per dare tridimensionalità anche nei punti in cui la scenografia naturale finiva. Addirittura io accendevo anche dei proiettori in campo, ma li mettevo dietro al fumo e questo creava un effetto quasi magico, nonostante dietro non ci fosse nulla. Tutto ciò che avviene dopo l’esplosione invece abbiamo scelto di girarlo quando il sole era basso o quando era nuvolo, perché sapevamo che doveva essere nei primi momenti dell’alba e avevamo bisogno di una luce credibile senza poter aspettare ogni volta che il meteo ci assistesse.
Quanto è durata la postproduzione? Quali sono stati i principali interventi di color correction?
Entrambe sono durate di più del normale, ma la post in particolare è durata davvero tantissimo. Di solito, girando con l’Alexa, in color puoi lavorare già con il file Raw, ma noi in questo caso dovevamo aspettare i DPX dei VFX, perché non aveva senso lavorare con i file originali essendoci effetti importanti pressoché in ogni scena. La color l’abbiamo quindi portata avanti di pari passo con il lavoro dei VFX. Non ricordo di preciso per quanto tempo è andata avanti, ma è stata davvero lunga. La nostra copia definitiva l’abbiamo chiusa verso dicembre.
La pandemia ha spostato l’uscita di Freaks Out di parecchio, cosa che però vi ha dato la possibilità di essere in concorso a Venezia. Eri presente alla prima al Lido?
Sono riuscito ad andare perché per fortuna le date si sono incastrate bene con il film a cui stavo lavorando. È stato molto bello perché ho visto il film per la prima volta con il pubblico, prima lo avevo visto altre due volte ma in proiezione privata. Mi è sembrato un gran film, un bel lavoro, Gabriele è riuscito a ottenere esattamente quel che voleva: un film che avesse una forte componente spettacolare e senza perdere uno sguardo autoriale ben delineato.
Quale credi che sia l’importanza di un film come questo per il settore produttivo italiano?
Tanti anni fa, ricordo di aver letto nei i libri di studio per il DAMS che anche i registi italiani di grande importanza, tipo Fellini o Visconti, non godevano di una sorta di “onnipotenza” sui loro film, dovevano sottostare a delle privazioni per ragioni produttive. La loro bravura, assieme al loro talento registico, era anche quella di imporsi e credere fino alla fine nelle loro idee. Questa è una dote che ha anche Gabriele. Il sistema italiano ha degli schemi produttivi precisi, ma lui ha deciso di andare oltre. Freaks Out dimostra sicuramente che film di questo tipo si possono fare anche in Italia, che ci sono le professionalità per farli. Ma credo sia un film difficilmente replicabile, perché ha avuto una gestazione lunghissima e nessuno è disposto a caricarsi di un investimento (sia di tempo che economico) di questo tipo in Italia. Gabriele è certamente una rarità e gliene va dato il merito, ma sarebbe bello che non fosse così, che ci fosse una capacità più diffusa in Italia di gettare il cuore oltre l’ostacolo.
Freaks Out ha dimostrato che film di questo tipo si possono fare in Italia,
di Ludovico Cantisani e Tobia Cimini
TR-43
12.21.2021
Intervista a Michele D’Attanasio su Freaks Out
Michele D’Attanasio (Pescara, 1976) è uno dei più affermati direttori della fotografia del cinema italiano contemporaneo. Socio e in passato anche vicepresidente dell’AIC (Associazione Italiana Autori della Fotografia Cinematografica), ha vinto il David di Donatello nel 2017 per Veloce come il vento di Matteo Rovere. Tra gli altri film da lui fotografati, Il paese delle spose infelici di Pippo Mezzapesa, In grazia di Dio di Edoardo Winspeare, Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti, Capri Revolution di Mario Martone, Il grande spirito di Sergio Rubini, Padrenostro di Claudio Noce e Tre Piani di Nanni Moretti. È tornato al fianco di Gabriele Mainetti per firmare la fotografia di Freaks Out, opera seconda del regista ambientata nella Roma dell’occupazione nazista uscita a ottobre 2021.
Freaks Out è in sala già da qualche settimana e sta ottenendo un buon successo di pubblico. Come stai vivendo questo momento?
Devo dire che sono molto contento. Tra l’altro mi chiamano tante persone tra colleghi e addetti ai lavori per farmi i complimenti o chiedermi come ho realizzato alcune cose. Non è una cosa scontata, molte persone sono rimaste entusiaste del film.
Dopo il grande successo di Lo chiamavano Jeeg Robot, in molti aspettavano il secondo film di Gabriele Mainetti. Com’è stata la genesi di Freaks Out?
Gabriele è una persona che ragiona molto su quello che fa ed è anche uno spettatore vorace. La frenesia che ha da spettatore non ce l’ha però come regista. Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot avrebbe potuto girare qualsiasi cosa, soprattutto il sequel che in molti gli chiedevano. Invece Freaks Out è uscito sette anni dopo il suo primo film, certo con il rallentamento della pandemia, ma comunque sarebbe uscito nel 2020. Freaks Out non è stato un film nato sull’onda del successo di Jeeg Robot, Gabriele si è preso del tempo per pensare.
In che momento sei stato coinvolto? E quando effettivamente avete iniziato a girare?
Abbiamo iniziato a girare a fine aprile del 2018, ma la prima riunione “amichevole”, solamente per parlarne insieme, era stata a dicembre del 2016. Per un anno e mezzo abbiamo avuto solamente un lavoro sulla sceneggiatura, era chiaro che ci sarebbero voluti più soldi che per Jeeg Robot e avevamo pianificato una lavorazione di 12 settimane. Alla fine è venuto a costare più del doppio di quanto avevamo immaginato e le riprese sono durate molto di più. La preparazione vera e propria è partita tra ottobre e novembre del 2017. Più si andava avanti e più capivamo che c’era bisogno di più tempo, ci è cresciuto tra le mani strada facendo.
Com’è stato il lavoro scenografico e a livello di location?
Volevamo fare un qualcosa di epico e avevamo un grande scenografo, Max Sturiale. Ha ricostruito in studio quasi tutto quel che si vede nel film. In esterno, dove le possibilità di intervento erano minori essendo location dal vero (per la scena della battaglia finale, ad esempio), abbiamo aumentato la profondità con le luci, mettendole addirittura in campo ma sempre coperte dal fumo. In tutto il film abbiamo usato moltissimo l’haze, che è un fumo molto leggero ed era in grado di costruire una tridimensionalità anche nei punti in cui non c’era più nulla.
Per il circo di Franz, ad esempio, per avere più libertà di movimento abbiamo scelto un circo vero. Il tendone rosso era di plastica, cosa che risultava anacronistica rispetto all’epoca in cui il film è ambientato, per non far vedere il materiale ho lavorato sui sottotoni, dimodoché la brillantezza data dalle luci non andasse sul telone e mantenesse l’illusione della stoffa. Il nostro obiettivo è stato ricavare il massimo possibile da tutto quello che abbiamo avuto a disposizione. È vero che le nostre disponibilità sono state maggiori della media, ma rivedendo il film finito mi sono detto che siamo stati capaci di raggiungere una qualità del risultato che normalmente richiede anche risorse ben più grandi.
Quale macchina da presa e quale set di lenti hai scelto e perché? Hai voluto fare dei test?
Abbiamo testato vari tipi di ottiche e il genere di color che avevamo intenzione di usare per il film. I test li abbiamo fatti ad aprile, nei teatri di posa dove abbiamo poi girato il film, in una scenografia abbozzata e con i nostri quattro protagonisti davanti alla macchina. Per le lenti, dopo un’attenta selezione, avevamo ridotto le possibilità a tre tipi: le Master Anamorphic, le Todd-AO e le Summicron. Dunque due set anamorfici e uno sferico, le Summicron. Come pasta e rapporto incisione/morbidezza preferivo le Summicron, ma devo dire che anche le Master erano al pari. Nei tagli più stretti facevo anche fatica a distinguere le Summicron dalle Master.
Piccola digressione: faccio una considerazione sull’apporto che per me un direttore della fotografia deve dare al regista e quindi al film. Oltre alle questioni estetiche che rappresentano la maggior parte del mio lavoro, secondo me ci sono anche delle questioni realizzative. Devo garantire, oltre all’estetica, la fattibilità delle cose che propongo. Ad esempio: le visioni di Franz, che abbiamo realizzato prima di iniziare a girare, ci hanno portato a creare immagini che dessero al film quella “magia” che a noi piaceva. Questa digressione per dirti che, nel pratico, girare con le Summicron ci permetteva di avere più libertà creativa, di avere meno vincoli tecnici, senza avere un look del quale ci saremmo dovuti accontentare.
Alla fine hai optato per i Summicron, quindi. Le anamorfiche invece che possibilità ti offrivano?
Sicuramente le anamorfiche (parlo soprattutto del confronto 18sferico/35 anamorfico) avevano degli sfondi che ci davano più “magia”. Ma già con il confronto 25sferico/50 anamorfico questa distinzione netta andava quasi a decadere. Avevo notato poi che paragonando 20sferico e 40anamorfico, il secondo aveva meno aberrazioni di linee e più profondità di campo, dava perciò l’impressione che la scenografia del circo fosse più piccola; il 20sferico ha chiaramente una profondità di fuoco maggiore e anche una leggera distorsione, dunque faceva sì che con i soggetti in primo piano il circo sembrasse più grande e noi avevamo bisogno che il circo di Franz fosse magnificente, enorme. Questo effetto, questa piccola bombatura delle ottiche più larghe funzionava anche nel circhetto più piccolo perché dava un senso di claustrofobia.
Venendo alla color: quel pizzico di “magia” in meno che davano i Summicron sulle larghe lo avremmo potuto dare in color e anche sul set, inventandoci dei contrasti di luce, dei tagli di inquadratura. Già riflettevo infatti anche sulla color, che avrei voluto fare un po’ più estrema rispetto al nostro solito, e trovare una chiave che accompagnasse la color seguendo la narrazione del film.
Il film inizia con un’esplosione e una scena molto caotica. Come avete realizzato quella sequenza?
L’abbiamo girata con due setup, ma forse sarebbe meglio dire tre. Il primo è stato anche quello che è durato di più e riguardava tutto quello che accade dentro il circo; lo abbiamo girato tutto in teatro di posa con dei semplici proiettori Fresnel 5000-10000, che all’inizio pensavo di tenere ribattuti ma ho scelto invece di mantenere diretti perché il telone del circo assorbiva moltissima luce. Mentre per l’inquadratura della ragazza che scende dall’alto abbiamo aggiunto la chiusura del tendone in postproduzione, in alto noi avevamo un lucernario che mi faceva arrivare anche un po’ di luce, che magari non era credibilissima ma mi è servita per rischiarare un poco l’interno. Io poi avevo anche una leggere diffusa dietro macchina. Tutto questo setup è servito per tutta la sequenza fino al momento dello squarcio. Per il secondo setup abbiamo trasportato tutto il circhetto in una piazza di Viterbo e lo abbiamo reilluminato, con degli Arri M90 che facevano lo stesso lavoro dei proiettori in teatro di posa ma erano chiaramente molto più potenti. Ci servivano per avere maggior equilibrio tra interno ed esterno, fuori ovviamente c’era la luce naturale e gli Arri hanno la stessa temperatura-colore del sole.
Il terzo setup è sempre all’interno del circo, ma nella piazza vera e propria. Il tendone del circo si squarcia mentre la macchina da presa è all’interno e da lì esce, riprendendo il resto della scena fino alla caduta del campanile. Gli Arri sono stati fondamentali anche per questo, compensavano la luce all’interno con quella esterna del sole. A tutto ciò si abbina anche un cambio dinamico di diaframma effettuato in fase di ripresa.
Il personaggio di Matilde ha un rapporto molto stretto con la luce. Come hai gestito sul set e poi con i tecnici degli effetti speciali le scene in cui il suo corpo è fonte di luce?
È stato un lavoro di coordinazione fatto da me, dagli SFX (gli effetti scenici, fatti in dal vero in fase di ripresa) e dai VFX, nonché dal reparto costumi, che ha dovuto inserire dei led nel costume di Matilde. Il connubio tra tutti noi ha fatto sì che una parte del lavoro è stata fatta sul set, lavoro che è poi servito come base per iniziare a fare i VFX. Se non c’è una luce sul set a dare l’input agli effetti, questi risulteranno sempre “appiccicati”. In Freaks Out non è così proprio grazie alla sinergia tra i vari reparti. Ogni aumento di luce che veniva effettuato in VFX corrispondeva a una luce in più che mettevamo già sul set. Nella scena finale Matilde aveva inizialmente solo dei led inseriti nel suo corpetto, poi abbiamo aumentato la luce man mano, fino ad arrivare a degli AirCraft posizionati affianco a lei. In questo modo l’illuminazione era dinamica, la luce non batteva solo su di lei ma anche sulle cose che lei illuminava. Arrivati alla fine della sequenza lei indossava solo una tutina aderente cosparsa interamente di led.
Come hai illuminato invece la scena in cui la banda di partigiani sveglia Matilde all’alba ai Fori Imperiali?
La lavorazione allungata del film ha fatto sì che le riprese andassero avanti a singhiozzo, per cui quella scena è stata girata a novembre, nel momento in cui stavo lavorando su un altro set. Per tante scene, compresa questa, abbiamo cercato quindi di semplificare il più possibile l’illuminazione. Il luogo è un piccolo parco per cani a Monteverde in realtà. Essendo autunno la luce era già piuttosto bassa di suo, la nostra idea era perciò sfruttare per quanto possibile la luce naturale, semmai usare dei panni nel caso fosse spuntato il sole. È stata girata così, facendo di necessità virtù. In alcuni momenti infatti si nota il sole sullo sfondo, ma lo abbiamo abbassato moltissimo in color correction.
Queste scene qui sono state girate da Matteo Carlesimo (l’operatore del film), a cui io davo tutte le indicazioni, perché appunto con l’allungarsi delle riprese non riuscivo più ad essere sempre sul set. Riuscivo a girare solo le scene notturne, perché tornavo a Roma da Napoli la sera. Infatti la scena che precede il risveglio, quella in cui Matilde sviene, l’ho girata io con Matteo in macchina.
A conclusione del film c’è la lunga e complessa sequenza dell’assalto al treno. Come l’avete girata e come sei riuscito a illuminarla?
La battaglia finale è costata molto anche come numero di persone. Inizialmente doveva essere di giorno, ma abbiamo voluto farla di notte perché veniva fuori decisamente più spettacolare. Pur essendo una battaglia tra due eserciti al limite dell’assurdo, doveva sembrare credibile e coinvolgente. Oltretutto in quel contesto si scopre il vero potere di Matilde e c’è una quasi esplosione atomica che salva la situazione. Ambientarla di giorno avrebbe fatto perdere molto. Inizialmente abbiamo anche pensato di girare con la luce a cavallo, ma era davvero impossibile, ci sarebbero volute una trentina di gru per capannare tutta quell’area. Solo quella sequenza, partendo da quando escono dal circo, ha richiesto sette settimane di ripresa e l’abbiamo girata a fine estate, un periodo con il sole ancora abbastanza alto. Coprire il sole era impossibile, mentre fare una luce a cavallo vera e propria, girando solo all’alba o al tramonto, ci avrebbe preso molto più tempo. Di notte avevamo almeno una decina d’ore per girare, lavoravamo fin proprio alle luci dell’alba.
Illuminare tutto quello spazio di notte richiedeva un grande sforzo, c’era un tir solamente per i cavi elettrici. Abbiamo letteralmente circondato la montagna di proiettori e luci, a cui si aggiungeva un tubo costruito da Maurizio Corridori (che dirigeva gli SFX) lungo tutto il perimetro della battaglia per distribuire l’haze, il fumo. Ovviamente c’erano anche tutte le esplosioni con la terra dentro, i fuochi e tutto il resto. Elementi come l’haze erano fondamentali per dare tridimensionalità anche nei punti in cui la scenografia naturale finiva. Addirittura io accendevo anche dei proiettori in campo, ma li mettevo dietro al fumo e questo creava un effetto quasi magico, nonostante dietro non ci fosse nulla. Tutto ciò che avviene dopo l’esplosione invece abbiamo scelto di girarlo quando il sole era basso o quando era nuvolo, perché sapevamo che doveva essere nei primi momenti dell’alba e avevamo bisogno di una luce credibile senza poter aspettare ogni volta che il meteo ci assistesse.
Quanto è durata la postproduzione? Quali sono stati i principali interventi di color correction?
Entrambe sono durate di più del normale, ma la post in particolare è durata davvero tantissimo. Di solito, girando con l’Alexa, in color puoi lavorare già con il file Raw, ma noi in questo caso dovevamo aspettare i DPX dei VFX, perché non aveva senso lavorare con i file originali essendoci effetti importanti pressoché in ogni scena. La color l’abbiamo quindi portata avanti di pari passo con il lavoro dei VFX. Non ricordo di preciso per quanto tempo è andata avanti, ma è stata davvero lunga. La nostra copia definitiva l’abbiamo chiusa verso dicembre.
La pandemia ha spostato l’uscita di Freaks Out di parecchio, cosa che però vi ha dato la possibilità di essere in concorso a Venezia. Eri presente alla prima al Lido?
Sono riuscito ad andare perché per fortuna le date si sono incastrate bene con il film a cui stavo lavorando. È stato molto bello perché ho visto il film per la prima volta con il pubblico, prima lo avevo visto altre due volte ma in proiezione privata. Mi è sembrato un gran film, un bel lavoro, Gabriele è riuscito a ottenere esattamente quel che voleva: un film che avesse una forte componente spettacolare e senza perdere uno sguardo autoriale ben delineato.
Quale credi che sia l’importanza di un film come questo per il settore produttivo italiano?
Tanti anni fa, ricordo di aver letto nei i libri di studio per il DAMS che anche i registi italiani di grande importanza, tipo Fellini o Visconti, non godevano di una sorta di “onnipotenza” sui loro film, dovevano sottostare a delle privazioni per ragioni produttive. La loro bravura, assieme al loro talento registico, era anche quella di imporsi e credere fino alla fine nelle loro idee. Questa è una dote che ha anche Gabriele. Il sistema italiano ha degli schemi produttivi precisi, ma lui ha deciso di andare oltre. Freaks Out dimostra sicuramente che film di questo tipo si possono fare anche in Italia, che ci sono le professionalità per farli. Ma credo sia un film difficilmente replicabile, perché ha avuto una gestazione lunghissima e nessuno è disposto a caricarsi di un investimento (sia di tempo che economico) di questo tipo in Italia. Gabriele è certamente una rarità e gliene va dato il merito, ma sarebbe bello che non fosse così, che ci fosse una capacità più diffusa in Italia di gettare il cuore oltre l’ostacolo.