di Edoardo Marchetti
NC-234
19.09.2024
Nella parte finale di À la recherche du temps perdu, Proust incontra ad una festa alcune persone conosciute nel corso della vita, tutte scolpite dallo scorrere del tempo, cambiate nel fisico e nel loro essere. “Li vedevo e sembravano bambole immerse nei colori del tempo, che occupavano non solo le tre dimensioni di spazio, ma anche una dimensione in più: il tempo immenso che si portavano dietro”. Figure che sono il manifestarsi dei ricordi, di un passato risorto che ha lasciato delle visibili tracce individuali incrociatesi alla Storia collettiva. Il tempo è scorso imprendibile, e intanto i luoghi (oltreché le persone) e la loro funzione sono cambiate, come le tecnologie, le idee, fino ai modi di vestirsi o spostarsi o le abitudini alimentari o lo sport, mentre la memoria - l’unico strumento capace di cogliere le metamorfosi causate dal tempo - travalica il concludersi della vita, fissando i concetti invece di cristallizzarli, verso la ricerca della verità. Di fatto, attraverso la memoria, mai uniforme e rettilinea ma formata da una molteplicità di frammenti, è possibile (ri)costruire, mediante la coesistenza della vita con la morte, una verità storica.
La memoria è una delle chiavi più importanti per comprendere il cinema e la videoarte di Apichatpong Weerasethakul; distinta da un inestricabile connessione vita-morte e legata, come in Proust, ai sensi (la famosa madeleine divenuta simbolo), al gusto, ad un suono o un effetto tattile, che riporta indietro negli anni. Di fatto, quello di Weerasethakul, nonostante sia abitato da entità fantasmatiche, spettri o mostri che trovano le loro radici nella cultura thailandese e nella religione buddhista, è un cinema materico.
Memoria (2021), l’ultimo film del cineasta thailandese, si focalizza su Jessica, una coltivatrice di orchidee scozzese che, una notte, viene svegliata da un suono secco, un tonfo freddo ma avvolgente che ha in sé qualcosa di magico (o di fantascientifico). Lo strano evento si ripresenta nell’arco delle giornate successive, finendo per ossessionare la donna e spingendola a cercare l’origine di quel boato.
Questa ricerca della verità porterà Jessica ad incontrare una serie di personaggi rivelatori: un tecnico del suono che dovrà aiutarla a “ricreare” il misterioso echo, un’archeologa che ha scoperto alcuni resti umani risalenti a seimila anni prima e un pescatore che vive nella foresta amazzonica lontano dalla civiltà. Un singolo suono fantasma giunto dall’alto (forse), che è atterrato sul mondo e che mai si palesa nella sua concretezza, rimanendo evanescente.
Cos’è allora la memoria? Anche Walter Benjamin nel suo Scavare e ricordare (1932) scriveva che “la memoria non è strumento, ma il medium stesso per la ricognizione del passato, e per approcciarsi al passato è necessario comportarsi come un individuo che scava”. Così Agnes, l’archeologa, diviene icona dello svelamento. Weerasethakul però non si limita ad un’estensione nella verticalità della storia, nelle viscere della terra, ma vi unisce l’estendersi infinito delle foreste attraverso il personaggio dell’eremita. Così, quei frammenti dei singoli rivelano una visione d’insieme, una memoria collettiva, che diviene fisica, alla ricerca di un senso e (ancora) della verità.
Come Memoria, che inizia con una donna che dorme e che si sveglia all’improvviso, anche Cemetery of Splendour (2015) comincia dal sonno di un plotone di soldati, causato da una malattia ignota. Sono fermi, solo il loro addome si alza e si abbassa a ritmo del respiro, stesi sui lettini di un ospedale improvvisato a Khon Kaen e accuditi da dei volontari. Non sembrano esserci cure, solo un innovativo macchinario luminoso che cambia colore e prova a interferire sulla qualità del sonno e sui sogni. Jenjira, una casalinga, si occupa del giovane Itt, che si sveglia sporadicamente per poi ricadere nel semi-letargo. Intanto Keng, la medium, aiuta i parenti dei soldati ad entrare in contatto con i malati. La presenza del tempo che scorre si manifesta fin da subito tramite i ricordi di Jenjira sulla sua ex scuola, lì dove ora c’è l’ospedale. Lei sedeva dove adesso dorme Itt. C’è una sorta di continuità in quel luogo mistico, ma così reale, incorniciato dal bosco. Poi le Principesse Sorelle del Santuario si manifestano a Jen mentre mangia delle langsat su un tavolino nel parco, attorniata da significative statue di dinosauri, e le raccontano come gli spiriti dei re morti stiano assorbendo l’energia dai soldati per condurre le proprie battaglie, cominciate nel passato e mai concluse.
Le linee del tempo si estendono all’inverosimile, mentre nella città (raro vederle negli ultimi film di Weerasethakul) dei senzatetto dormono per strada o alla fermata del bus, e ai colori della notte si sostituiscono, silenziosamente e lentamente, le emanazioni luminose dei neon del marchingegno di cura sperimentale, prima blu, poi verde, poi giallo, rosso, viola. Poi, ancora l’ospedale e gli stessi colori.
Si delinea così un racconto giustapponibile alla violenta storia della Thailandia, passata e contemporanea. Restando nel presente, il 22 maggio 2014 l’esercito ha attuato un colpo di stato, prendendo la guida del Paese e portando ad un triste epilogo la debole democrazia presente in quel momento. I dormienti sono quindi i dissidenti imprigionati (forse per lesa maestà?). I sovrani hanno combattuto e continuano a combattere. In una fase di grande difficoltà, con l’anziano re malato ( deceduto nel 2016) e il suo erede, il principe Vajiralongkorn mal visto dal popolo (l’attuale e decimo sovrano della dinastia Chakri), la dittatura militare era giustificata dall’esigenza di esercitare un controllo sulle istituzioni, sui cittadini e sul territorio.
Estremamente esemplificativo è un episodio di protesta messo in atto da cinque studenti il 19 novembre 2014 proprio a Kon Kaen durante la visita del generale Prayuth Chan-ocha (colui che ha guidato il colpo di stato). Gli universitari si sono alzati durante il suo discorso, indossando magliette con su scritto “No al colpo di stato” e urlando frasi in favore della libertà. Sono stati arrestati e espulsi dall’università. Intanto, per l’intera durata del film, un escavatore fuori dall’ospedale disturba i suoni della natura.
Nel volume Il trascendente nel cinema (2002) Paul Schrader riporta un’affermazione di Robert Bresson: “Al cinema il soprannaturale non è nient’altro che il reale reso con maggior precisione”.
Realtà e sovrannaturale si sovrappongono ancora più vigorosi in Mekong Hotel (2012), opera ambientata sul fiume omonimo, situato al nord-est con la Thailandia, che segna il confine con il Laos. Lì, il regista (Weerasethakul che si mostra) e la sua troupe eseguono delle prove per un film scritto qualche anno prima, Ecstasy Garden. Nel mentre una madre vampira, mangiatrice di carne umana e animale, discute con sua figlia, e un uomo e una donna si innamorano. Anche in questo caso la realtà filmica si incasella nella realtà storica: Mekong Hotel è stato girato quando il Paese ha subito una devastante inondazione. Il fiume, un largo e spaventoso letto d’acqua, è ora silenzioso e crea un’atmosfera tranquilla.
Forse in questo documentario/horror a prendere il sopravvento sui pur presenti rimandi alla storia thailandese passata e contemporanea - sempre pesanti le ruspe che demoliscono e cancellano - sono i ricordi personali: “Questo hotel era uno dei tanti in cui avevo soggiornato durante le mie visite” dice Weerasethakul. “Si aggiunsero Tong, il mio attore, e Koon, il mio amico di liceo perduto da tempo che avevo incontrato di recente [...]. Avevamo molto da raccontare. Il crepuscolo ha spinto tutti a evocare i propri ricordi”.
Sembra necessario un confronto con Ashes, un cortometraggio/esperimento video-artistico che il cineasta ha girato nello stesso anno per Mubi, e al cui centro vive una rilettura dei ricordi personali, storici e politici, che continuano inevitabilmente ad unirsi - simbolicamente come pellicola e digitale - per creare una nuova identità, dell’individuo e di un Paese. Weerasethakul qui introduce un altro elemento fondamentale per il suo cinema, quello del fuoco come (ri)nascita (forse spiritica), elemento che trova il suo punto apicale in Blue, dove una donna che non riesce a dormire (torna la componente del sonno) è sdraiata su un letto nel cuore della foresta, mentre davanti a lei un fondale si dispiega rivelando paesaggi differenti. Intanto un fuoco - che sia reale o una sovrapposizione onirica non è dato saperlo - comincia ad ardere lo spazio delimitato dai confini dello schermo.
Sulle pagine dell’Internazionale (rispettivamente nei numeri 1572 e 1573) compaiono degli approfondimenti dedicati a due artisti che fanno del ricordo il loro centro, la canadese Catherine Panebianco e il taiwanese Chen Chun-Lu. Panebianco dona una nuova vita alle diapositive del suo passato, sovrapponendole agli ambienti del presente, e componendo una continuità tra due tempi e vite diverse (da qui nasce la mostra No memory is ever alone). Invece Chen Chun-Lu, scrive Christian Caujolle, “mescola elementi reali a ricordi, immagini ritrovate con altre inventate, e crea delle composizioni che partono dal suo passato, ma guardano verso il futuro”.
Collage composti da fotografie ricolorate che sono il manifestarsi della nostalgia, opere la cui funzione è comporre l’allegoria di un Paese o di ricordarsi delle persone che sono nelle foto o ancora di rievocare spettacoli visti o evidenziare i ruoli sociali. Foto di famiglia e di addio è forse l’opera più intima dell’artista taiwanese, dove ricostruisce la cerimonia di nozze dei suoi genitori. “Oggi, diversi anni dopo la morte dei miei genitori, tutti i miei familiari partecipano alla cerimonia e sono presenti per lasciare in eredità un ritratto che rimarrà per sempre”.
E sempre di sovrapposizioni mnemoniche si parla. Per un paragone, per un confronto, per aggiungere segni a ciò che c’era. E “il ricordare” diviene necessità di vita. Tutto confluisce in Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (2010). Bonmee è un uomo malato che vive nella giungla. Nella fase terminale della sua esistenza si manifestano gli spettri - vividi - delle persone che ha amato, quello di sua moglie sotto forma di entità fantasmatica e quello di suo figlio come un grosso ominide dagli occhi rossi e fosforescenti. In parallelo una principessa dal volto sfigurato, che riflettendosi sul velo dell’acqua torna ad essere bellissima, ha un rapporto sessuale con un pesce gatto.
La memoria diventa definitivamente la via per la trasformazione/reincarnazione umana e del cinema stesso. Il film è l’ultima parte di un grande progetto artistico, Primitive (2009), composto dall’installazione di due cortometraggi A Letter to Uncle Boonmee e Phantoms of Nabua . “Si tratta di tornare alle radici delle cose” senza interrompere il percorso nel passato, ma proiettandosi invece in avanti. È un cinema meditativo quello di Weerasethakul, atavico, e che procede alla ricerca di verità storiche e individuali, cosicché l’umanità e i luoghi in cui essa si muove possano avere, finalmente, una loro possibile continuità nel futuro.
di Edoardo Marchetti
NC-234
19.09.2024
Nella parte finale di À la recherche du temps perdu, Proust incontra ad una festa alcune persone conosciute nel corso della vita, tutte scolpite dallo scorrere del tempo, cambiate nel fisico e nel loro essere. “Li vedevo e sembravano bambole immerse nei colori del tempo, che occupavano non solo le tre dimensioni di spazio, ma anche una dimensione in più: il tempo immenso che si portavano dietro”. Figure che sono il manifestarsi dei ricordi, di un passato risorto che ha lasciato delle visibili tracce individuali incrociatesi alla Storia collettiva. Il tempo è scorso imprendibile, e intanto i luoghi (oltreché le persone) e la loro funzione sono cambiate, come le tecnologie, le idee, fino ai modi di vestirsi o spostarsi o le abitudini alimentari o lo sport, mentre la memoria - l’unico strumento capace di cogliere le metamorfosi causate dal tempo - travalica il concludersi della vita, fissando i concetti invece di cristallizzarli, verso la ricerca della verità. Di fatto, attraverso la memoria, mai uniforme e rettilinea ma formata da una molteplicità di frammenti, è possibile (ri)costruire, mediante la coesistenza della vita con la morte, una verità storica.
La memoria è una delle chiavi più importanti per comprendere il cinema e la videoarte di Apichatpong Weerasethakul; distinta da un inestricabile connessione vita-morte e legata, come in Proust, ai sensi (la famosa madeleine divenuta simbolo), al gusto, ad un suono o un effetto tattile, che riporta indietro negli anni. Di fatto, quello di Weerasethakul, nonostante sia abitato da entità fantasmatiche, spettri o mostri che trovano le loro radici nella cultura thailandese e nella religione buddhista, è un cinema materico.
Memoria (2021), l’ultimo film del cineasta thailandese, si focalizza su Jessica, una coltivatrice di orchidee scozzese che, una notte, viene svegliata da un suono secco, un tonfo freddo ma avvolgente che ha in sé qualcosa di magico (o di fantascientifico). Lo strano evento si ripresenta nell’arco delle giornate successive, finendo per ossessionare la donna e spingendola a cercare l’origine di quel boato.
Questa ricerca della verità porterà Jessica ad incontrare una serie di personaggi rivelatori: un tecnico del suono che dovrà aiutarla a “ricreare” il misterioso echo, un’archeologa che ha scoperto alcuni resti umani risalenti a seimila anni prima e un pescatore che vive nella foresta amazzonica lontano dalla civiltà. Un singolo suono fantasma giunto dall’alto (forse), che è atterrato sul mondo e che mai si palesa nella sua concretezza, rimanendo evanescente.
Cos’è allora la memoria? Anche Walter Benjamin nel suo Scavare e ricordare (1932) scriveva che “la memoria non è strumento, ma il medium stesso per la ricognizione del passato, e per approcciarsi al passato è necessario comportarsi come un individuo che scava”. Così Agnes, l’archeologa, diviene icona dello svelamento. Weerasethakul però non si limita ad un’estensione nella verticalità della storia, nelle viscere della terra, ma vi unisce l’estendersi infinito delle foreste attraverso il personaggio dell’eremita. Così, quei frammenti dei singoli rivelano una visione d’insieme, una memoria collettiva, che diviene fisica, alla ricerca di un senso e (ancora) della verità.
Come Memoria, che inizia con una donna che dorme e che si sveglia all’improvviso, anche Cemetery of Splendour (2015) comincia dal sonno di un plotone di soldati, causato da una malattia ignota. Sono fermi, solo il loro addome si alza e si abbassa a ritmo del respiro, stesi sui lettini di un ospedale improvvisato a Khon Kaen e accuditi da dei volontari. Non sembrano esserci cure, solo un innovativo macchinario luminoso che cambia colore e prova a interferire sulla qualità del sonno e sui sogni. Jenjira, una casalinga, si occupa del giovane Itt, che si sveglia sporadicamente per poi ricadere nel semi-letargo. Intanto Keng, la medium, aiuta i parenti dei soldati ad entrare in contatto con i malati. La presenza del tempo che scorre si manifesta fin da subito tramite i ricordi di Jenjira sulla sua ex scuola, lì dove ora c’è l’ospedale. Lei sedeva dove adesso dorme Itt. C’è una sorta di continuità in quel luogo mistico, ma così reale, incorniciato dal bosco. Poi le Principesse Sorelle del Santuario si manifestano a Jen mentre mangia delle langsat su un tavolino nel parco, attorniata da significative statue di dinosauri, e le raccontano come gli spiriti dei re morti stiano assorbendo l’energia dai soldati per condurre le proprie battaglie, cominciate nel passato e mai concluse.
Le linee del tempo si estendono all’inverosimile, mentre nella città (raro vederle negli ultimi film di Weerasethakul) dei senzatetto dormono per strada o alla fermata del bus, e ai colori della notte si sostituiscono, silenziosamente e lentamente, le emanazioni luminose dei neon del marchingegno di cura sperimentale, prima blu, poi verde, poi giallo, rosso, viola. Poi, ancora l’ospedale e gli stessi colori.
Si delinea così un racconto giustapponibile alla violenta storia della Thailandia, passata e contemporanea. Restando nel presente, il 22 maggio 2014 l’esercito ha attuato un colpo di stato, prendendo la guida del Paese e portando ad un triste epilogo la debole democrazia presente in quel momento. I dormienti sono quindi i dissidenti imprigionati (forse per lesa maestà?). I sovrani hanno combattuto e continuano a combattere. In una fase di grande difficoltà, con l’anziano re malato ( deceduto nel 2016) e il suo erede, il principe Vajiralongkorn mal visto dal popolo (l’attuale e decimo sovrano della dinastia Chakri), la dittatura militare era giustificata dall’esigenza di esercitare un controllo sulle istituzioni, sui cittadini e sul territorio.
Estremamente esemplificativo è un episodio di protesta messo in atto da cinque studenti il 19 novembre 2014 proprio a Kon Kaen durante la visita del generale Prayuth Chan-ocha (colui che ha guidato il colpo di stato). Gli universitari si sono alzati durante il suo discorso, indossando magliette con su scritto “No al colpo di stato” e urlando frasi in favore della libertà. Sono stati arrestati e espulsi dall’università. Intanto, per l’intera durata del film, un escavatore fuori dall’ospedale disturba i suoni della natura.
Nel volume Il trascendente nel cinema (2002) Paul Schrader riporta un’affermazione di Robert Bresson: “Al cinema il soprannaturale non è nient’altro che il reale reso con maggior precisione”.
Realtà e sovrannaturale si sovrappongono ancora più vigorosi in Mekong Hotel (2012), opera ambientata sul fiume omonimo, situato al nord-est con la Thailandia, che segna il confine con il Laos. Lì, il regista (Weerasethakul che si mostra) e la sua troupe eseguono delle prove per un film scritto qualche anno prima, Ecstasy Garden. Nel mentre una madre vampira, mangiatrice di carne umana e animale, discute con sua figlia, e un uomo e una donna si innamorano. Anche in questo caso la realtà filmica si incasella nella realtà storica: Mekong Hotel è stato girato quando il Paese ha subito una devastante inondazione. Il fiume, un largo e spaventoso letto d’acqua, è ora silenzioso e crea un’atmosfera tranquilla.
Forse in questo documentario/horror a prendere il sopravvento sui pur presenti rimandi alla storia thailandese passata e contemporanea - sempre pesanti le ruspe che demoliscono e cancellano - sono i ricordi personali: “Questo hotel era uno dei tanti in cui avevo soggiornato durante le mie visite” dice Weerasethakul. “Si aggiunsero Tong, il mio attore, e Koon, il mio amico di liceo perduto da tempo che avevo incontrato di recente [...]. Avevamo molto da raccontare. Il crepuscolo ha spinto tutti a evocare i propri ricordi”.
Sembra necessario un confronto con Ashes, un cortometraggio/esperimento video-artistico che il cineasta ha girato nello stesso anno per Mubi, e al cui centro vive una rilettura dei ricordi personali, storici e politici, che continuano inevitabilmente ad unirsi - simbolicamente come pellicola e digitale - per creare una nuova identità, dell’individuo e di un Paese. Weerasethakul qui introduce un altro elemento fondamentale per il suo cinema, quello del fuoco come (ri)nascita (forse spiritica), elemento che trova il suo punto apicale in Blue, dove una donna che non riesce a dormire (torna la componente del sonno) è sdraiata su un letto nel cuore della foresta, mentre davanti a lei un fondale si dispiega rivelando paesaggi differenti. Intanto un fuoco - che sia reale o una sovrapposizione onirica non è dato saperlo - comincia ad ardere lo spazio delimitato dai confini dello schermo.
Sulle pagine dell’Internazionale (rispettivamente nei numeri 1572 e 1573) compaiono degli approfondimenti dedicati a due artisti che fanno del ricordo il loro centro, la canadese Catherine Panebianco e il taiwanese Chen Chun-Lu. Panebianco dona una nuova vita alle diapositive del suo passato, sovrapponendole agli ambienti del presente, e componendo una continuità tra due tempi e vite diverse (da qui nasce la mostra No memory is ever alone). Invece Chen Chun-Lu, scrive Christian Caujolle, “mescola elementi reali a ricordi, immagini ritrovate con altre inventate, e crea delle composizioni che partono dal suo passato, ma guardano verso il futuro”.
Collage composti da fotografie ricolorate che sono il manifestarsi della nostalgia, opere la cui funzione è comporre l’allegoria di un Paese o di ricordarsi delle persone che sono nelle foto o ancora di rievocare spettacoli visti o evidenziare i ruoli sociali. Foto di famiglia e di addio è forse l’opera più intima dell’artista taiwanese, dove ricostruisce la cerimonia di nozze dei suoi genitori. “Oggi, diversi anni dopo la morte dei miei genitori, tutti i miei familiari partecipano alla cerimonia e sono presenti per lasciare in eredità un ritratto che rimarrà per sempre”.
E sempre di sovrapposizioni mnemoniche si parla. Per un paragone, per un confronto, per aggiungere segni a ciò che c’era. E “il ricordare” diviene necessità di vita. Tutto confluisce in Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti (2010). Bonmee è un uomo malato che vive nella giungla. Nella fase terminale della sua esistenza si manifestano gli spettri - vividi - delle persone che ha amato, quello di sua moglie sotto forma di entità fantasmatica e quello di suo figlio come un grosso ominide dagli occhi rossi e fosforescenti. In parallelo una principessa dal volto sfigurato, che riflettendosi sul velo dell’acqua torna ad essere bellissima, ha un rapporto sessuale con un pesce gatto.
La memoria diventa definitivamente la via per la trasformazione/reincarnazione umana e del cinema stesso. Il film è l’ultima parte di un grande progetto artistico, Primitive (2009), composto dall’installazione di due cortometraggi A Letter to Uncle Boonmee e Phantoms of Nabua . “Si tratta di tornare alle radici delle cose” senza interrompere il percorso nel passato, ma proiettandosi invece in avanti. È un cinema meditativo quello di Weerasethakul, atavico, e che procede alla ricerca di verità storiche e individuali, cosicché l’umanità e i luoghi in cui essa si muove possano avere, finalmente, una loro possibile continuità nel futuro.