NC-79
08.12.2021
Se Thomas Edison e i fratelli Lumière sono stati i padri fondatori del cinema, Georges Méliès è colui che ha inventato i film come tutti noi ancora oggi li conosciamo, ossia come dei racconti le cui immagini si susseguono provocando meraviglia, tristezza, incanto e paura. Ai suoi primordi il cinematografo era una misteriosa scoperta tecnologica compresa da pochi. Questa nuova attrazione era percepita come una conseguenza dell’immagine fotografica: il pubblico rimaneva sorpreso da ciò che vedeva ma l’esperienza filmica, intesa come coinvolgimento che supera il semplice stupore, rimaneva ancora un qualcosa di sconosciuto. Assistere ad una proiezione cinematografica provocava nella gente curiosità e sbigottimento, i medesimi stati d’animo che potevano suscitare una lanterna magica o un kinetoscopio. Fu proprio questo geniale pioniere, nato oggi 8 dicembre di 160 anni fa, che iniettò al cinema la sua linfa vitale, trasformando quelle foto in movimento in narrazioni spettacolari.
Figlio di un facoltoso industriale calzaturiero di Parigi, Marie-Georges-Jean Méliès contravvenne al volere paterno, che prevedeva per lui un posto nell’azienda di famiglia, interessandosi fin dalla più giovane età al mondo dell’arte. Di fatto, proprio mentre era stato spedito a Londra dal genitore per perfezionare il suo inglese e impratichirsi nel settore commerciale, il giovane Georges ebbe modo di frequentare assiduamente l’Egyptian Hall, famoso teatro di prestigiatori, sviluppando una vera e propria passione per lo spettacolo illusionistico. L’eccentrico e il fantastico continuarono a rientrare tra i suoi interessi anche quando, tornato a Parigi, fu costretto a continuare il suo apprendistato industriale. Paradossalmente questa quotidiana esperienza fu essenziale nella sua formazione, poiché gli permise di assimilare informazioni sul mondo della meccanica che, una volta divenuto regista, gli sarebbero tornate utili nella creazione dei suoi set e dei suoi «magici» macchinari.
Il 1888 fu l’anno della svolta: Méliès decise di vendere ai fratelli la propria quota del calzaturificio per investire una parte del ricavato nell’acquisto dei «diritti di sfruttamento» del Théâtre Robert-Houdin. La sala, situata al n.8 del boulevard des Italiens, seppur piccola e con una capienza di meno di duecento posti, era il più celebre teatro di prestidigitazione della capitale francese. Da quel momento in poi impegnò ogni sua energia in questa nuova attività: si dedicò egli stesso ai numeri illusionistici, contornandosi di acrobati, ballerine e circensi. In poco tempo ottenne sempre più successo e il suo teatro divenne una delle maggiori attrazioni parigine.
Presto il quartiere dove Méliès le Magicien operava si popolò di sperimentatori, tanto che anni dopo il critico Jacques Deslandes lo ribattezzò «le boulevard du cinéma». Nel 1892 Émile Reynaud presentò al Museo Grévin le sue «pantomime luminose», mentre il 28 dicembre del 1895 Louis e Auguste Lumière organizzarono al Grand Café il primo spettacolo cinematografico pubblico a pagamento. Méliès assistette alla proiezione e, rimanendone incantato, propose ai Lumière di acquistare il brevetto della loro macchina da presa. I due fratelli, comprendendo le possibilità del mezzo, non cedettero a nessun prezzo, ma egli non si arrese e nell’aprile del 1896, in società con Lucien Reulos e Lucien Korsten, creò una propria cinepresa. Nonostante su questo i dati a disposizione degli storici siano incerti, non appena ottenuta la «macchina della meraviglie» il neo-cineasta poté cominciare i suoi esperimenti. Nel primo anno di attività creò una propria compagnia di produzione, la Star-Film (che dal 1902 ebbe una filiale anche a New York per poter gestire il mercato estero), e girò ben settantotto cortometraggi. I film dell’epoca avevano una durata di pochissimi minuti e Méliès inizialmente li adoperò per proporre dei rifacimenti delle opere Lumière, dal «treno che arriva» alla «partita a carte». Mentre i due pionieri si focalizzavano sulla realtà, inviando i loro operatori in giro per il mondo in maniera che il pubblico potesse, attraverso la lente del cinematografo, osservare altre culture, come se nel loro operato vi fosse un proto-impulso documentarista, Méliès capì fin da subito che per creare una propria identità filmica doveva riversare quel suo mondo incantato, composto da magie e illusioni, nel cinema. Oltre ad osservare la verità, perché non si poteva produrre l’artificio? Così il Mago rese una curiosa invenzione un sogno ad occhi aperti. Se per le loro produzioni i Lumière si servivano della fotografia, Méliès ricorreva al circo, al teatro di féerie ed al music-hall. Alla base della sua poetica vi erano la concretizzazione dell’irreale e la visualizzazione dell’impossibile.
Egli fu, in un certo senso, il primo autore cinematografico ad elaborare un proprio stile. Cominciò a filmare delle riproduzioni dei suoi numeri illusionistici come Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin (Sparizione di una signora al Teatro Robert Houdin, 1896). Nel brevissimo film, della durata di appena un minuto, Méliès fa sparire una signora precedentemente coperta da un telo; dopo una serie di gesti «magici» fa riapparire uno scheletro che, una volta coperto, viene sostituito di nuovo con la donna. Nel cortometraggio è usato il trucco di arresto e sostituzione, al quale il regista ricorse più volte durante tutta la sua carriera. Per creare un effetto di apparizione e sparizione Méliès arrestava la cinepresa e la faceva ripartire dopo aver riorganizzato la scena. Successivamente montava i segmenti del girato l’uno di seguito all’altro così che lo spettatore, non percependo gli stacchi, avesse l’impressione che oggetti e personaggi apparissero e sparissero improvvisamente. Questa semplice e allo stesso tempo geniale tecnica è ancora oggi alla base del cinema di animazione.
Fu però dal 1897 che Méliès ebbe modo di liberare completamente il suo genio. Costruì a Montreuil un vero e proprio studio cinematografico, e trasformò il suo teatro in un luogo dedicato alla proiezione delle sue ultime creazioni. Realizzò ingegnosi macchinari che animavano grandi manichini, sollevavano gli attori da terra e cambiavano le scenografie. Tutto era funzionale alla mise en scène. Il cineasta arrivò al punto di far montare sul tetto del proprio laboratorio, interamente costruito in vetro, un sistema ad ante manovrabili allo scopo di cadenzare al meglio la luce naturale che doveva illuminare i set. Un’altra trovata geniale per lo sviluppo dei suoi «effetti speciali» fu quella di porre un mascherino davanti all'obiettivo della macchina da presa: esso consentiva di filmare una scena più volte, impressionando, ad ogni ripresa, solo una parte della pellicola. Fu proprio grazie a questa innovativa pratica che realizzò L'Homme orchestre (L’uomo orchestra, 1900). Nel film vengono mostrati, in un’unica immagine, una banda di sette orchestrali che, tutti interpretati da Méliès, suonano ognuno uno strumento diverso contemporaneamente. Il «trucco del mascherino» si sommava ad altre tecniche come ad esempio l’avanzamento e l’arretramento della macchina da presa. Questa pratica viene adoperata in L'Homme à la tête en caoutchouc (L’uomo dalla testa di caucciù, 1901), in cui la testa del regista si gonfia e sgonfia a dismisura fin quando, in un tonfo clamoroso, non esplode. Il realismo fotografico di queste gags sconvolgeva il pubblico che, ad ogni proiezione al Théâtre Robert-Houdin, proclamava il successo di Méliès.
Nel 1902 realizzò, ispirandosi ai romanzi di Jules Verne e H.G. Welles, Le voyage dans la Lune (Il viaggio nella luna), rimasta tutt’oggi una delle sue opere più celebri. Il film può essere considerato come una sorta di manifesto della sua filosofia cinematografica. Nei suoi quattordici minuti di durata, rivoluzionari per l’epoca, vengono sperimentate le più celebri tecniche mélièsiane. Nell’opera si fa un largo uso di dissolvenze, sovraimpressioni e scenografie avveniristiche (l’occhio della luna bucato dall’atterraggio della nave spaziale è una delle immagini cardine e più influenti della storia del cinema). Nel plot un gruppo di scienziati decide di progettare un grande cannone per farsi «sparare» sulla luna. L’impresa riuscirà e, dopo aver combattuto con i Seleniti, abitanti del pianeta, gli avventurieri torneranno sulla terra tramite un ammaraggio per poi essere acclamati a Parigi come eroi. Già dalla trama si comprende come gli ingranaggi narrativi del cinema di Méliès divennero con il tempo sempre più complessi e sofisticati. Questo film è uno dei primi a presentare una storia di finzione con un inizio, uno svolgimento e una fine. Le ambientazioni cambiano più volte e lo spettatore si trova a dover seguire un cortometraggio maggiormente stratificato rispetto ai prodotti dell’epoca. L’opera è costruita su inquadrature fisse e in campo medio: ogni inquadratura costituisce un’intera sequenza, da quando l’azione si apre fino a quando termina. Il montaggio è minimale. Esso ha la sola funzione di connettere tra loro delle scene che si sviluppano, ognuna, in un’unica immagine ad alto grado di autonomia.
Voyage à traverse l’impossible (Viaggio attraverso l’impossibile, 1904) e Les quatre cents farces du diable (Gli allegri inganni di Satana, 1906) segnarono, invece, un momento particolare nella carriera del cineasta. Se da una parte raggiunse vette straordinarie nel lavoro su scenografie e colori - il regista sperimentava già da anni la colorazione a mano su pellicola - dall’altra dovette fare i conti con l’inizio del proprio collasso finanziario. Il cinema stava cambiando: di lì a poco sarebbe nata Hollywood che, con i suoi prodotti, avrebbe invaso il mercato mondiale. Dopo anni di travolgente successo le storie narrate da Méliès non incontravano più i gusti di un pubblico sempre più esigente e diversificato. I suoi ambiziosi progetti trascinarono la Star-Film alla bancarotta: A la Conquête du Pôle (Viaggio al Polo Nord, 1912), uno dei suoi ultimi lavori prodotto dalla Pathé, fu un clamoroso flop. Georges Sadoul disse di questi piccoli capolavori che avevano la compiutezza di un Giotto, ma di un Giotto dipinto ai tempi di Michelangelo e Raffaello.
Cessata la produzione di film Méliès si dedicò al varietà e quando, nel 1923, il Théâtre Robert-Houdin venne demolito, cominciò a gestire un piccolo negozio di giocattoli alla stazione di Montparnasse. Sebbene agli inizi degli anni Trenta gli artisti del movimento surrealista avessero organizzato una retrospettiva in suo onore, la sua morte avvenne nell’anonimato. Egli si spense il 21 gennaio del 1938, in una casa di riposo dove era stato accolto grazie all’interessamento di un sindacato cinematografico. Fu un autore straordinariamente prolifico, nel corso degli anni sono stati trovati più di 120 suoi cortometraggi, ma c’è chi crede che la sua opera superi i quattromila pezzi. Georges Méliès fu il primo a provare che il cinema poteva essere un mezzo di espressione artistica. Pensando ai suoi prodigi visivi viene in mente una frase di Shakespeare che recita: «Siamo fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno».
NC-79
08.12.2021
Se Thomas Edison e i fratelli Lumière sono stati i padri fondatori del cinema, Georges Méliès è colui che ha inventato i film come tutti noi ancora oggi li conosciamo, ossia come dei racconti le cui immagini si susseguono provocando meraviglia, tristezza, incanto e paura. Ai suoi primordi il cinematografo era una misteriosa scoperta tecnologica compresa da pochi. Questa nuova attrazione era percepita come una conseguenza dell’immagine fotografica: il pubblico rimaneva sorpreso da ciò che vedeva ma l’esperienza filmica, intesa come coinvolgimento che supera il semplice stupore, rimaneva ancora un qualcosa di sconosciuto. Assistere ad una proiezione cinematografica provocava nella gente curiosità e sbigottimento, i medesimi stati d’animo che potevano suscitare una lanterna magica o un kinetoscopio. Fu proprio questo geniale pioniere, nato oggi 8 dicembre di 160 anni fa, che iniettò al cinema la sua linfa vitale, trasformando quelle foto in movimento in narrazioni spettacolari.
Figlio di un facoltoso industriale calzaturiero di Parigi, Marie-Georges-Jean Méliès contravvenne al volere paterno, che prevedeva per lui un posto nell’azienda di famiglia, interessandosi fin dalla più giovane età al mondo dell’arte. Di fatto, proprio mentre era stato spedito a Londra dal genitore per perfezionare il suo inglese e impratichirsi nel settore commerciale, il giovane Georges ebbe modo di frequentare assiduamente l’Egyptian Hall, famoso teatro di prestigiatori, sviluppando una vera e propria passione per lo spettacolo illusionistico. L’eccentrico e il fantastico continuarono a rientrare tra i suoi interessi anche quando, tornato a Parigi, fu costretto a continuare il suo apprendistato industriale. Paradossalmente questa quotidiana esperienza fu essenziale nella sua formazione, poiché gli permise di assimilare informazioni sul mondo della meccanica che, una volta divenuto regista, gli sarebbero tornate utili nella creazione dei suoi set e dei suoi «magici» macchinari.
Il 1888 fu l’anno della svolta: Méliès decise di vendere ai fratelli la propria quota del calzaturificio per investire una parte del ricavato nell’acquisto dei «diritti di sfruttamento» del Théâtre Robert-Houdin. La sala, situata al n.8 del boulevard des Italiens, seppur piccola e con una capienza di meno di duecento posti, era il più celebre teatro di prestidigitazione della capitale francese. Da quel momento in poi impegnò ogni sua energia in questa nuova attività: si dedicò egli stesso ai numeri illusionistici, contornandosi di acrobati, ballerine e circensi. In poco tempo ottenne sempre più successo e il suo teatro divenne una delle maggiori attrazioni parigine.
Presto il quartiere dove Méliès le Magicien operava si popolò di sperimentatori, tanto che anni dopo il critico Jacques Deslandes lo ribattezzò «le boulevard du cinéma». Nel 1892 Émile Reynaud presentò al Museo Grévin le sue «pantomime luminose», mentre il 28 dicembre del 1895 Louis e Auguste Lumière organizzarono al Grand Café il primo spettacolo cinematografico pubblico a pagamento. Méliès assistette alla proiezione e, rimanendone incantato, propose ai Lumière di acquistare il brevetto della loro macchina da presa. I due fratelli, comprendendo le possibilità del mezzo, non cedettero a nessun prezzo, ma egli non si arrese e nell’aprile del 1896, in società con Lucien Reulos e Lucien Korsten, creò una propria cinepresa. Nonostante su questo i dati a disposizione degli storici siano incerti, non appena ottenuta la «macchina della meraviglie» il neo-cineasta poté cominciare i suoi esperimenti. Nel primo anno di attività creò una propria compagnia di produzione, la Star-Film (che dal 1902 ebbe una filiale anche a New York per poter gestire il mercato estero), e girò ben settantotto cortometraggi. I film dell’epoca avevano una durata di pochissimi minuti e Méliès inizialmente li adoperò per proporre dei rifacimenti delle opere Lumière, dal «treno che arriva» alla «partita a carte». Mentre i due pionieri si focalizzavano sulla realtà, inviando i loro operatori in giro per il mondo in maniera che il pubblico potesse, attraverso la lente del cinematografo, osservare altre culture, come se nel loro operato vi fosse un proto-impulso documentarista, Méliès capì fin da subito che per creare una propria identità filmica doveva riversare quel suo mondo incantato, composto da magie e illusioni, nel cinema. Oltre ad osservare la verità, perché non si poteva produrre l’artificio? Così il Mago rese una curiosa invenzione un sogno ad occhi aperti. Se per le loro produzioni i Lumière si servivano della fotografia, Méliès ricorreva al circo, al teatro di féerie ed al music-hall. Alla base della sua poetica vi erano la concretizzazione dell’irreale e la visualizzazione dell’impossibile.
Egli fu, in un certo senso, il primo autore cinematografico ad elaborare un proprio stile. Cominciò a filmare delle riproduzioni dei suoi numeri illusionistici come Escamotage d’une dame chez Robert-Houdin (Sparizione di una signora al Teatro Robert Houdin, 1896). Nel brevissimo film, della durata di appena un minuto, Méliès fa sparire una signora precedentemente coperta da un telo; dopo una serie di gesti «magici» fa riapparire uno scheletro che, una volta coperto, viene sostituito di nuovo con la donna. Nel cortometraggio è usato il trucco di arresto e sostituzione, al quale il regista ricorse più volte durante tutta la sua carriera. Per creare un effetto di apparizione e sparizione Méliès arrestava la cinepresa e la faceva ripartire dopo aver riorganizzato la scena. Successivamente montava i segmenti del girato l’uno di seguito all’altro così che lo spettatore, non percependo gli stacchi, avesse l’impressione che oggetti e personaggi apparissero e sparissero improvvisamente. Questa semplice e allo stesso tempo geniale tecnica è ancora oggi alla base del cinema di animazione.
Fu però dal 1897 che Méliès ebbe modo di liberare completamente il suo genio. Costruì a Montreuil un vero e proprio studio cinematografico, e trasformò il suo teatro in un luogo dedicato alla proiezione delle sue ultime creazioni. Realizzò ingegnosi macchinari che animavano grandi manichini, sollevavano gli attori da terra e cambiavano le scenografie. Tutto era funzionale alla mise en scène. Il cineasta arrivò al punto di far montare sul tetto del proprio laboratorio, interamente costruito in vetro, un sistema ad ante manovrabili allo scopo di cadenzare al meglio la luce naturale che doveva illuminare i set. Un’altra trovata geniale per lo sviluppo dei suoi «effetti speciali» fu quella di porre un mascherino davanti all'obiettivo della macchina da presa: esso consentiva di filmare una scena più volte, impressionando, ad ogni ripresa, solo una parte della pellicola. Fu proprio grazie a questa innovativa pratica che realizzò L'Homme orchestre (L’uomo orchestra, 1900). Nel film vengono mostrati, in un’unica immagine, una banda di sette orchestrali che, tutti interpretati da Méliès, suonano ognuno uno strumento diverso contemporaneamente. Il «trucco del mascherino» si sommava ad altre tecniche come ad esempio l’avanzamento e l’arretramento della macchina da presa. Questa pratica viene adoperata in L'Homme à la tête en caoutchouc (L’uomo dalla testa di caucciù, 1901), in cui la testa del regista si gonfia e sgonfia a dismisura fin quando, in un tonfo clamoroso, non esplode. Il realismo fotografico di queste gags sconvolgeva il pubblico che, ad ogni proiezione al Théâtre Robert-Houdin, proclamava il successo di Méliès.
Nel 1902 realizzò, ispirandosi ai romanzi di Jules Verne e H.G. Welles, Le voyage dans la Lune (Il viaggio nella Luna), rimasta tutt’oggi una delle sue opere più celebri. Il film può essere considerato come una sorta di manifesto della sua filosofia cinematografica. Nei suoi quattordici minuti di durata, rivoluzionari per l’epoca, vengono sperimentate le più celebri tecniche mélièsiane. Nell’opera si fa un largo uso di dissolvenze, sovraimpressioni e scenografie avveniristiche (l’occhio della luna bucato dall’atterraggio della nave spaziale è una delle immagini cardine e più influenti della storia del cinema). Nel plot un gruppo di scienziati decide di progettare un grande cannone per farsi «sparare» sulla luna. L’impresa riuscirà e, dopo aver combattuto con i Seleniti, abitanti del pianeta, gli avventurieri torneranno sulla terra tramite un ammaraggio per poi essere acclamati a Parigi come eroi. Già dalla trama si comprende come gli ingranaggi narrativi del cinema di Méliès divennero con il tempo sempre più complessi e sofisticati. Questo film è uno dei primi a presentare una storia di finzione con un inizio, uno svolgimento e una fine. Le ambientazioni cambiano più volte e lo spettatore si trova a dover seguire un cortometraggio maggiormente stratificato rispetto ai prodotti dell’epoca. L’opera è costruita su inquadrature fisse e in campo medio: ogni inquadratura costituisce un’intera sequenza, da quando l’azione si apre fino a quando termina. Il montaggio è minimale. Esso ha la sola funzione di connettere tra loro delle scene che si sviluppano, ognuna, in un’unica immagine ad alto grado di autonomia.
Voyage à traverse l’impossible (Viaggio attraverso l’impossibile, 1904) e Les quatre cents farces du diable (Gli allegri inganni di Satana, 1906) segnarono, invece, un momento particolare nella carriera del cineasta. Se da una parte raggiunse vette straordinarie nel lavoro su scenografie e colori - il regista sperimentava già da anni la colorazione a mano su pellicola - dall’altra dovette fare i conti con l’inizio del proprio collasso finanziario. Il cinema stava cambiando: di lì a poco sarebbe nata Hollywood che, con i suoi prodotti, avrebbe invaso il mercato mondiale. Dopo anni di travolgente successo le storie narrate da Méliès non incontravano più i gusti di un pubblico sempre più esigente e diversificato. I suoi ambiziosi progetti trascinarono la Star-Film alla bancarotta: A la Conquête du Pôle (Viaggio al Polo Nord, 1912), uno dei suoi ultimi lavori prodotto dalla Pathé, fu un clamoroso flop. Georges Sadoul disse di questi piccoli capolavori che avevano la compiutezza di un Giotto, ma di un Giotto dipinto ai tempi di Michelangelo e Raffaello.
Cessata la produzione di film Méliès si dedicò al varietà e quando, nel 1923, il Théâtre Robert-Houdin venne demolito, cominciò a gestire un piccolo negozio di giocattoli alla stazione di Montparnasse. Sebbene agli inizi degli anni Trenta gli artisti del movimento surrealista avessero organizzato una retrospettiva in suo onore, la sua morte avvenne nell’anonimato. Egli si spense il 21 gennaio del 1938, in una casa di riposo dove era stato accolto grazie all’interessamento di un sindacato cinematografico. Fu un autore straordinariamente prolifico, nel corso degli anni sono stati trovati più di 120 suoi cortometraggi, ma c’è chi crede che la sua opera superi i quattromila pezzi. Georges Méliès fu il primo a provare che il cinema poteva essere un mezzo di espressione artistica. Pensando ai suoi prodigi visivi viene in mente una frase di Shakespeare che recita: «Siamo fatti della stessa materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno».