NC-180
20.12.2023
Martin McDonagh è un drammaturgo, sceneggiatore e regista sia teatrale che cinematografico, considerato a ragione dalla critica come una delle menti più brillanti della nostra contemporaneità. Di ascendenze irlandesi, ma nato e cresciuto a Londra, ha raggiunto a soli ventisei anni il successo con la sua prima opera teatrale, The Beauty Queen of Leenane. Le sue precoci abilità autoriali e la ben consolidata reputazione lo spingono nel 2004 a intraprendere anche la via della Settima Arte, vincendo, nel 2005, un Oscar al miglior cortometraggio grazie al suo primissimo lavoro, Six Shooter. E tutto questo è solo l’inizio di una splendida carriera artistica che, nello specifico cinematografico, lo porta a sfornare ben quattro capolavori, ultimo dei quali è Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin), candidato a nove Academy Awards e vincitore di otto Golden Globe nel 2023.
Molti hanno scritto e discusso sul cinema di McDonagh, evidenziandone giustamente la matrice teatrale della scrittura e la puntualità dello sguardo, sempre attento e misurato, nonché agile a evidenziare, spesso sarcasticamente, le ambiguità morali dei complessissimi personaggi messi in scena. In tutti i suoi lavori sono inoltre individuabili alcune tematiche imprescindibili, tra cui la morte, la religione, l’immaginario (spesso anche quello statunitense), l’inconscio, e le idiosincrasie della sua amata Irlanda… ma crediamo che non sia stato notato sufficientemente un altro aspetto della sua poetica a dir poco singolare e determinante: la messa in discussione della maschilità, sia fisicamente che ideologicamente.
Partiamo anzitutto da un’evidenza inopinabile: in tutti i suoi film ci sono protagonisti maschili. In Six Shooter abbiamo Brendan Gleeson, suo figlio Domhnall, Rúaidhrí Conroy, David Wilmot, Gary Lydon e una sola attrice, Aisling O’Sullivan. Nel film In Bruges (2004) ritorna Brendan Gleeson, affiancato stavolta da Colin Farrell e Ralph Fiennes; in 7 psicopatici (Seven Psychopaths, 2012) gli interpreti principali sono Colin Farrell, Sam Rockwell, Christopher Walken, Tom Waits e Woody Harrelson. Sembrerebbe un’eccezione il lungometraggio Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017), dove la protagonista è la fantastica Frances McDormand, che tuttavia deve trasformarsi in una vera dura e fare i conti con lo sceriffo Woody Harrelson, il suo scagnozzo Sam Rockwell e una stazione di polizia interamente al maschile. Gli spiriti dell’isola vede invece l’acclamato ritorno della coppia Gleeson-Farrell, affiancati da Barry Keoghan, Gary Lydon, David Pearse, Pat Shortt e tanti altri uomini. Le uniche donne di tutta la narrazione sono invece le attrici Kerry Condon, Bríd Ní Neachtain e Sheila Flitton.
Rispetto a quanto appena detto, si potrebbe anche affermare che McDonagh abbia scelto di lavorare su un preciso Star System, fatto non solo di amici e collaboratori di vecchia data, ma anche di fisicità e caratteri che possono facilmente essere inquadrati entro schemi ricorrenti e altamente riconoscibili. Basterebbe anche solo notare come Gary Lydon abbia interpretato sempre il ruolo di un poliziotto, al di là poi degli specifici psicologici. Ma se volessimo analizzare rapidamente i casi più eclatanti, ci accorgeremmo che Brendan Gleeson interpreta in ogni film del regista londinese un personaggio assennato, riflessivo, cupo e poco incline al credere ciecamente nelle regole della comunità, nonostante dimostri poi di avere un inscalfibile senso dell’onore. Colin Farrell è al contrario il tipo perfetto per dar vita a maschere eclettiche, imprevedibili ed esplosive, nonché moralmente ambivalenti. Sam Rockwell ha imbracciato magistralmente il ruolo di due psicopatici, con evidenti complessi tutt’altro che risolti, mentre Harrelson si è sempre dedicato a incarnare una nemesi altamente espressiva ma in fin dei conti simpatica e divertente.
Dal punto di vista della sceneggiatura, invece, McDonagh sceglie spesso di includere nelle sue narrazioni personaggi maschili che presentano dei gap fisici (Peter Dinklage in Tre manifesti e Jordan Prentice in In Bruges) o anche intellettivi (non parliamo soltanto dei sette psicopatici del film omonimo, ma anche di Barry Keoghan ne Gli spiriti dell’isola o di Rúaidhrí Conroy in Six Shooter). A questo punto molti di voi potrebbero chiedersi: ma se ci sono tutte queste ricorrenze, allora perché dovremmo credere che McDonagh metta in discussione la maschilità? Ebbene, lasciamo che siano i suoi stessi capolavori a parlare.
Six Shooter
Il primo cortometraggio di McDonagh è il racconto di un’atipica giornata, come non ce la immagineremmo nemmeno nei nostri sogni più assurdi. C’è subito da notare l’incipit: il protagonista Donnelly (Gleeson) è in ospedale, e un dottore gli comunica che la moglie è passata a miglior vita. “I don’t know what to say, I don’t know where you are now.”: queste sono le parole che ripete almeno tre volte non appena è di fronte al corpo esanime della coniuge. Nella sequenza successiva lo ritroviamo in stazione, pronto a prendere il treno per tornare a casa. Qui si intrattiene con un ragazzo alquanto bizzarro e loquace, che urla e scherza continuamente, non prendendosi mai la responsabilità di quanto fa o dice. Un’altra coppia vicina è tremendamente disperata per la morte in culla del proprio bambino: il marito non riesce a dare conforto alla moglie, e quando tenta di afferrarle dolcemente la mano lei lo scansa. Questa mancanza lo porta ad essere aggressivo contro il giovane seduto di fronte a Donnelly, che commenta e parla senza sosta non rispettando il dolore altrui: è una reazione spropositata, che non a caso viene contenuta proprio dalla moglie, la quale gli chiede di sedersi. Alla fine scopriremo che quel ragazzo strambo ha ucciso la propria madre, dimostrando, attraverso un flashback accompagnato dalla sua voice over, di aver subito un forte trauma infantile durante una giornata con il padre.
Non sembra affatto un caso, se si pensa che la donna è per tutti e tre una componente essenziale non solo della loro quotidianità, ma del proprio modo di pensare e agire: Donnelly non ha più una ragione di vivere e tenta il suicidio, l’uomo sposato cerca di colmare con l’aggressività il distacco dalla consorte e il giovane è così scanzonato perché sa che dopo la morte della madre lo attende un futuro poco radioso (si prende gioco degli stessi poliziotti che lo uccideranno). Si tratta di una vera e propria mutazione spirituale, per cui non avere un regolatore femminile porta inevitabilmente il maschio ad adottare atteggiamenti depravati, fino addirittura alla regressione infantile.
In Bruges
Il primo lungometraggio di McDonagh è un simil-western dove al posto del deserto abbiamo la città medievale meglio conservata d’Europa, il che implica una sovrastruttura ideologica molto forte a muovere gli eventi. E in effetti l’intera narrazione è mossa dalla necessità di rispettare un codice d’onore non scritto, la legge dei sicari, di cui si fa portavoce inamovibile Henry (Ralph Fiennes), un vero e proprio angelo della morte. Ray e Ken (rispettivamente Farrell-Gleeson) sono nella cittadina belga per volere del loro capo, per fare i conti con il proprio passato. E a simboleggiarlo è la scena in cui li vediamo di fronte al Trittico del Giudizio di Hieronymus Bosch. Ray, colpevole di aver ucciso un bambino, non è affatto contento di essere a Bruges, e lo manifesta proprio con comportamenti infantili, prima prendendosi gioco di un turista americano in sovrappeso, poi non rispettando affatto i dettami di Ken. Quest’ultimo si comporta come un padre: si porta l’amico in giro per la città, costringendolo a un turismo culturale che non gli interessa affatto e redarguendolo per ogni comportamento fuori luogo. Anche qui siamo di fronte a una regressione del personaggio, traviato da quelle stesse regole che non riesce più a rispettare.
In un’altra scena chiave, infatti, sempre Ray colpirà una donna che cercava di difendere il compagno dalla sua violenza, e subito dopo si giustificherà enunciando i principi di un codice d’onore che ha però puntualmente infranto: a questo seguirà un comportamento vittimistico, biasimandosi per non essere un uomo adatto a uscire con Chloe, la ragazza conosciuta durante la prima sera nella città. McDonagh ci mostra poi un altro momento in cui i due protagonisti hanno la possibilità di sottrarsi a questo ciclo di violenza perpetua: in un parchetto, Ken ferma Ray dal suicidarsi mentre lui stesso era pronto a sparargli come ordinatogli da Henry. È una volontà molto forte di infrangere quel codice, a cui segue poi un’ironica scena in cui i due paragonano la grandezza delle proprie pistole, prima che Ray scoppi a piangere senza sosta sulla spalla dell’amico.
Il lungometraggio può essere visto come un vero e proprio coming-of-age, dove il “piccolo” Ray cresce e diventa adulto dopo aver fatto i conti con la propria morale. E infatti solo a questo punto del film riuscirà a instaurare una relazione sana con Chloe. La legge dei sicari ha totalmente annichilito la capacità degli adulti di prendersi le proprie responsabilità, portandoli invece ad agire in maniera radicale e aggressiva, proprio come farà lo stesso Henry nel finale: si darà la morte pensando di aver ucciso a sua volta un bambino durante la sparatoria con Ray, mentre si trattava in realtà di un uomo affetto da nanismo. “Bisogna tenere fede ai principi”: queste saranno le sue ultime parole.
7 psicopatici
Forse il lavoro più introspettivo e complesso dell’autore londinese. Il film è giocato interamente su una dimensione immaginaria, oltreché meta-cinematografica. McDonagh dà voce al suo alter ego Martin Faranan (Colin Farrell), sceneggiatore irlandese alcolizzato, che non riesce a finire la sceneggiatura del suo ultimo film, “7 psicopatici” per l’appunto. Il film si apre con il cameo di due killer che mostrano tutto il loro nervosismo per il fatto che dovranno uccidere una ragazza. Subito dopo la narrazione si sposta sul protagonista, a letto con i postumi di una sbornia, mentre la sua compagna, Kaya, si prepara per andare a lavorare. È una relazione squilibrata, dove la donna si ritrova a fare tutto da sé, dovendo anche redarguire il fidanzato per la sua negligenza, come fosse un figlio. Non è affatto un caso che poco dopo questo inizio Martin si ritrovi a discutere della sua relazione con il migliore amico Billy (Sam Rockwell) in un cinema, davanti alla scena di un film asiatico dove un uomo schiaffeggia ripetutamente un altro uomo. Billy inoltre non esita a definire Kaya una “stronza” di natura, supportando l’amico nonostante abbia torto.
Il resto del film si gioca sulla confusione del piano di realtà con quello dell’immaginario di Martin, con una narrazione mossa interamente da uomini malati, che hanno deciso di agire o attraverso le donne (il prete che vuole far saltare in aria alcuni veterani della guerra in Vietnam usando una prostituta) oppure per una donna (come Zach e Hans: il primo uccideva serial killers per amore della sua compagna, mentre il secondo ruba i cani degli altri per pagare le cure della moglie malata). Significativa sarà poi verso il finale una battuta di Billy: “Non puoi far morire gli animali nei film, soltanto le donne.” Oppure va ricordata anche una frase della nemesi Charlie (Woody Harrelson): “La pace è per le checche e adesso voi morirete.” Il film si conclude con un Martin profondamente cambiato, che ha trovato la forza e la creatività necessarie per finire la sua sceneggiatura, e questo avviene dopo aver ascoltato l’audio registrato di Hans, che gli suggerisce una sequenza onirica per il suo film, nonostante Martin gli abbia detto che “le sequenze oniriche sono per i finocchi.”
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Qui assistiamo a un cambiamento significativo: abbiamo una protagonista, Mildred (Frances McDormand), che decide di far guerra ai componenti della squadra di polizia di Ebbing (la piccola cittadina di provincia in cui vive) perché non hanno ancora trovato chi ha stuprato e ucciso sua figlia. Il film pone esplicitamente il problema di un intero sistema di pensiero e di azione, intriso di maschilismo, dove a farla da padroni sono tutti poliziotti gradassi e arroganti, che si sentono autorizzati a maltrattare i deboli solo perché il loro capo, lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) glielo concede senza riserve. E non è un caso che il motore del film sia la compromissione della reputazione dello sceriffo, rappresentato simbolicamente con un cancro incurabile. È una retorica che non ammette alcuna mediazione, se non quella di estirpare completamente il germe maligno. E infatti la situazione precipiterà proprio dopo la morte stessa di Willoughby, che lascerà tutti i suoi colleghi (che lui stesso chiama “boys”, come farebbe un tipico padre statunitense) incapaci di agire.
Significativo a tal proposito è il percorso di Dixon (Sam Rockwell), personaggio infantile, tenuto al capestro da una madre razzista e conservatrice, che sceglie l’aggressività come soluzione a tutto, forte del fatto di avere un distintivo (che nemmeno ricorda dov’è). Usa le parole “frocio” e “finocchio” come normalissimi insulti, urla e segue ciecamente quanto gli viene detto dallo sceriffo. Sarà una lettera postuma dello stesso Willoughby a indicare a Dixon la strada da seguire, chiedendogli proprio di rinunciare alla sua aggressività repressa: “scegli l’amore e metti da parte l’odio…non diranno che sei gay, e se lo dicono allora arrestali per omofobia!”.
In questo film gli uomini non reggono affatto il confronto con Mildred, che ha dovuto però farsi la scorza dura per tenergli testa, diventando una vera e propria guerrigliera. E il risultato è una continua violenza: la stessa protagonista alla fine dirà che “la rabbia genera altra rabbia”. Anche qui è la mancanza di un dialogo tra le parti a determinare l’intera narrazione, compromettendo anche quegli uomini che sono realmente capaci di empatizzare e di portare avanti la causa (come Abercrombie, il sostituto di Willoughby, un afroamericano che conosce fin troppo bene la violenza di quel sistema di pensiero).
Gli spiriti dell'isola
L’isola di Inisherin è a tutti gli effetti l’inconscio collettivo, il rimosso di un popolo che durante gli eventi narrati dal film è nel pieno di una guerra civile, metafora perfetta dell’attuale lotta contro il patriarcato e i suoi orribili corollari. La narrazione segue le vicende dei due amici Colm e Pádraic (rispettivamente Gleeson e Farrell), che lottano ognuno in nome di una non necessaria radicalizzazione. Non conoscono la mediazione, e al fare dell’uno corrisponde un’esagerazione dell’altro. A segnare gli eventi sull’isola sono il tempo della religione, con le sue messe settimanali, e la morte, rappresentata dalla signora McCormick, contraltare perfetto della statua della Vergine che svetta su tutti. Le donne sono una rarità in quel luogo, e i maschi si divertono tra loro parlando, bevendo e vivendo la sessualità in modo patologico, come il poliziotto Peadar che si trastulla sfruttando il figlio Dominic.
L’intransigenza delle azioni dei protagonisti è dettata da due motivi contrapposti: mentre Colm sa che la morte è vicina e dunque vuole riabilitare la sua esistenza, Pádraic non sembra esserne consapevole, e cerca invece di preservare a tutti i costi una quotidianità stantia e avvilente (non a caso Dominic gli dirà: “magari ha fatto tutto questo per farti provare una cosa nuova”). Gli spiriti dell’isola sono dunque i suoi stessi abitanti, soli e isolati, che non potendo (o forse non volendo) far parte del loro tempo storico, si abbandonano all’oblio, e il figlio di questa collettività tutta al maschile, Dominic (Barry Keoghan), è destinato a non avere futuro, e non a caso morirà proprio dopo essere stato respinto dalla donna amata, Siobhán (Kerry Condon), l’unica che riuscirà, grazie alla sua cultura, ad abbandonare per sempre Inisherin.
Una guerra immaginaria
In questa grande poliedricità di storie possiamo individuare una direttrice comune: gli uomini ritrovano la propria capacità di azione solo dopo essersi confrontati con la propria morale, e quando lo fanno riescono significativamente a stringere un legame sano con le donne (come Dixon con Mildred, o Chloe con Ray). Evitare ciò significa regredire all’infantilismo, oppure chiudersi in se stessi, fossilizzandosi su comportamenti e modelli principalmente aggressivi. Al contrario, le donne di McDonagh sono forti, indipendenti e spesso si ritrovano a dover gestire o riprendere gli uomini, mentre quelle che accettano passivamente una precisa gerarchia finiscono per morire o per subirne indebitamente tutte le angherie. McDonagh mette quindi in scena una guerra dei sessi tutta ideologica, dove il maschio dimostra soltanto di essere rimasto indietro, costretto alla stasi morale da un inutile e massacrante codice non scritto, vero motore di tutti i lavori dell’autore.
Citando l’articolo La malattia del maschio di Michele Serra: “Per molti maschi essere maschi è una malattia, la cognizione che ogni donna appartenga solamente a se stessa li fa impazzire di paura.” E Martin McDonagh questa cosa l’ha capita fin troppo bene. Resta dunque una sola domanda: è possibile trovare una soluzione, oppure si tratta di un problema intrinsecamente biologico del sesso maschile? Come suggerisce Mildred alla fine della sua avventura sullo schermo: “Ci rifletteremo strada facendo!”.
NC-180
20.12.2023
Martin McDonagh è un drammaturgo, sceneggiatore e regista sia teatrale che cinematografico, considerato a ragione dalla critica come una delle menti più brillanti della nostra contemporaneità. Di ascendenze irlandesi, ma nato e cresciuto a Londra, ha raggiunto a soli ventisei anni il successo con la sua prima opera teatrale, The Beauty Queen of Leenane. Le sue precoci abilità autoriali e la ben consolidata reputazione lo spingono nel 2004 a intraprendere anche la via della Settima Arte, vincendo, nel 2005, un Oscar al miglior cortometraggio grazie al suo primissimo lavoro, Six Shooter. E tutto questo è solo l’inizio di una splendida carriera artistica che, nello specifico cinematografico, lo porta a sfornare ben quattro capolavori, ultimo dei quali è Gli spiriti dell’isola (The Banshees of Inisherin), candidato a nove Academy Awards e vincitore di otto Golden Globe nel 2023.
Molti hanno scritto e discusso sul cinema di McDonagh, evidenziandone giustamente la matrice teatrale della scrittura e la puntualità dello sguardo, sempre attento e misurato, nonché agile a evidenziare, spesso sarcasticamente, le ambiguità morali dei complessissimi personaggi messi in scena. In tutti i suoi lavori sono inoltre individuabili alcune tematiche imprescindibili, tra cui la morte, la religione, l’immaginario (spesso anche quello statunitense), l’inconscio, e le idiosincrasie della sua amata Irlanda… ma crediamo che non sia stato notato sufficientemente un altro aspetto della sua poetica a dir poco singolare e determinante: la messa in discussione della maschilità, sia fisicamente che ideologicamente.
Partiamo anzitutto da un’evidenza inopinabile: in tutti i suoi film ci sono protagonisti maschili. In Six Shooter abbiamo Brendan Gleeson, suo figlio Domhnall, Rúaidhrí Conroy, David Wilmot, Gary Lydon e una sola attrice, Aisling O’Sullivan. Nel film In Bruges (2004) ritorna Brendan Gleeson, affiancato stavolta da Colin Farrell e Ralph Fiennes; in 7 psicopatici (Seven Psychopaths, 2012) gli interpreti principali sono Colin Farrell, Sam Rockwell, Christopher Walken, Tom Waits e Woody Harrelson. Sembrerebbe un’eccezione il lungometraggio Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri, 2017), dove la protagonista è la fantastica Frances McDormand, che tuttavia deve trasformarsi in una vera dura e fare i conti con lo sceriffo Woody Harrelson, il suo scagnozzo Sam Rockwell e una stazione di polizia interamente al maschile. Gli spiriti dell’isola vede invece l’acclamato ritorno della coppia Gleeson-Farrell, affiancati da Barry Keoghan, Gary Lydon, David Pearse, Pat Shortt e tanti altri uomini. Le uniche donne di tutta la narrazione sono invece le attrici Kerry Condon, Bríd Ní Neachtain e Sheila Flitton.
Rispetto a quanto appena detto, si potrebbe anche affermare che McDonagh abbia scelto di lavorare su un preciso Star System, fatto non solo di amici e collaboratori di vecchia data, ma anche di fisicità e caratteri che possono facilmente essere inquadrati entro schemi ricorrenti e altamente riconoscibili. Basterebbe anche solo notare come Gary Lydon abbia interpretato sempre il ruolo di un poliziotto, al di là poi degli specifici psicologici. Ma se volessimo analizzare rapidamente i casi più eclatanti, ci accorgeremmo che Brendan Gleeson interpreta in ogni film del regista londinese un personaggio assennato, riflessivo, cupo e poco incline al credere ciecamente nelle regole della comunità, nonostante dimostri poi di avere un inscalfibile senso dell’onore. Colin Farrell è al contrario il tipo perfetto per dar vita a maschere eclettiche, imprevedibili ed esplosive, nonché moralmente ambivalenti. Sam Rockwell ha imbracciato magistralmente il ruolo di due psicopatici, con evidenti complessi tutt’altro che risolti, mentre Harrelson si è sempre dedicato a incarnare una nemesi altamente espressiva ma in fin dei conti simpatica e divertente.
Dal punto di vista della sceneggiatura, invece, McDonagh sceglie spesso di includere nelle sue narrazioni personaggi maschili che presentano dei gap fisici (Peter Dinklage in Tre manifesti e Jordan Prentice in In Bruges) o anche intellettivi (non parliamo soltanto dei sette psicopatici del film omonimo, ma anche di Barry Keoghan ne Gli spiriti dell’isola o di Rúaidhrí Conroy in Six Shooter). A questo punto molti di voi potrebbero chiedersi: ma se ci sono tutte queste ricorrenze, allora perché dovremmo credere che McDonagh metta in discussione la maschilità? Ebbene, lasciamo che siano i suoi stessi capolavori a parlare.
Six Shooter
Il primo cortometraggio di McDonagh è il racconto di un’atipica giornata, come non ce la immagineremmo nemmeno nei nostri sogni più assurdi. C’è subito da notare l’incipit: il protagonista Donnelly (Gleeson) è in ospedale, e un dottore gli comunica che la moglie è passata a miglior vita. “I don’t know what to say, I don’t know where you are now.”: queste sono le parole che ripete almeno tre volte non appena è di fronte al corpo esanime della coniuge. Nella sequenza successiva lo ritroviamo in stazione, pronto a prendere il treno per tornare a casa. Qui si intrattiene con un ragazzo alquanto bizzarro e loquace, che urla e scherza continuamente, non prendendosi mai la responsabilità di quanto fa o dice. Un’altra coppia vicina è tremendamente disperata per la morte in culla del proprio bambino: il marito non riesce a dare conforto alla moglie, e quando tenta di afferrarle dolcemente la mano lei lo scansa. Questa mancanza lo porta ad essere aggressivo contro il giovane seduto di fronte a Donnelly, che commenta e parla senza sosta non rispettando il dolore altrui: è una reazione spropositata, che non a caso viene contenuta proprio dalla moglie, la quale gli chiede di sedersi. Alla fine scopriremo che quel ragazzo strambo ha ucciso la propria madre, dimostrando, attraverso un flashback accompagnato dalla sua voice over, di aver subito un forte trauma infantile durante una giornata con il padre.
Non sembra affatto un caso, se si pensa che la donna è per tutti e tre una componente essenziale non solo della loro quotidianità, ma del proprio modo di pensare e agire: Donnelly non ha più una ragione di vivere e tenta il suicidio, l’uomo sposato cerca di colmare con l’aggressività il distacco dalla consorte e il giovane è così scanzonato perché sa che dopo la morte della madre lo attende un futuro poco radioso (si prende gioco degli stessi poliziotti che lo uccideranno). Si tratta di una vera e propria mutazione spirituale, per cui non avere un regolatore femminile porta inevitabilmente il maschio ad adottare atteggiamenti depravati, fino addirittura alla regressione infantile.
In Bruges
Il primo lungometraggio di McDonagh è un simil-western dove al posto del deserto abbiamo la città medievale meglio conservata d’Europa, il che implica una sovrastruttura ideologica molto forte a muovere gli eventi. E in effetti l’intera narrazione è mossa dalla necessità di rispettare un codice d’onore non scritto, la legge dei sicari, di cui si fa portavoce inamovibile Henry (Ralph Fiennes), un vero e proprio angelo della morte. Ray e Ken (rispettivamente Farrell-Gleeson) sono nella cittadina belga per volere del loro capo, per fare i conti con il proprio passato. E a simboleggiarlo è la scena in cui li vediamo di fronte al Trittico del Giudizio di Hieronymus Bosch. Ray, colpevole di aver ucciso un bambino, non è affatto contento di essere a Bruges, e lo manifesta proprio con comportamenti infantili, prima prendendosi gioco di un turista americano in sovrappeso, poi non rispettando affatto i dettami di Ken. Quest’ultimo si comporta come un padre: si porta l’amico in giro per la città, costringendolo a un turismo culturale che non gli interessa affatto e redarguendolo per ogni comportamento fuori luogo. Anche qui siamo di fronte a una regressione del personaggio, traviato da quelle stesse regole che non riesce più a rispettare.
In un’altra scena chiave, infatti, sempre Ray colpirà una donna che cercava di difendere il compagno dalla sua violenza, e subito dopo si giustificherà enunciando i principi di un codice d’onore che ha però puntualmente infranto: a questo seguirà un comportamento vittimistico, biasimandosi per non essere un uomo adatto a uscire con Chloe, la ragazza conosciuta durante la prima sera nella città. McDonagh ci mostra poi un altro momento in cui i due protagonisti hanno la possibilità di sottrarsi a questo ciclo di violenza perpetua: in un parchetto, Ken ferma Ray dal suicidarsi mentre lui stesso era pronto a sparargli come ordinatogli da Henry. È una volontà molto forte di infrangere quel codice, a cui segue poi un’ironica scena in cui i due paragonano la grandezza delle proprie pistole, prima che Ray scoppi a piangere senza sosta sulla spalla dell’amico.
Il lungometraggio può essere visto come un vero e proprio coming-of-age, dove il “piccolo” Ray cresce e diventa adulto dopo aver fatto i conti con la propria morale. E infatti solo a questo punto del film riuscirà a instaurare una relazione sana con Chloe. La legge dei sicari ha totalmente annichilito la capacità degli adulti di prendersi le proprie responsabilità, portandoli invece ad agire in maniera radicale e aggressiva, proprio come farà lo stesso Henry nel finale: si darà la morte pensando di aver ucciso a sua volta un bambino durante la sparatoria con Ray, mentre si trattava in realtà di un uomo affetto da nanismo. “Bisogna tenere fede ai principi”: queste saranno le sue ultime parole.
7 psicopatici
Forse il lavoro più introspettivo e complesso dell’autore londinese. Il film è giocato interamente su una dimensione immaginaria, oltreché meta-cinematografica. McDonagh dà voce al suo alter ego Martin Faranan (Colin Farrell), sceneggiatore irlandese alcolizzato, che non riesce a finire la sceneggiatura del suo ultimo film, “7 psicopatici” per l’appunto. Il film si apre con il cameo di due killer che mostrano tutto il loro nervosismo per il fatto che dovranno uccidere una ragazza. Subito dopo la narrazione si sposta sul protagonista, a letto con i postumi di una sbornia, mentre la sua compagna, Kaya, si prepara per andare a lavorare. È una relazione squilibrata, dove la donna si ritrova a fare tutto da sé, dovendo anche redarguire il fidanzato per la sua negligenza, come fosse un figlio. Non è affatto un caso che poco dopo questo inizio Martin si ritrovi a discutere della sua relazione con il migliore amico Billy (Sam Rockwell) in un cinema, davanti alla scena di un film asiatico dove un uomo schiaffeggia ripetutamente un altro uomo. Billy inoltre non esita a definire Kaya una “stronza” di natura, supportando l’amico nonostante abbia torto.
Il resto del film si gioca sulla confusione del piano di realtà con quello dell’immaginario di Martin, con una narrazione mossa interamente da uomini malati, che hanno deciso di agire o attraverso le donne (il prete vietnamita che vuole far saltare in aria alcuni veterani della guerra in Vietnam usando una prostituta) oppure per una donna (come Zach e Hans: il primo uccideva serial killers per amore della sua compagna, mentre il secondo ruba i cani degli altri per pagare le cure della moglie malata). Significativa sarà poi verso il finale una battuta di Billy: “Non puoi far morire gli animali nei film, soltanto le donne.” Oppure va ricordata anche una frase della nemesi Charlie (Woody Harrelson): “La pace è per le checche e adesso voi morirete.” Il film si conclude con un Martin profondamente cambiato, che ha trovato la forza e la creatività necessarie per finire la sua sceneggiatura, e questo avviene dopo aver ascoltato l’audio registrato di Hans, che gli suggerisce una sequenza onirica per il suo film, nonostante Martin gli abbia detto che “le sequenze oniriche sono per i finocchi.”
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Qui assistiamo a un cambiamento significativo: abbiamo una protagonista, Mildred (Frances McDormand), che decide di far guerra ai componenti della squadra di polizia di Ebbing (la piccola cittadina di provincia in cui vive) perché non hanno ancora trovato chi ha stuprato e ucciso sua figlia. Il film pone esplicitamente il problema di un intero sistema di pensiero e di azione, intriso di maschilismo, dove a farla da padroni sono tutti poliziotti gradassi e arroganti, che si sentono autorizzati a maltrattare i deboli solo perché il loro capo, lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) glielo concede senza riserve. E non è un caso che il motore del film sia la compromissione della reputazione dello sceriffo, rappresentato simbolicamente con un cancro incurabile. È una retorica che non ammette alcuna mediazione, se non quella di estirpare completamente il germe maligno. E infatti la situazione precipiterà proprio dopo la morte stessa di Willoughby, che lascerà tutti i suoi colleghi (che lui stesso chiama “boys”, come farebbe un tipico padre statunitense) incapaci di agire.
Significativo a tal proposito è il percorso di Dixon (Sam Rockwell), personaggio infantile, tenuto al capestro da una madre razzista e conservatrice, che sceglie l’aggressività come soluzione a tutto, forte del fatto di avere un distintivo (che nemmeno ricorda dov’è). Usa le parole “frocio” e “finocchio” come normalissimi insulti, urla e segue ciecamente quanto gli viene detto dallo sceriffo. Sarà una lettera postuma dello stesso Willoughby a indicare a Dixon la strada da seguire, chiedendogli proprio di rinunciare alla sua aggressività repressa: “scegli l’amore e metti da parte l’odio…non diranno che sei gay, e se lo dicono allora arrestali per omofobia!”.
In questo film gli uomini non reggono affatto il confronto con Mildred, che ha dovuto però farsi la scorza dura per tenergli testa, diventando una vera e propria guerrigliera. E il risultato è una continua violenza: la stessa protagonista alla fine dirà che “la rabbia genera altra rabbia”. Anche qui è la mancanza di un dialogo tra le parti a determinare l’intera narrazione, compromettendo anche quegli uomini che sono realmente capaci di empatizzare e di portare avanti la causa (come Abercrombie, il sostituto di Willoughby, un afroamericano che conosce fin troppo bene la violenza di quel sistema di pensiero).
Gli spiriti dell'isola
L’isola di Inisherin è a tutti gli effetti l’inconscio collettivo, il rimosso di un popolo che durante gli eventi narrati dal film è nel pieno di una guerra civile, metafora perfetta dell’attuale lotta contro il patriarcato e i suoi orribili corollari. La narrazione segue le vicende dei due amici Colm e Pádraic (rispettivamente Gleeson e Farrell), che lottano ognuno in nome di una non necessaria radicalizzazione. Non conoscono la mediazione, e al fare dell’uno corrisponde un’esagerazione dell’altro. A segnare gli eventi sull’isola sono il tempo della religione, con le sue messe settimanali, e la morte, rappresentata dalla signora McCormick, contraltare perfetto della statua della Vergine che svetta su tutti. Le donne sono una rarità in quel luogo, e i maschi si divertono tra loro parlando, bevendo e vivendo la sessualità in modo patologico, come il poliziotto Peadar che si trastulla sfruttando il figlio Dominic.
L’intransigenza delle azioni dei protagonisti è dettata da due motivi contrapposti: mentre Colm sa che la morte è vicina e dunque vuole riabilitare la sua esistenza, Pádraic non sembra esserne consapevole, e cerca invece di preservare a tutti i costi una quotidianità stantia e avvilente (non a caso Dominic gli dirà: “magari ha fatto tutto questo per farti provare una cosa nuova”). Gli spiriti dell’isola sono dunque i suoi stessi abitanti, soli e isolati, che non potendo (o forse non volendo) far parte del loro tempo storico, si abbandonano all’oblio, e il figlio di questa collettività tutta al maschile, Dominic (Barry Keoghan), è destinato a non avere futuro, e non a caso morirà proprio dopo essere stato respinto dalla donna amata, Siobhán (Kerry Condon), l’unica che riuscirà, grazie alla sua cultura, ad abbandonare per sempre Inisherin.
Una guerra immaginaria
In questa grande poliedricità di storie possiamo individuare una direttrice comune: gli uomini ritrovano la propria capacità di azione solo dopo essersi confrontati con la propria morale, e quando lo fanno riescono significativamente a stringere un legame sano con le donne (come Dixon con Mildred, o Chloe con Ray). Evitare ciò significa regredire all’infantilismo, oppure chiudersi in se stessi, fossilizzandosi su comportamenti e modelli principalmente aggressivi. Al contrario, le donne di McDonagh sono forti, indipendenti e spesso si ritrovano a dover gestire o riprendere gli uomini, mentre quelle che accettano passivamente una precisa gerarchia finiscono per morire o per subirne indebitamente tutte le angherie. McDonagh mette quindi in scena una guerra dei sessi tutta ideologica, dove il maschio dimostra soltanto di essere rimasto indietro, costretto alla stasi morale da un inutile e massacrante codice non scritto, vero motore di tutti i lavori dell’autore.
Citando l’articolo La malattia del maschio di Michele Serra: “Per molti maschi essere maschi è una malattia, la cognizione che ogni donna appartenga solamente a se stessa li fa impazzire di paura.” E Martin McDonagh questa cosa l’ha capita fin troppo bene. Resta dunque una sola domanda: è possibile trovare una soluzione, oppure si tratta di un problema intrinsecamente biologico del sesso maschile? Come suggerisce Mildred alla fine della sua avventura sullo schermo: “Ci rifletteremo strada facendo!”.