NC-178
08.12.2023
Un uomo si siede, in un piccolo giardino, con una matita in mano e un quaderno sotto braccio. Una volta aperto il quaderno, l’uomo, illustrando a parole cosa sta compiendo in quegli attimi, disegna un fiore. Un gesto che per Mariano Llinás vale un intero modo di concepire il cinema, che rappresenta una dichiarazione d’intenti e, soprattutto, il modo di vedere la Settima Arte di un’intera casa di produzione cinematografica. Quest’ultima, denominata dai suoi costitutori “El Pampero Cine”, nata non molto tempo fa, si riscopre portatrice di una nuova tipologia di cinema, il quale ha rifondato e rimodulato il percorso argentino all’interno dell’arte visuale. Ciò che accade in La Flor (2018), opera magniloquente del regista sudamericano, dalla durata spropositata di 13 ore e 28 minuti, è ciò che, di fondo, anima il suo stesso cinema: la formazione di un incredibile contenitore, all’interno del quale scorrono storie potenzialmente infinite.
La particolarità del cinema di Llinás sta nel raccontare la storia del proprio paese attraverso varie operazioni meta-testuali, che hanno come fine quello di smarrire lo spettatore, di portarlo al grado zero della narrazione e fargli provare il semplice gusto di assaporare le complessità della narrativa, dell’intreccio, della cosiddetta fabula. Il cinema dell’argentino è dunque un gioco. Il regista si diverte a formare narrazioni apparentemente parallele che, successivamente, s’incrociano, innescando circoli viziosi. I personaggi che ne sono partecipi girano perlopiù a vuoto, sono quasi sempre individui che non hanno identità ben definite, si riscoprono veri e propri personaggi-archetipo prede del racconto, atti a delineare, con notevole fantasia, le relazioni che si pongono su schermo contemplando tutte le possibilità, dalle più ovvie alle più assurde.
Proprio questo è il centro focale di un cinema che privilegia la storia rispetto alla visualità, che riprende il formato del romanzo, rifacendosi direttamente alla narrativa dei grandi autori sudamericani (soprattutto Jorge Luis Borges, con cui Llinás condivide il gusto per l’inserimento del post-modernismo all’interno delle proprie opere e la sperimentazione sul racconto). Le pellicole di Llinás possono essere riconducibili proprio ai grandi romanzi argentini, soprattutto nella voglia di sperimentare generi diversi all’interno dello stesso racconto e nell’affabulazione della narrativa, che quasi sempre prende il sopravvento sul resto.
Fin dal suo esordio, Balnearios (2002), un documentario/saggio sugli stabilimenti balneari argentini e sulle loro corrispettive città, Llinás mostra quanto il suo cinema sia già alle prese con delle strutture radicali, in anti-tesi rispetto a quasi tutto il cinema moderno. Il ruolo del regista, garantito dalla voice-over, è quello di un vero e proprio cantastorie che narra gli usi e i costumi di quelle città prese completamente d'assalto d'estate, che si riscoprono poi completamente deserte in inverno. Più che lasciar parlare l'immagine e la visualità, dunque, Llinás preferisce affidarsi alla parola. Una scelta decisamente in contro-tendenza rispetto al panorama cinematografico attuale, ma che si fa alfiere di un cinema, quello argentino, occupato a formulare qualsiasi artefatto come un grande romanzo.
In Balnearios, naturalmente, per adiacenza alle strutture documentaristiche e alle esigenze di quanto raccontato, il parlato resta oggettivizzato, ridotto a mera spiegazione, con la presenza di un narratore esterno che si riscopre essere elemento ricorrente anche nelle successive produzioni, ovvero Historias extraordinarias (2008) e, soprattutto, quello che è reputato il suo vero capolavoro, La Flor. Entrambi sono una trasposizione del romanzo combinatorio post-moderno tipico della seconda metà del Novecento, con transizioni continue che diventano il modo per portare avanti più narrazioni in contemporanea, come se la stessa storia e la sua evoluzione fossero intercettate tramite il mezzo cinematografico, espandendosi a macchia d'olio e prendendo delle strade intricatissime che accentuano la poetica del regista.
Le storie raccontate sono però essenziali e semplici. Nel cinema di Llinás gli elementi principali sono ricondotti a semplici e giocose costruzioni narrative (come nel caso di Historias extraordinarias, dove i tre protagonisti hanno per nome delle lettere dell’alfabeto), ma è nelle possibilità dell’intreccio che risiede la complessità vera e propria. I racconti paralleli, tipici del suo cinema, sono anche un modo per intrecciare il falso col vero, per indagare il genere all’interno del genere e contaminarlo con altre varie possibilità, il futuro al passato e al presente per mettere in atto un semplice racconto dall'effetto decisamente devastante. Una narrativa combinatoria, in cui ad essere asse portante delle vicende è l’iper-testo, in un formato meta-narrativo che, in qualche modo, rappresenta un esperimento a suo modo unico.
Proprio in un momento storico in cui tutti quanti parlano di multiverso e di mondi che, intersecandosi, formano una realtà a sé stante, connotata da effetti visivi a dir poco fantasmagorici, Llinás decide di seguire lo stesso percorso, ma privilegia il contenuto piuttosto che il contenente. A caratterizzare opere come La Flor e Corsini interpreta a Blomberg y Maciel (2021) non è tanto ciò che viene mostrato, ma è ciò che viene detto. Il regista argentino fa della prolissità la sua bandiera, e lascia invece la visualità ad un suo corso tutto personale e particolare, ricca di statiche fuori fuoco (come, del resto, sono gli stessi personaggi che si alternano sullo schermo), mosse, poco curate, in presa diretta perché è la storia stessa ad essere difficilmente intercettabile e continuamente oscillante tra mille suggestioni diverse che si susseguono formandosi in corso d’opera.
In qualche modo, Llinás si diverte a filmare ciò che il suo cinema non è, ma sta per diventare. Un coacervo di storie, di intrecci in rapido cambiamento all’insegna delle pampas argentine, un flusso di coscienza che ricorda da vicino un altro gigante letterario nostrano e le sue ultime sperimentazioni: Italo Calvino. Le opere del cineasta argentino percorrono lo stesso intento, divertente e divertito, di libri come Il Castello Dei Destini Incrociati (1969) e Le Città Invisibili (1972), ricorrendo allo stesso e identico gusto per la narrativa, lo stesso interesse per la costruzione del racconto e per gli esperimenti che lo deformano. In questo modo, lo spettatore può sempre attraversare l’universo di riferimento e perdersi e ritrovarsi al suo interno, come in un incredibile labirinto in cui non è necessario orientarsi.
NC-178
08.12.2023
Un uomo si siede, in un piccolo giardino, con una matita in mano e un quaderno sotto braccio. Una volta aperto il quaderno, l’uomo, illustrando a parole cosa sta compiendo in quegli attimi, disegna un fiore. Un gesto che per Mariano Llinás vale un intero modo di concepire il cinema, che rappresenta una dichiarazione d’intenti e, soprattutto, il modo di vedere la Settima Arte di un’intera casa di produzione cinematografica. Quest’ultima, denominata dai suoi costitutori “El Pampero Cine”, nata non molto tempo fa, si riscopre portatrice di una nuova tipologia di cinema, il quale ha rifondato e rimodulato il percorso argentino all’interno dell’arte visuale. Ciò che accade in La Flor (2018), opera magniloquente del regista sudamericano, dalla durata spropositata di 13 ore e 28 minuti, è ciò che, di fondo, anima il suo stesso cinema: la formazione di un incredibile contenitore, all’interno del quale scorrono storie potenzialmente infinite.
La particolarità del cinema di Llinás sta nel raccontare la storia del proprio paese attraverso varie operazioni meta-testuali, che hanno come fine quello di smarrire lo spettatore, di portarlo al grado zero della narrazione e fargli provare il semplice gusto di assaporare le complessità della narrativa, dell’intreccio, della cosiddetta fabula. Il cinema dell’argentino è dunque un gioco. Il regista si diverte a formare narrazioni apparentemente parallele che, successivamente, s’incrociano, innescando circoli viziosi. I personaggi che ne sono partecipi girano perlopiù a vuoto, sono quasi sempre individui che non hanno identità ben definite, si riscoprono veri e propri personaggi-archetipo prede del racconto, atti a delineare, con notevole fantasia, le relazioni che si pongono su schermo contemplando tutte le possibilità, dalle più ovvie alle più assurde.
Proprio questo è il centro focale di un cinema che privilegia la storia rispetto alla visualità, che riprende il formato del romanzo, rifacendosi direttamente alla narrativa dei grandi autori sudamericani (soprattutto Jorge Luis Borges, con cui Llinás condivide il gusto per l’inserimento del post-modernismo all’interno delle proprie opere e la sperimentazione sul racconto). Le pellicole di Llinás possono essere riconducibili proprio ai grandi romanzi argentini, soprattutto nella voglia di sperimentare generi diversi all’interno dello stesso racconto e nell’affabulazione della narrativa, che quasi sempre prende il sopravvento sul resto.
Fin dal suo esordio, Balnearios (2002), un documentario/saggio sugli stabilimenti balneari argentini e sulle loro corrispettive città, Llinás mostra quanto il suo cinema sia già alle prese con delle strutture radicali, in anti-tesi rispetto a quasi tutto il cinema moderno. Il ruolo del regista, garantito dalla voice-over, è quello di un vero e proprio cantastorie che narra gli usi e i costumi di quelle città prese completamente d'assalto d'estate, che si riscoprono poi completamente deserte in inverno. Più che lasciar parlare l'immagine e la visualità, dunque, Llinás preferisce affidarsi alla parola. Una scelta decisamente in contro-tendenza rispetto al panorama cinematografico attuale, ma che si fa alfiere di un cinema, quello argentino, occupato a formulare qualsiasi artefatto come un grande romanzo.
In Balnearios, naturalmente, per adiacenza alle strutture documentaristiche e alle esigenze di quanto raccontato, il parlato resta oggettivizzato, ridotto a mera spiegazione, con la presenza di un narratore esterno che si riscopre essere elemento ricorrente anche nelle successive produzioni, ovvero Historias extraordinarias (2008) e, soprattutto, quello che è reputato il suo vero capolavoro, La Flor. Entrambi sono una trasposizione del romanzo combinatorio post-moderno tipico della seconda metà del Novecento, con transizioni continue che diventano il modo per portare avanti più narrazioni in contemporanea, come se la stessa storia e la sua evoluzione fossero intercettate tramite il mezzo cinematografico, espandendosi a macchia d'olio e prendendo delle strade intricatissime che accentuano la poetica del regista.
Le storie raccontate sono però essenziali e semplici. Nel cinema di Llinás gli elementi principali sono ricondotti a semplici e giocose costruzioni narrative (come nel caso di Historias extraordinarias, dove i tre protagonisti hanno per nome delle lettere dell’alfabeto), ma è nelle possibilità dell’intreccio che risiede la complessità vera e propria. I racconti paralleli, tipici del suo cinema, sono anche un modo per intrecciare il falso col vero, per indagare il genere all’interno del genere e contaminarlo con altre varie possibilità, il futuro al passato e al presente per mettere in atto un semplice racconto dall'effetto decisamente devastante. Una narrativa combinatoria, in cui ad essere asse portante delle vicende è l’iper-testo, in un formato meta-narrativo che, in qualche modo, rappresenta un esperimento a suo modo unico.
Proprio in un momento storico in cui tutti quanti parlano di multiverso e di mondi che, intersecandosi, formano una realtà a sé stante, connotata da effetti visivi a dir poco fantasmagorici, Llinás decide di seguire lo stesso percorso, ma privilegia il contenuto piuttosto che il contenente. A caratterizzare opere come La Flor e Corsini interpreta a Blomberg y Maciel (2021) non è tanto ciò che viene mostrato, ma è ciò che viene detto. Il regista argentino fa della prolissità la sua bandiera, e lascia invece la visualità ad un suo corso tutto personale e particolare, ricca di statiche fuori fuoco (come, del resto, sono gli stessi personaggi che si alternano sullo schermo), mosse, poco curate, in presa diretta perché è la storia stessa ad essere difficilmente intercettabile e continuamente oscillante tra mille suggestioni diverse che si susseguono formandosi in corso d’opera.
In qualche modo, Llinás si diverte a filmare ciò che il suo cinema non è, ma sta per diventare. Un coacervo di storie, di intrecci in rapido cambiamento all’insegna delle pampas argentine, un flusso di coscienza che ricorda da vicino un altro gigante letterario nostrano e le sue ultime sperimentazioni: Italo Calvino. Le opere del cineasta argentino percorrono lo stesso intento, divertente e divertito, di libri come Il Castello Dei Destini Incrociati (1969) e Le Città Invisibili (1972), ricorrendo allo stesso e identico gusto per la narrativa, lo stesso interesse per la costruzione del racconto e per gli esperimenti che lo deformano. In questo modo, lo spettatore può sempre attraversare l’universo di riferimento e perdersi e ritrovarsi al suo interno, come in un incredibile labirinto in cui non è necessario orientarsi.