NC-119
23.06.2022
«Mia madre ha una memoria di me che parlavo del mestiere del cinema a cinque anni. A otto avevo la mia Super8. Per una famiglia medio borghese come la mia l’educazione alla cultura è sempre stata attenta, libertaria e nutritiva. Ma fino a un certo punto della mia carriera i miei pensavano ancora: ah, se avesse fatto il professore». Così parla Luca Guadagnino, un regista che riempie gli occhi e i sensi e che nell’arco degli ultimi tredici anni è riuscito a imporsi come uno degli autori più significativi del panorama cinematografico internazionale. Fin dai suoi primi lavori questo raffinato réalisateur ha mostrato un punto di vista fuori dal comune ed è rimasto fedele alle sue parole secondo cui la settima arte è «un linguaggio e non una questione di stile». Il cinema di Guadagnino è un’arte viva, carnale e profondamente legata alla materialità: ogni elemento in esso racchiuso viene pensato per produrre empatia nel pubblico. Tramite il rapsodico montaggio di Walter Fasano – inseparabile collaboratore del cineasta – le immagini scorrono davanti agli occhi respirando, amando e soffrendo assieme allo spettatore. Esse fanno l’amore con noi accompagnandoci in un viaggio di stimolazioni percettive. Così nella poetica guadagniniana un treno che parte da una stazione di campagna, una donna che fugge da una grande casa o una coppia che si stringe disperatamente in un cortile, sono frammenti che acquisiscono una forte carica simbolica e trascinano lo spettatore in un turbinio di insostenibile commozione e nostalgia.
Perché questi fotogrammi creano in noi sbigottimento? Perché ci lasciano così a lungo meravigliati anche dopo aver lasciato la sala? La risposta si trova forse nel fatto che essi sono intrinsecamente legati alla pura emozione cinematografica. L’universo di Luca Guadagnino è talmente avvinto alla magia e al mistero della settima arte da divenire un potentissimo catalizzatore di emotività. Rari sono gli autori ad aver impresso sulla pellicola una carica emozionale tanto intensa. In quest’ottica Guadagnino si può quindi considerare l’erede ideale di registi come Max Ophüls, Alfred Hitchcock, Kenji Mizoguchi e Rainer Werner Fassbinder, fautori di un cinema in cui l’estetismo non è mai fine a se stesso ma rappresenta un vero e proprio mezzo di suggestione. Non a caso Bernardo Bertolucci, riferendosi a Ophüls, parlò di una sorta di straniamento cinematografico: «Eravamo a Parigi all’inizio degli anni Settanta e mia moglie Clare mi portò, a sorpresa, in un piccolo cinema dove davano Le Plaisir (1952) di Ophüls. Durante lo spettacolo entrai in uno stato di godimento assoluto, un orgasmo cinefiliaco tanto potente da scatenare in me un’improvvisa febbre che mi impedì di continuare. Uscito dalla sala parlai di quello che era successo: ero stato talmente sopraffatto da ciò che avevo visto da non poter sostenere quell’esperienza. Successivamente, a Londra, tornammo a vedere il film e il fenomeno si ripeté. Non avevo il controllo della mia risposta, mentale, emotiva e fisiologica a ciò che guardavo. La forte sensazione di rapimento estetico che provai culminò in una tachicardia che mi costrinse a fuggire nuovamente. Riuscii a terminare Le Plaisir solo anni dopo, quando assistetti a una presentazione dell’opera al Filmstudio di Roma». Questo episodio, probabilmente enfatizzato ma decisamente significativo, esemplifica la straordinaria capacità, presente in determinati cineasti, di trascinarci in un altrove in cui l’incorporea rarefazione dell’immagine agisce fisicamente sui nostri sensi. Nella sua trilogia del desiderio, composta da Io sono l’amore (2009), A Bigger Splash (2015) e Call Me by Your Name (Chiamami col tuo nome, 2017), Guadagnino si serve proprio della visualità per esprimere un piacere fisico.
Queste opere pongono al centro dei propri focus la potenza destabilizzante delle pulsioni umane e si strutturano in tre diversi racconti sentimentali. Io sono l’amore segue la passione che travolge la moglie di un ricco industriale milanese (Tilda Swinton) e un giovane cuoco amico di suo figlio (Edoardo Gabbriellini), mentre il successivo A Bigger Splash, ambientato in una selvaggia e riarsa Pantelleria, altera i toni elegiaci del capitolo precedente per mettere in scena un convulso thriller dell’anima. Prendendo spunto dal plot de La piscine (La piscina, 1969) di Jacques Deray – operazione di svuotamento che Guadagnino replicherà con Suspiria (2018) – il lungometraggio analizza l’ambiguo quadrilatero sentimentale formatosi tra una cantante – l’onnipresente Swinton, attrice feticcio del regista – il suo compagno (Matthias Schoenaerts), il precedente amante (Ralph Fiennes), e la figlia di quest’ultimo (Dakota Johnson). L’ultimo atto è invece rappresentato da Call Me by Your Name, tratto da un romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory.
Il film narra del primo, struggente amore di un diciassettenne (Timothée Chalamet) per uno studente straniero (Armie Hammer) assistente del padre professore (Michael Stuhlbarg). Lo sguardo di Guadagnino si posa, qui più che mai, sui corpi, corpi che si scrutano, si desiderano, si toccano, si scontrano. L’autore si avvale della dilatazione temporale per esplorare le atmosfere stranianti in cui cala i suoi personaggi. Essi si muovono, all’interno di spazi labirintici – la villa di campagna in Call Me by Your Name, il Dammuso di A Bigger Splash, la smisurata magione di Io sono l’amore – riflessi negli specchi o ripresi in una «silenziosa lontananza», evocando così un senso di enigmatica ambiguità. La telecamera li coglie nei loro attimi più umani, mostrando le lacrime che tracciano i loro volti, il sangue che sgorga dai loro corpi, le lingue che si intrecciano durante i loro amplessi, e li cattura con spietata dolcezza, avvolgendoli in quei luoghi segreti e imperscrutabili.
Da sapiente cinéphile qual è, Guadagnino rielabora gli elementi formativi del più ricercato cinema d’autore plasmando una visione che, pur vivendo di forti suggestioni esterne, risulta profondamente personale. Sembra quasi che il regista voglia immettere una sorta di dialettica tra diverse influenze cinematografiche. Ad esempio, la sua istantanea e voluttuosa sensualità pare riallacciarsi a quella concupiscenza con cui Bertolucci osservava il reale, una sorta di «immagine erotica» condivisa. Inoltre, come in Bertolucci, Guadagnino è interessato all’evoluzione e non alla risoluzione della storia, all’indagine della chimica tra i personaggi e non alla loro semplice caratterizzazione. Il gusto pittorico e il placido svolgersi degli eventi ci riportano invece alle opere di Maurice Pialat, Éric Rohmer, Jacques Rivette, André Téchiné. Come questi grandi naturalisti francesi anche Guadagnino analizza i rapporti sentimentali e generazionali da un punto di vista simbolico-antropologico e assume una visione dell’uomo soverchiato da una natura che lo trascende, ma che gli concede momenti di illuminazione divina. Per raggiungere la propria catarsi i personaggi si devono liberare dall’incatenamento della civiltà e perdersi in un universo selvaggio e primordiale.
In determinate sequenze però Guadagnino abbandona il suo placido naturalismo per caricare l’azione di pathos. È così che, impiegando colori, luci, musica e movimenti di camera in funzione drammaturgica, il melodramma trionfa nella sua forma più elevata. Inoltre, come era per Douglas Sirk, sommo maestro del mélo hollywoodiano, anche Guadagnino tinge le sue opere di un lirismo romanzesco e sfrutta al meglio gli elementi di regia nella descrizione delle differenze culturali e sociali e nella raffigurazione psicologica dei conflitti sessuali soggiacenti. Questi drammi, all’apparenza pacati e contemplativi, nascondono, sotto la loro superficie, una natura disperata e furente.
La disamina della nevrosi borghese e dell’intellettualismo fine a se stesso è incarnata da figure di chabroliana memoria – come i componenti della famiglia Recchi in Io sono l’amore, i villeggianti o il poliziotto/fan di A Bigger Splash, la coppia di amici che in Call Me by Your Name discute di politica e cinema senza soluzione di continuità – che irrompendo sulla scena si contrappongono agli eterei e distaccati protagonisti. Per questi ruoli il regista chiama a se caratteristi impegnati, come Elena Bucci, Maria Paiato, Michael Stuhlbarg, Pippo Delbono, Amira Casar, o icone della storia del cinema, come il Gabriele Ferzetti de L’Avventura (1960), l’Aurore Clément di Les Rendez-vous d’Anna (1978) o la Marisa Berenson di Barry Lyndon (1975).
Il trittico sul desiderio e, più in generale, la filmografia di Guadagnino vivono quindi di un meraviglioso cortocircuito fra autenticità e ricostruzione, documentarismo e messa in scena. Una volta Andrè Bazin disse «il cinema sostituisce ai nostri occhi un mondo maggiormente in armonia con i nostri desideri»; con la sua poetica amara ma soave, terrena e spirituale assieme, Luca Guadagnino ha definito, con struggente precisione, tutta la crudeltà e la dolcezza del vivere.
NC-119
23.06.2022
«Mia madre ha una memoria di me che parlavo del mestiere del cinema a cinque anni. A otto avevo la mia Super8. Per una famiglia medio borghese come la mia l’educazione alla cultura è sempre stata attenta, libertaria e nutritiva. Ma fino a un certo punto della mia carriera i miei pensavano ancora: ah, se avesse fatto il professore». Così parla Luca Guadagnino, un regista che riempie gli occhi e i sensi e che nell’arco degli ultimi tredici anni è riuscito a imporsi come uno degli autori più significativi del panorama cinematografico internazionale. Fin dai suoi primi lavori questo raffinato réalisateur ha mostrato un punto di vista fuori dal comune ed è rimasto fedele alle sue parole secondo cui la settima arte è «un linguaggio e non una questione di stile». Il cinema di Guadagnino è un’arte viva, carnale e profondamente legata alla materialità: ogni elemento in esso racchiuso viene pensato per produrre empatia nel pubblico. Tramite il rapsodico montaggio di Walter Fasano – inseparabile collaboratore del cineasta – le immagini scorrono davanti agli occhi respirando, amando e soffrendo assieme allo spettatore. Esse fanno l’amore con noi accompagnandoci in un viaggio di stimolazioni percettive. Così nella poetica guadagniniana un treno che parte da una stazione di campagna, una donna che fugge da una grande casa o una coppia che si stringe disperatamente in un cortile, sono frammenti che acquisiscono una forte carica simbolica e trascinano lo spettatore in un turbinio di insostenibile commozione e nostalgia.
Perché questi fotogrammi creano in noi sbigottimento? Perché ci lasciano così a lungo meravigliati anche dopo aver lasciato la sala? La risposta si trova forse nel fatto che essi sono intrinsecamente legati alla pura emozione cinematografica. L’universo di Luca Guadagnino è talmente avvinto alla magia e al mistero della settima arte da divenire un potentissimo catalizzatore di emotività. Rari sono gli autori ad aver impresso sulla pellicola una carica emozionale tanto intensa. In quest’ottica Guadagnino si può quindi considerare l’erede ideale di registi come Max Ophüls, Alfred Hitchcock, Kenji Mizoguchi e Rainer Werner Fassbinder, fautori di un cinema in cui l’estetismo non è mai fine a se stesso ma rappresenta un vero e proprio mezzo di suggestione. Non a caso Bernardo Bertolucci, riferendosi a Ophüls, parlò di una sorta di straniamento cinematografico: «Eravamo a Parigi all’inizio degli anni Settanta e mia moglie Clare mi portò, a sorpresa, in un piccolo cinema dove davano Le Plaisir (1952) di Ophüls. Durante lo spettacolo entrai in uno stato di godimento assoluto, un orgasmo cinefiliaco tanto potente da scatenare in me un’improvvisa febbre che mi impedì di continuare. Uscito dalla sala parlai di quello che era successo: ero stato talmente sopraffatto da ciò che avevo visto da non poter sostenere quell’esperienza. Successivamente, a Londra, tornammo a vedere il film e il fenomeno si ripeté. Non avevo il controllo della mia risposta, mentale, emotiva e fisiologica a ciò che guardavo. La forte sensazione di rapimento estetico che provai culminò in una tachicardia che mi costrinse a fuggire nuovamente. Riuscii a terminare Le Plaisir solo anni dopo, quando assistetti a una presentazione dell’opera al Filmstudio di Roma». Questo episodio, probabilmente enfatizzato ma decisamente significativo, esemplifica la straordinaria capacità, presente in determinati cineasti, di trascinarci in un altrove in cui l’incorporea rarefazione dell’immagine agisce fisicamente sui nostri sensi. Nella sua trilogia del desiderio, composta da Io sono l’amore (2009), A Bigger Splash (2015) e Call Me by Your Name (Chiamami col tuo nome, 2017), Guadagnino si serve proprio della visualità per esprimere un piacere fisico.
Queste opere pongono al centro dei propri focus la potenza destabilizzante delle pulsioni umane e si strutturano in tre diversi racconti sentimentali. Io sono l’amore segue la passione che travolge la moglie di un ricco industriale milanese (Tilda Swinton) e un giovane cuoco amico di suo figlio (Edoardo Gabbriellini), mentre il successivo A Bigger Splash, ambientato in una selvaggia e riarsa Pantelleria, altera i toni elegiaci del capitolo precedente per mettere in scena un convulso thriller dell’anima. Prendendo spunto dal plot de La piscine (La piscina, 1969) di Jacques Deray – operazione di svuotamento che Guadagnino replicherà con Suspiria (2018) – il lungometraggio analizza l’ambiguo quadrilatero sentimentale formatosi tra una cantante – l’onnipresente Swinton, attrice feticcio del regista – il suo compagno (Matthias Schoenaerts), il precedente amante (Ralph Fiennes), e la figlia di quest’ultimo (Dakota Johnson). L’ultimo atto è invece rappresentato da Call Me by Your Name, tratto da un romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory.
Il film narra del primo, struggente amore di un diciassettenne (Timothée Chalamet) per uno studente straniero (Armie Hammer) assistente del padre professore (Michael Stuhlbarg). Lo sguardo di Guadagnino si posa, qui più che mai, sui corpi, corpi che si scrutano, si desiderano, si toccano, si scontrano. L’autore si avvale della dilatazione temporale per esplorare le atmosfere stranianti in cui cala i suoi personaggi. Essi si muovono, all’interno di spazi labirintici – la villa di campagna in Call Me by Your Name, il Dammuso di A Bigger Splash, la smisurata magione di Io sono l’amore – riflessi negli specchi o ripresi in una «silenziosa lontananza», evocando così un senso di enigmatica ambiguità. La telecamera li coglie nei loro attimi più umani, mostrando le lacrime che tracciano i loro volti, il sangue che sgorga dai loro corpi, le lingue che si intrecciano durante i loro amplessi, e li cattura con spietata dolcezza, avvolgendoli in quei luoghi segreti e imperscrutabili.
Da sapiente cinéphile qual è, Guadagnino rielabora gli elementi formativi del più ricercato cinema d’autore plasmando una visione che, pur vivendo di forti suggestioni esterne, risulta profondamente personale. Sembra quasi che il regista voglia immettere una sorta di dialettica tra diverse influenze cinematografiche. Ad esempio, la sua istantanea e voluttuosa sensualità pare riallacciarsi a quella concupiscenza con cui Bertolucci osservava il reale, una sorta di «immagine erotica» condivisa. Inoltre, come in Bertolucci, Guadagnino è interessato all’evoluzione e non alla risoluzione della storia, all’indagine della chimica tra i personaggi e non alla loro semplice caratterizzazione. Il gusto pittorico e il placido svolgersi degli eventi ci riportano invece alle opere di Maurice Pialat, Éric Rohmer, Jacques Rivette, André Téchiné. Come questi grandi naturalisti francesi anche Guadagnino analizza i rapporti sentimentali e generazionali da un punto di vista simbolico-antropologico e assume una visione dell’uomo soverchiato da una natura che lo trascende, ma che gli concede momenti di illuminazione divina. Per raggiungere la propria catarsi i personaggi si devono liberare dall’incatenamento della civiltà e perdersi in un universo selvaggio e primordiale.
In determinate sequenze però Guadagnino abbandona il suo placido naturalismo per caricare l’azione di pathos. È così che, impiegando colori, luci, musica e movimenti di camera in funzione drammaturgica, il melodramma trionfa nella sua forma più elevata. Inoltre, come era per Douglas Sirk, sommo maestro del mélo hollywoodiano, anche Guadagnino tinge le sue opere di un lirismo romanzesco e sfrutta al meglio gli elementi di regia nella descrizione delle differenze culturali e sociali e nella raffigurazione psicologica dei conflitti sessuali soggiacenti. Questi drammi, all’apparenza pacati e contemplativi, nascondono, sotto la loro superficie, una natura disperata e furente.
La disamina della nevrosi borghese e dell’intellettualismo fine a se stesso è incarnata da figure di chabroliana memoria – come i componenti della famiglia Recchi in Io sono l’amore, i villeggianti o il poliziotto/fan di A Bigger Splash, la coppia di amici che in Call Me by Your Name discute di politica e cinema senza soluzione di continuità – che irrompendo sulla scena si contrappongono agli eterei e distaccati protagonisti. Per questi ruoli il regista chiama a se caratteristi impegnati, come Elena Bucci, Maria Paiato, Michael Stuhlbarg, Pippo Delbono, Amira Casar, o icone della storia del cinema, come il Gabriele Ferzetti de L’Avventura (1960), l’Aurore Clément di Les Rendez-vous d’Anna (1978) o la Marisa Berenson di Barry Lyndon (1975).
Il trittico sul desiderio e, più in generale, la filmografia di Guadagnino vivono quindi di un meraviglioso cortocircuito fra autenticità e ricostruzione, documentarismo e messa in scena. Una volta Andrè Bazin disse «il cinema sostituisce ai nostri occhi un mondo maggiormente in armonia con i nostri desideri»; con la sua poetica amara ma soave, terrena e spirituale assieme, Luca Guadagnino ha definito, con struggente precisione, tutta la crudeltà e la dolcezza del vivere.