di Omar Franini
NC-160
14.08.2023
“Nella mia immaginazione, voglio che voi siate arrabbiati e che facciate qualcosa di rivoluzionario con la vostra rabbia. Grazie Locarno.” Queste sono le parole conclusive del discorso di Sina Ataeian Dena, produttore di Critical Zone, salito sul palco lo scorso sabato per ritirare il Pardo d’Oro al miglior film. Il produttore era solo, poiché il regista Ali Ahmadzadeh non ha ricevuto il visto per uscire dall'Iran. La situazione che sta vivendo Ali non è per nulla una novità. I cineasti iraniani hanno sempre avuto difficoltà nel girare e promuovere film all’estero per via della cesura opprimente. Basta pensare a quello che era successo a Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof l’anno scorso. L'opposizione al regime ha da sempre portato questi registi a realizzare un cinema politico, in grado di criticare coloro che sono agli apici della società e denunciare il trattamento che riservano verso la popolazione. Critical Zone si inserisce in questo flusso, mostrando lo spaccato di un paese che deve sopravvivere e trovare stabilità e fiducia nelle istituzioni politiche.
Il film analizza tutto ciò attraverso il personaggio di Amir, uno spacciatore che vaga di notte e cerca di “aiutare” i propri clienti, non solo attraverso le sostanze stupefacenti che vende, ma fornendo loro anche un sostegno, una persona con cui confidarsi. Critical Zone è stato girato clandestinamente con una piccola crew, un cast formato da non attori e senza avere permessi specifici. Ma nonostante tutte le limitazioni, Ahmadzadeh ha diretto un’opera convincente quanto creativa, dove l’uso particolare dei colori e del suono aiutano a creare un’atmosfera allucinante, e a tratti surreale, che rispecchia lo stato confusionario e intossicante di Amir. Critical Zone è una visione intrigante e a tratti deprimente poiché rappresenta una realtà dove i narcotici sono diventati una delle poche ancore di salvezza per le giovani generazioni.
Do Not Expect Too Much From the End of the World, il nuovo magistrale film di Radu Jude vincitore del Premio Speciale della Giuria, è stato l’altro grande trionfatore della cerimonia. Come nei lavori precedenti, Jude dirige una storia dal tono provocatorio ed esilarante che riflette sulle ingiustizie della società rumena contemporanea. La prima parte del film segue Angela (Ilinca Manolache), un’assistente di produzione oberata di lavoro che è costretta a passare le proprie giornate tra le strade trafficate di Bucarest alla ricerca di operai infortunati per girare un video sulla sicurezza sul lavoro. In questa prima sezione, Jude mostra il suo estro e la sua capacità di utilizzare immagini e filmati d’archivio a proprio piacimento sovrapponendo le vicende della ragazza con delle sequenze di Angela merge mai departe (1981), film rumeno che racconta la storia di una tassista.
Una scelta ingegnosa che ha permesso al regista di compiere un affascinante parallelismo non solo sul mutamento del ruolo della donna nella società rumena, ma anche come questa sia cambiata, o no, nel corso degli anni. Questa prima parte non funzionerebbe senza l’incredibile contributo di Ilinca Manolache, la cui interpretazione è riuscita a rispecchiare a pieno il tono provocante, e a tratti bizzarro, della storia. Non si possono non citare infatti le innumerevoli scene dove Angela si trasforma in “Bobita”, alter ego maschilista e volgare che promuove la sua “amicizia” con Andrew Tate, con cui la protagonista si diverte a creare contenuti provocatori per i social media. Nel cast sono anche presenti Uwe Boll, in un esilarante cameo, e Nina Hoss, che interpreta il capo della multinazionale per cui Angela lavora, ruolo atipico per l’attrice tedesca che le ha permesso di esplorare il lato grottesco e deplorevole di un personaggio in maniera ironica.
Negli ultimi quaranta minuti il film prende una direzione diversa e mostra le riprese e la lavorazione di questo video sulla sicurezza. In questo segmento, Jude utilizza due piani fissi dove al centro del frame c’è l’operaio infortunato e la sua famiglia. Questi non riusciranno a raccontare la propria verità sull’incidente e verranno manipolati per far sì che l’azienda non abbia ripercussioni. Una sequenza snervante che racconta ancora una volta l’ipocrisia di una società pronta a trarre beneficio dalle persone più in difficoltà. Do Not Expect Too Much From the End of the World è una commedia brillante e complessa e verrà prossimamente distribuita in sala da I Wonder Pictures.
Il premio alla miglior regia è stato vinto da Maryna Vroda per Stepne, opera prima ambientata in un villaggio ucraino, che racconta il ritorno a casa di un uomo per prendersi cura della madre morente. La cineasta ha ritirato il premio e fatto un discorso davvero commovente di denuncia contro le atrocità della guerra ricordando persone che hanno lavorato al film e che sono morte per via del conflitto russo-ucraino. Un premio speciale della giuria è stato assegnato anche a Nuit obscure - Au revoir ici, n’importe où di Sylvaine George, seconda parte di un progetto dove il documentarista francese segue la vita di alcuni giovani che vivono a Melilla, enclave spagnola in Marocco. Questa zona rappresenta una speranza, una via d’uscita per un futuro migliore e per un possibile nuovo inizio in Europa.
Come nel precedente film, George, riprendendo la quotidianità di queste persone, esamina una realtà che raramente viene mostrata, mettendo in evidenza l’insicurezza, le paure e le difficoltà che questi ragazzi affrontano. Non hanno privilegi, hanno perso la loro identità sociale e sono costretti a creare un proprio mondo che va oltre qualsiasi barriera geopolitica, un posto dove vivono come creature notturne e hanno completa “libertà”. Ma non hanno perso la fiducia in un futuro più luminoso e George abilmente non si concentra infatti sul lato più misero della loro esistenza, ma crea un affascinante ritratto poetico di questa perseveranza e voglia di vivere.
I due premi per la miglior interpretazione hanno stupito il pubblico presente alla cerimonia. Non perché le due attrici vincitrici non siano state meritevoli, ma per il fatto che quest’anno, la giuria del Festival di Locarno non ha fatto né distinzioni di genere né di “categoria”, in quanto una delle due interpreti ha un ruolo secondario. Una scelta da lodare, che dovrebbe essere intrapresa anche dagli altri grandi festival europei. La prima vincitrice è stata Renée Soutendijk per Sweet Dreams di Ena Sendijarević, opera seconda della regista ambientata in Indonesia alla fine 1800 e che segue le vicende attorno a una piantagione di zucchero olandese. L’attrice veterana, conosciuta per le collaborazioni con Paul Verhoeven in Spetters (1980) e Il Quarto Uomo (1983), interpreta Agathe, la moglie del proprietario della piantagione e, nonostante sia un ruolo secondario, l’attrice è in grado di rubare la scena ogni volta che appare sullo schermo. Quello che rende la sua interpretazione lodevole è il modo in cui riesce a rappresentare la natura duale della donna nei confronti dei locali che lavorano per lei. Il personaggio è infatti co-dipendente da queste persone che sono essenziali nella sua quotidianità, ma mostra lo stesso un certo disdegno e una presunta superiorità di fronte ad essi.
Grazie al suo struggente ritratto di un’animatrice in un villaggio turistico, Dimitra Vlagopoulou ha invece vinto il secondo premio per la recitazione in Animal di Sofia Exarchou. L’opera prima della regista è un character study più che solido che analizza il mondo del turismo attraverso il punto di vista di Kalia, trentacinquenne che si rende conto di aver buttato via gli anni più preziosi della sua vita. Questo punto di svolta arriva quando Eva, una giovane diciottenne comincia a lavorare anche lei come animatrice. Kalia rivede se stessa in questa ragazza capendo gli errori commessi . La solitudine e i sensi di colpa iniziano ad accumularsi, ma la donna non può fermarsi e reprime le proprie emozioni fino a non riuscire più a sopportare quello che sta facendo. Questa caratteristica è evidenziata da Vlagopoulou in due sequenze chiave dove Kalia canta la canzone Yes Sir, I Can Boogie di Baccara. Nella prima scena si vede tutto l’entusiasmo della donna, ma nella seconda, l’attrice è sensazionale a mostrare il breakdown emotivo del personaggio sul palco. Il cambio di voce, lo sguardo perso, disperato, e in cerca di aiuto sono perfettamente messi in risalto.
Nonostante la scelta dei vincitori ci abbia soddisfatto, è doveroso citare qualche film che è stato snobbato. Il primo è La imatge permanent di Laura Ferrés, che racconta la storia di Carmen, una casting director che sta esplorando delle aree rurali spagnole alla ricerca del giusto interprete per un nuovo progetto a cui sta lavorando. Durante questo processo, incontrerà Antonia, una donna che ha una storia complessa dietro alle spalle. Nonostante l’intenzione di Ferrés risulti ovvia verso la metà del film e il climax emotivo scontato, la regista stupisce per il modo toccante in cui racconta la sua storia. Ferrés utilizza la relazione principale per compiere un’interessante analisi sul rapporto tra fotografo e soggetto. Carmen, infatti, sta cercando il volto perfetto, una persona che possa rispecchiare appieno le sue esigenze e che abbia una certa umanità, dettaglio esplorato da Ferrés quando inserisce una sequenza dove vengono fatti vedere dei volti alla protagonista. La imatge permanent ha una storia semplice alla base, ma il modo naturale e complesso con cui riesce a raccontare la condizione dei propri personaggi ci ha affascinato.
The Invisible Fight di Reiner Sarnet è stata invece una delle visioni che ci ha intrattenuto di più, un omaggio al cinema Kung Fu caratterizzato dallo scontro tra l’eroe e i propri nemici tramite tecniche ispirate alle arti marziali. Ambientato in Estonia negli anni ‘70, il film ha come protagonista Rafael, ragazzo appassionato di Heavy Metal che stava facendo il servizio militare sul confine tra Cina e URRS, che una sera rimane vittima di un attacco nemico a colpi di Kung-Fu. Una volta ripresosi dagli infortuni il ragazzo cercherà di tornare alla normalità, ma un giorno si troverà casualmente in un monastero ortodosso dove risiedono dei dissidenti che, oltre alle preghiere quotidiane, praticano le arti marziali. Il ragazzo cercherà così di entrare a fare parte di questo gruppo di monaci-combattenti. Rainer Sernet, cineasta riconosciuto per l’horror folkloristico November (2017), dirige un’opera divertente ed eclettica, con la quale riesce a portare avanti un discorso sulla fede. Tra i combattimenti e la musica dei Black Sabbath, il film di Sernet è risultato essere una piacevole sorpresa.
Concludiamo parlando di El Auge del Humano 3 di Eduardo Williams, opera immersiva ed ipnotica che trasporta lo spettatore tra Perù, Sri Lanka e Taiwan, posizionandolo al centro di un caleidoscopio di immagini e sequenze che non seguono una struttura narrativa lineare. Riprendendo diversi gruppi di persone che appartengono a differenti realtà socioculturali, il cineasta porta avanti un discorso sull’alienazione e la perdita di identità delle giovani generazioni. Questa connessione rimane sempre criptica, non decifrabile, legata al flusso di immagini che appaiono sullo schermo.
Williams, infatti, deforma, sovrappone e “manipola” i frame a proprio piacimento per mostrare la condizione dei personaggi. Questo approccio innovativo è stato possibile grazie all’utilizzo di una telecamera panoramica a 360° dotata di otto lenti. Questo tipo di tecnologia viene spessa adoperata per catturare le immagini in movimento per i progetti VR, ma in questo caso Williams lavora sul decentramento dell’obiettivo per creare delle sequenze indimenticabili.
di Omar Franini
NC-160
14.08.2023
“Nella mia immaginazione, voglio che voi siate arrabbiati e che facciate qualcosa di rivoluzionario con la vostra rabbia. Grazie Locarno.” Queste sono le parole conclusive del discorso di Sina Ataeian Dena, produttore di Critical Zone, salito sul palco lo scorso sabato per ritirare il Pardo d’Oro al miglior film. Il produttore era solo, poiché il regista Ali Ahmadzadeh non ha ricevuto il visto per uscire dall'Iran. La situazione che sta vivendo Ali non è per nulla una novità. I cineasti iraniani hanno sempre avuto difficoltà nel girare e promuovere film all’estero per via della cesura opprimente. Basta pensare a quello che era successo a Jafar Panahi e Mohammad Rasoulof l’anno scorso. L'opposizione al regime ha da sempre portato questi registi a realizzare un cinema politico, in grado di criticare coloro che sono agli apici della società e denunciare il trattamento che riservano verso la popolazione. Critical Zone si inserisce in questo flusso, mostrando lo spaccato di un paese che deve sopravvivere e trovare stabilità e fiducia nelle istituzioni politiche.
Il film analizza tutto ciò attraverso il personaggio di Amir, uno spacciatore che vaga di notte e cerca di “aiutare” i propri clienti, non solo attraverso le sostanze stupefacenti che vende, ma fornendo loro anche un sostegno, una persona con cui confidarsi. Critical Zone è stato girato clandestinamente con una piccola crew, un cast formato da non attori e senza avere permessi specifici. Ma nonostante tutte le limitazioni, Ahmadzadeh ha diretto un’opera convincente quanto creativa, dove l’uso particolare dei colori e del suono aiutano a creare un’atmosfera allucinante, e a tratti surreale, che rispecchia lo stato confusionario e intossicante di Amir. Critical Zone è una visione intrigante e a tratti deprimente poiché rappresenta una realtà dove i narcotici sono diventati una delle poche ancore di salvezza per le giovani generazioni.
Do Not Expect Too Much From the End of the World, il nuovo magistrale film di Radu Jude vincitore del Premio Speciale della Giuria, è stato l’altro grande trionfatore della cerimonia. Come nei lavori precedenti, Jude dirige una storia dal tono provocatorio ed esilarante che riflette sulle ingiustizie della società rumena contemporanea. La prima parte del film segue Angela (Ilinca Manolache), un’assistente di produzione oberata di lavoro che è costretta a passare le proprie giornate tra le strade trafficate di Bucarest alla ricerca di operai infortunati per girare un video sulla sicurezza sul lavoro. In questa prima sezione, Jude mostra il suo estro e la sua capacità di utilizzare immagini e filmati d’archivio a proprio piacimento sovrapponendo le vicende della ragazza con delle sequenze di Angela merge mai departe (1981), film rumeno che racconta la storia di una tassista.
Una scelta ingegnosa che ha permesso al regista di compiere un affascinante parallelismo non solo sul mutamento del ruolo della donna nella società rumena, ma anche come questa sia cambiata, o no, nel corso degli anni. Questa prima parte non funzionerebbe senza l’incredibile contributo di Ilinca Manolache, la cui interpretazione è riuscita a rispecchiare a pieno il tono provocante, e a tratti bizzarro, della storia. Non si possono non citare infatti le innumerevoli scene dove Angela si trasforma in “Bobita”, alter ego maschilista e volgare che promuove la sua “amicizia” con Andrew Tate, con cui la protagonista si diverte a creare contenuti provocatori per i social media. Nel cast sono anche presenti Uwe Boll, in un esilarante cameo, e Nina Hoss, che interpreta il capo della multinazionale per cui Angela lavora, ruolo atipico per l’attrice tedesca che le ha permesso di esplorare il lato grottesco e deplorevole di un personaggio in maniera ironica.
Negli ultimi quaranta minuti il film prende una direzione diversa e mostra le riprese e la lavorazione di questo video sulla sicurezza. In questo segmento, Jude utilizza due piani fissi dove al centro del frame c’è l’operaio infortunato e la sua famiglia. Questi non riusciranno a raccontare la propria verità sull’incidente e verranno manipolati per far sì che l’azienda non abbia ripercussioni. Una sequenza snervante che racconta ancora una volta l’ipocrisia di una società pronta a trarre beneficio dalle persone più in difficoltà. Do Not Expect Too Much From the End of the World è una commedia brillante e complessa e verrà prossimamente distribuita in sala da I Wonder Pictures.
Il premio alla miglior regia è stato vinto da Maryna Vroda per Stepne, opera prima ambientata in un villaggio ucraino, che racconta il ritorno a casa di un uomo per prendersi cura della madre morente. La cineasta ha ritirato il premio e fatto un discorso davvero commovente di denuncia contro le atrocità della guerra ricordando persone che hanno lavorato al film e che sono morte per via del conflitto russo-ucraino. Un premio speciale della giuria è stato assegnato anche a Nuit obscure - Au revoir ici, n’importe où di Sylvaine George, seconda parte di un progetto dove il documentarista francese segue la vita di alcuni giovani che vivono a Melilla, enclave spagnola in Marocco. Questa zona rappresenta una speranza, una via d’uscita per un futuro migliore e per un possibile nuovo inizio in Europa.
Come nel precedente film, George, riprendendo la quotidianità di queste persone, esamina una realtà che raramente viene mostrata, mettendo in evidenza l’insicurezza, le paure e le difficoltà che questi ragazzi affrontano. Non hanno privilegi, hanno perso la loro identità sociale e sono costretti a creare un proprio mondo che va oltre qualsiasi barriera geopolitica, un posto dove vivono come creature notturne e hanno completa “libertà”. Ma non hanno perso la fiducia in un futuro più luminoso e George abilmente non si concentra infatti sul lato più misero della loro esistenza, ma crea un affascinante ritratto poetico di questa perseveranza e voglia di vivere.
I due premi per la miglior interpretazione hanno stupito il pubblico presente alla cerimonia. Non perché le due attrici vincitrici non siano state meritevoli, ma per il fatto che quest’anno, la giuria del Festival di Locarno non ha fatto né distinzioni di genere né di “categoria”, in quanto una delle due interpreti ha un ruolo secondario. Una scelta da lodare, che dovrebbe essere intrapresa anche dagli altri grandi festival europei. La prima vincitrice è stata Renée Soutendijk per Sweet Dreams di Ena Sendijarević, opera seconda della regista ambientata in Indonesia alla fine 1800 e che segue le vicende attorno a una piantagione di zucchero olandese. L’attrice veterana, conosciuta per le collaborazioni con Paul Verhoeven in Spetters (1980) e Il Quarto Uomo (1983), interpreta Agathe, la moglie del proprietario della piantagione e, nonostante sia un ruolo secondario, l’attrice è in grado di rubare la scena ogni volta che appare sullo schermo. Quello che rende la sua interpretazione lodevole è il modo in cui riesce a rappresentare la natura duale della donna nei confronti dei locali che lavorano per lei. Il personaggio è infatti co-dipendente da queste persone che sono essenziali nella sua quotidianità, ma mostra lo stesso un certo disdegno e una presunta superiorità di fronte ad essi.
Grazie al suo struggente ritratto di un’animatrice in un villaggio turistico, Dimitra Vlagopoulou ha invece vinto il secondo premio per la recitazione in Animal di Sofia Exarchou. L’opera prima della regista è un character study più che solido che analizza il mondo del turismo attraverso il punto di vista di Kalia, trentacinquenne che si rende conto di aver buttato via gli anni più preziosi della sua vita. Questo punto di svolta arriva quando Eva, una giovane diciottenne comincia a lavorare anche lei come animatrice. Kalia rivede se stessa in questa ragazza capendo gli errori commessi . La solitudine e i sensi di colpa iniziano ad accumularsi, ma la donna non può fermarsi e reprime le proprie emozioni fino a non riuscire più a sopportare quello che sta facendo. Questa caratteristica è evidenziata da Vlagopoulou in due sequenze chiave dove Kalia canta la canzone Yes Sir, I Can Boogie di Baccara. Nella prima scena si vede tutto l’entusiasmo della donna, ma nella seconda, l’attrice è sensazionale a mostrare il breakdown emotivo del personaggio sul palco. Il cambio di voce, lo sguardo perso, disperato, e in cerca di aiuto sono perfettamente messi in risalto.
Nonostante la scelta dei vincitori ci abbia soddisfatto, è doveroso citare qualche film che è stato snobbato. Il primo è La imatge permanent di Laura Ferrés, che racconta la storia di Carmen, una casting director che sta esplorando delle aree rurali spagnole alla ricerca del giusto interprete per un nuovo progetto a cui sta lavorando. Durante questo processo, incontrerà Antonia, una donna che ha una storia complessa dietro alle spalle. Nonostante l’intenzione di Ferrés risulti ovvia verso la metà del film e il climax emotivo scontato, la regista stupisce per il modo toccante in cui racconta la sua storia. Ferrés utilizza la relazione principale per compiere un’interessante analisi sul rapporto tra fotografo e soggetto. Carmen, infatti, sta cercando il volto perfetto, una persona che possa rispecchiare appieno le sue esigenze e che abbia una certa umanità, dettaglio esplorato da Ferrés quando inserisce una sequenza dove vengono fatti vedere dei volti alla protagonista. La imatge permanent ha una storia semplice alla base, ma il modo naturale e complesso con cui riesce a raccontare la condizione dei propri personaggi ci ha affascinato.
The Invisible Fight di Reiner Sarnet è stata invece una delle visioni che ci ha intrattenuto di più, un omaggio al cinema Kung Fu caratterizzato dallo scontro tra l’eroe e i propri nemici tramite tecniche ispirate alle arti marziali. Ambientato in Estonia negli anni ‘70, il film ha come protagonista Rafael, ragazzo appassionato di Heavy Metal che stava facendo il servizio militare sul confine tra Cina e URRS, che una sera rimane vittima di un attacco nemico a colpi di Kung-Fu. Una volta ripresosi dagli infortuni il ragazzo cercherà di tornare alla normalità, ma un giorno si troverà casualmente in un monastero ortodosso dove risiedono dei dissidenti che, oltre alle preghiere quotidiane, praticano le arti marziali. Il ragazzo cercherà così di entrare a fare parte di questo gruppo di monaci-combattenti. Rainer Sernet, cineasta riconosciuto per l’horror folkloristico November (2017), dirige un’opera divertente ed eclettica, con la quale riesce a portare avanti un discorso sulla fede. Tra i combattimenti e la musica dei Black Sabbath, il film di Sernet è risultato essere una piacevole sorpresa.
Concludiamo parlando di El Auge del Humano 3 di Eduardo Williams, opera immersiva ed ipnotica che trasporta lo spettatore tra Perù, Sri Lanka e Taiwan, posizionandolo al centro di un caleidoscopio di immagini e sequenze che non seguono una struttura narrativa lineare. Riprendendo diversi gruppi di persone che appartengono a differenti realtà socioculturali, il cineasta porta avanti un discorso sull’alienazione e la perdita di identità delle giovani generazioni. Questa connessione rimane sempre criptica, non decifrabile, legata al flusso di immagini che appaiono sullo schermo.
Williams, infatti, deforma, sovrappone e “manipola” i frame a proprio piacimento per mostrare la condizione dei personaggi. Questo approccio innovativo è stato possibile grazie all’utilizzo di una telecamera panoramica a 360° dotata di otto lenti. Questo tipo di tecnologia viene spessa adoperata per catturare le immagini in movimento per i progetti VR, ma in questo caso Williams lavora sul decentramento dell’obiettivo per creare delle sequenze indimenticabili.