INT-40
03.07.2023
Il cinema di Cristian Mungiu è sempre stato caratterizzato da storie che compiono una complessa, e a tratti provocante, riflessione sui problemi sociali e politici della Romania dopo l’era comunista. Questi tratti hanno reso il cineasta non solo uno dei maggiori esponenti della new wave rumena, ma anche uno delle voci più interessanti e rinomate del panorama cinematografico europeo degli ultimi vent’anni.
Prima di parlare di Animali Selvatici, suo quinto lungometraggio, ripercorriamo brevemente la sua carriera e le sue opere principali. Il suo primo film è stato Occident (2002), dove il cineasta ha analizzato le tematiche dell’isolamento, dell’amore e della ricerca del proprio posto nella società nell'era post-comunista, attraverso una struttura episodica. Ma è con il suo secondo lungometraggio che Mungiu ha avuto il suo breakout internazionale. 4 Mesi, 3 Settimane e 2 Giorni si aggiudicò la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2007, ed è ancora oggi uno dei film più acclamati degli anni duemila. Ambienta negli anni ‘80, l’opera seguiva le vicende di due ragazze, di cui una rimasta incinta, che cercano aiuto per abortire illegalmente. Il film è uno struggente ritratto sull’amicizia, la fiducia e il costo della vita umana in una società opprimente. Cinque anni dopo, il regista ritorna a Cannes con Oltre le Colline (2012), film che racconta la storia di una giovane ragazza che sta cercando di convincere l’amica a lasciare il monastero in cui vive, ma il suo tentativo di intervenire sulle pratiche religiose della comunità porterà a gravi conseguenze. Il cineasta si aggiudicò il premio alla miglior sceneggiatura per la sua intricata analisi sulla fede, sulle istituzioni religiose e sul conflitto tra modernità e tradizione. Con Un Padre, Una Figlia (2016), la sua quarta pellicola vincitrice del premio alla miglior regia al Festival di Cannes, Mungiu si sposta in Transilvania e, attraverso la figura del protagonista Romeo - un dottore determinato a tutto pur di far ammettere la figlia in una prestigiosa università britannica - esamina la corruzione e i sacrifici che una persona deve compiere per arrivare al proprio obiettivo.
Lo scorso anno, Mungiu ha presentato a Cannes Animali Selvatici, seconda opera ambientata in Transilvania. Al centro della storia c’è Matthias (Marin Grigore), operaio che lavora in Germania e che si vede costretto tornare a casa dopo che il figlio ha assistito ad un episodio traumatico. Una volta arrivato, l’uomo cercherà non solo di stare accanto al bambino, educandolo e insegnandogli come “sopravvivere”, ma si prenderà anche cura del padre anziano. Durante questo periodo inizierà inoltre una liaison con Csilla (Judith State), responsabile della fabbrica locale. La pace della comunità verrà disturbata quando la donna prenderà la decisione di assumere tre immigrati dallo Sri-Lanka. Con Animali Selvatici, Mungiu porta sullo schermo un’ affascinante rappresentazione di un microcosmo che mima le dinamiche geopolitiche europee xenofobe. Infatti, il cineasta analizza le motivazioni che portano a tale comportamento e dimostra che ciò non dipende per forza dall’ambiente che ci circonda, ma dagli istinti animaleschi più bui della nostra persona.
Animali Selvatici è un’opera imperdibile e fondamentale di cui consigliamo ampiamente la visione. Il film arriverà nelle nostre sale il 6 Luglio con BiM Distribuzione e, per l’occasione, Cristian Mungiu ha intrapreso un breve tour in Italia per presentare il film. Durante l’ultima tappa a Milano, abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista. Davanti a noi si è presentata una persona cordiale e disponibile, che ci ha raccontato nel dettaglio alcuni aspetti della lavorazione del film, il significato di alcune sequenze e come “orchestrare” gli attori sul set.
Com’è andato questo tour di presentazione in Italia? Ti senti soddisfatto delle reazioni del pubblico?
Domanda davvero interessante. Beh, è un’esperienza magnifica ad essere sincero. Non so se riuscirò a riportare il grande pubblico in sala, ma sto provando a fare del mio meglio. Oggi non basta soltanto organizzare la proiezione di un film, soprattutto perché la gente può vedere così tanti film comodamente a casa e, dall’inizio della pandemia, si sta perdendo l’abitudine di vederli sul grande schermo. E facendo così, le persone hanno iniziato a pretendere troppo da un film, dovrebbe essere “tondo, quadro, alto, bello,… e d’intrattenimento”. Dedico molto tempo alla lavorazione dei miei film, di solito un paio di anni, e voglio che vengano viste. Di solito, per promuovere i miei film faccio qualche intervista e partecipo a delle premiere nazionali nelle capitali, ma con Animali Selvatici abbiamo deciso di adoperare un’altra strategia di promozione. Ho fatto la mia parte, ho dedicato il mio tempo per incontrare te e il pubblico in sala. Se poi la gente non andrà al cinema a vedere il film la capirò benissimo, ma almeno ho fatto la mia parte. Comunque, durante le varie proiezioni sono sorte delle conversazioni piuttosto interessanti, per me è importante perché se faccio cinema è anche per questa motivazione: avere l’occasione di dialogare con un pubblico e incoraggiarlo a riflettere su quello che vede. Ho incontrato questa ragazzo in una proiezione che voleva avere delle “risposte” sulla storia e sul finale e gli ho detto che il film riguardava lui stesso, su cosa sta succedendo attorno a noi e su come bisogna prendere una posizione in certe situazioni. E se dici questo ad un pubblico, loro inizieranno a pensare al film in maniera differente. Inoltre, devo dirti che amo l’Italia, l’opportunità di muoversi da città a città e incontrare così tanta gente era così allettante che ho accettato.
Passando al film, ho visto Animali Selvatici per la prima volta l’anno scorso al Festival di Cannes e, durante la conferenza stampa, ti avevo chiesto del finale. Dopo la domanda mi sono sentito un po’ imbarazzato, perché non si dovrebbe chiedere una spiegazione diretta sulla sequenza conclusiva. (Possibili spoiler nella risposta, n.d.r.)
Normalmente non dovresti chiedere spiegazioni sul finale perché dovrebbe essere abbastanza chiaro. Se non lo è, in qualche modo è colpa mia. Quindi, non c’è nulla di sbagliato a chiedere qualche delucidazione. A questo punto, però, posso dirti quale era il mio intento nella sequenza. Per me, l’intero film è il percorso di un personaggio che crede che ci sia qualcosa di sbagliato nel mondo che lo circonda e come questo sta evolvendo. Lo stress e l’angoscia stanno prendendo il sopravvento e non sa come “preparare” il figlio per il futuro che lo aspetta. Più ci si avvicina alla fine della storia, più il personaggio capisce che l’origine di questo “male” attorno a sé non riguarda quello che lo circonda, ma quello che lui prova internamente. Più nello specifico, c’è questo momento nel film, quando il padre muore e il cane inizia ad abbaiare, dove Matthias sente che questa “presenza”, se così posso definirla, gli è vicina. In seguito, inizia ad andare a trovare le persone che più gli stanno a cuore per vedere se stanno bene, come il figlio e la moglie. A un certo punto inizia a sentire dei rumori e questo “male” inizia a prendere forma, Matthias inizia a seguire questa presenza e viene portato all’interno dell’abitazione degli stranieri, in un luogo che non sembra ben definito. Sente delle urla dal villaggio e poi continua il suo “viaggio”. Qui si può notare il vantaggio di fare un film seguendo punti di vista soggettivi. Lui sa quello che gli sta accadendo e Csilla sa cosa le sta accadendo, ma tu come spettatore hai una visione sull’insieme dei due personaggi e su cosa sta succedendo ad entrambi . Sei in una posizione migliore rispetto a loro per capire e avere un’idea sul perché lei alla fine gli dice “perdonami”, ad esempio. Lui non sa le motivazioni, però lo spettatore potrebbe tornare indietro nel film e pensare al perché di tali parole. In quel preciso momento, Matthias capisce che la fonte del “male” potrebbe essere al suo interno. Questo rappresenta anche la natura dualistica del nostro essere, da una parte c’è la nostra capacità di provare empatia, ma dall’altra c’è la parte più “animalesca” che segue gli istinti e impulsi più bui che vengono dal nostro subconscio. Lui è in mezzo a questi due mondi e ha capito che deve prendere una decisione, anche nelle situazioni più inaspettate, come quando gli appare l’orso. Mi sono impegnato molto per il finale, volevo incorporare due idee. Da una parte il concetto di questa foresta, sconfinata, buia e senza una struttura precisa, che circonda il villaggio. È una rappresentazione del nostro subconscio e di certe paure di cui non sappiamo la provenienza. La seconda idea riguarda il personaggio di Csilla, al termine del film si rende conto che se una persona rimane in disparte e non ha una posizione su ciò che sta accadendo, potrebbe essere non “colpevole”, ma pur sempre responsabile di quella situazione. Lei lascia Matthias perché non vuole prendere una posizione, ed è soltanto allora che, finalmente, lui capisce che deve fare qualcosa ed essere coinvolto nella situazione.
Nel film, infatti, c’è questo bel contrasto tra i personaggi di Csilla e Matthias, da una parte la compassione e l’empatia verso il prossimo della donna, dall’altra la brutalità animalesca dell’uomo. Questa opposizione è mostrata egregiamente dai protagonisti Judith State e Marin Grigore, volevo chiederti qualcosa sul casting dei due attori, soprattutto perché la recitazione nelle tue opere è sempre di altissimo livello.
Prima di rispondere, voglio aggiungere qualcosa sui due protagonisti. Anche se sono molto diversi tra loro, sono accomunati dallo stesso bisogno di affetto e intimità. È qualcosa che abbiamo tutti dentro, anche se esteriormente possiamo sembrare irrazionali e irascibili. Una volta scelti gli attori, abbiamo parlato di come, di solito, instauriamo dei rapporti speciali con persone che abbiamo conosciuto quando eravamo giovani. Se un giorno rincontrerai il tuo primo amore delle superiori, ad esempio, non vedrai quella persona per ciò che è oggi, la vedrai sempre come il tuo primo, irrazionale, amore delle superiori. Ed è questo uno dei tratti chiave per capire il rapporto tra Matthias e Csilla. Il casting di Judith è stato più semplice, conoscevo già l’attrice e avevo lavorato con lei in due film che ho prodotto, 6.9 pe scara Richter (2016) di Nae Caranfil e Il padre che smuove le montagne (2021) di Daniel Sandu, dove aveva il ruolo femminile più importante. Per i protagonisti di Animali Selvatici avevo bisogno di attori bilingui. Ho sempre avuto in mente Judith, già da quando stavo scrivendo il film, lei riesce sempre a interpretare i suoi personaggi in una maniera talmente naturale che sembra che non stia recitando. Inoltre è bilingue e ha questa “energia” che corrisponde a quella del personaggio. Per quanto riguarda Matthias, il casting è stato più complesso. Ho cercato attori di etnia tedesca che vivono in Romania, ma non riuscivo a trovare l’interprete giusto per il ruolo. In seguito ho cercato tra gli attori rumeni che sapevano parlare tedesco ed ho scelto Marin Grigore. Come con Judith, avevo già lavorato con lui in precedenza, avevamo fatto dei commercial assieme. Il suo body language è molto espressivo, ha una corporatura grossa ed è in grado di esprimere la timidezza, la violenza e il lato tenero dei propri personaggi tutto allo stesso tempo. Una volta scelti Marin e Judith, dovevo vedere se funzionavano bene insieme. Si conoscevano e avevano già recitato insieme precedentemente (in Sieranevada, film del 2016 di Cristi Puiu, n.d.r.), quindi sono stato piuttosto fortunato. Abbiamo trascorso del tempo insieme sul set, che era fuori da Bucharest, questo li ha portati fuori dal loro habitat e gli ha permesso di entrare più in sintonia con i loro personaggi.
Ora vorrei entrare più nello specifico parlando di due sequenze che mi hanno colpito. La prima è forse la scena più rinomata del film, il piano fisso, di diciassette minuti, sul dibattito al municipio. La seconda è una scena dove i personaggi stanno cenando nella prima metà del film. Quello che mi ha colpito in quest’ultima è il personaggio di Ana, durante tutta la sequenza sembra quasi che stia evitando il contatto visivo con Csilla, dettaglio che ritengo molto interessante.
La scena della cena è stata più difficile di quella del comune. Abbiamo dovuto fare più riprese perché c’è una coreografia precisa che ogni personaggio deve rispettare. E ogni volta c’era qualche piccolo dettaglio che bisognava aggiustare. Ogni attore aveva la propria coreografia da imparare e doveva sapere cosa fare quando parlava e non. Questo perché lavoro attraverso dei master plan, voglio intervenire il meno possible sulla scena in fase di montaggio, e per far si che ciò funzioni ogni dettaglio deve essere curato alla perfezione. Versare l’acqua, mangiare un boccone, parlare con gli altri… ogni movimento deve essere preciso, anche il modo in cui sono posizionati i piatti sulla tavola. È un processo complicato, ma una volta che il cast capisce la “routine”, iniziano a pensare a ciò che non pensano, a esprimere e mimare ciò che non dicono. All’inizio gli attori sono un po’ stressati perché ragionano in continuazione su cosa devono dire e fare, per questo faccio dieci, venti, trenta, quaranta riprese se necessario, fino a quando non si sentono stanchi. Una volta capita la situazione, iniziano a fare certi gesti automaticamente e iniziano a esprimere diverse cose. È un approccio che reputo interessante, sembra semplice detto così a parole, ma è davvero difficile da mettere in pratica, sia per me, che per gli attori.
Per quanto riguarda la scena del municipio, l’ho vista più volte perché volevo concentrarmi su diversi personaggi. In essa viene messo in evidenza il dramma personale tra Matthias e Csilla, ma dietro di loro c’è tutto il dibattito sugli stranieri.
Quello che mi piace di queste scene è che innanzitutto devi istruire e spiegare agli attori su cosa devono fare quando non parlano. Quando parlano è più semplice, preparano il loro dialogo e dipendono da questo e dalla loro attitudine. Ma in questa scena di diciassette minuti, la maggior parte dei personaggi ha solo un paio di battute. Quindi, bisogna parlare con ogni singolo attore e spiegare cosa sta accadendo e che deve reagire come il personaggio che sta interpretando. Ci sono state innumerevoli difficoltà. Avevo ventisei pagine di dialogo, quando stavo scrivendo la sceneggiatura sapevo che questa scena sarebbe stata un unico piano fisso, ma non sapevo come l’avrei girata. Una volta sul set, ho capito che c’era un problema, quando scrivi una scena, scrivi una battuta del dialogo dopo l’altra e in questa sequenza si hanno più personaggi che parlano contemporaneamente. Prima di iniziare a girare, ho deciso di unire le prime sette pagine di dialogo con quelle successive perché le persone sedute di fronte, che parlavano durante l’assemblea, non si sarebbero “fermate” durante le brevi interazioni tra Csilla e Matthias. Anzi, era importante mostrare come queste persone non erano presenti perché, in quella sequenza, a Matthias interessa soltanto risolvere la questione personale con Csilla. Come dire agli attori come comportarsi in quegli istanti è stato complicato, come lo è stato mixare il sonoro in fase di montaggio. Tu non puoi capire le difficoltà di quel periodo, non solo per il cast, ma anche per il Covid (il tono di voce del regista si intristisce, n.d.r.). Il nostro ingegnere sonoro, davanti a questa scena, aveva detto “se riesco a fare questo, riuscirò a fare qualsiasi cosa” e… si è beccato il Covid due giorni dopo. Ho dovuto ingaggiare tre ingegneri sonori per la scena, avevamo ventisei microfoni nascosti sul set e ogni attore era collegato. Poi abbiamo iniziato a fare delle prove con il gruppo di persone dall’altra parte della telecamera. Ma c’era anche il problema di come posizionare tutti i personaggi nella scena, dovevo trovare la posizione esatta per la camera in modo che potessi vedere una quindicina di persone in piedi in secondo piano e, allo stesso tempo, creare l’idea che questa sequenza è percepita dai due personaggi principali. All’inizio ho “posizionato” loro due e in seguito tutti gli altri, poi ho capito che alcuni personaggi sarebbero stati dietro la camera e, per un attore, essere in una scena di diciassette minuti dietro la camera può essere piuttosto difficile. Per dare una prospettiva agli interpreti, e per fargli capire che erano nel film, ho deciso di creare questo muro di specchi nella parte inferiore della stanza, così sapevano di essere “presenti” nell'inquadratura. Inoltre, ho deciso di mettere una seconda telecamera apposta per loro, come se un giornalista stesse riprendendo la scena sul momento. Gli attori sapevano che non avrei mai usato quel materiale, ma li ha aiutati a concentrarsi. Poi c’era il problema del focus, chi era il personaggio principale della scena? Quale punto di vista seguire? Abbiamo persone che parlano ovunque, e non potevo concentrarmi sulla prospettiva di ognuna di loro, quindi ho deciso che il focus sarebbe stato su Csilla. Se questa parlava, l'obiettivo era su di lei, se lei guardava un personaggio che stava parlando, il focus era su questi e così via. Dopo aver delineato la posizione dei personaggi principali, bisognava pensare alle comparse. Avevo solo due giorni per girare la scena ed è stato un disastro… non riuscivo a superare il quinto minuto della sequenza . È stato difficile per gli attori trovare il giusto ritmo e momento per “interferire” nella scena, tutto doveva essere preciso. Il primo giorno è stato una catastrofe, ho radunato tutti spiegandogli che ci saremmo dovuti impegnare di più. Gli ho detto di concentrarsi e che dovevano imparare le battute alla perfezione. Sono molto affezionato agli attori con cui lavoro e non li rimprovero mai. Il giorno dopo abbiamo ricominciato, ma c’era qualcosa che non funzionava. I figuranti si sentivano stanchi, e si vedeva che le loro reazioni non erano naturali e consone con i personaggi, e ciò danneggiava anche gli attori principali. Sono andato da loro e gli ho detto: “Oggi voi non siete delle semplici comparse, siete dei veri attori, fate parte di questo personaggio collettivo, siate liberi e reagite come credete sia più giusto.” Si era creata una situazione caotica all’inizio perché tutti urlavano (il regista ride, n.d.r.), mi sono messo dietro alla camera e indicavo il “livello” del tono di reazione per ogni singolo personaggio. Stavo dirigendo la scena in maniera coreografica, come un direttore d’orchestra. Pian piano abbiamo trovato il ritmo giusto e sono riuscito a girare due/tre take che mi hanno convinto. Anche il lavoro in postproduction è stato piuttosto complesso, durante le riprese non potevo ascoltare venticinque microfoni contemporaneamente, ma soltanto cinque. Quando ho iniziato a sentire gli altri, mi sono accorto che c’erano dei commenti davvero interessanti. Il lavoro sul sound mixing è stato importante. Abbiamo fatto una ventina di riprese e, siccome la scena era piuttosto lunga e avevo sempre così tante osservazioni da fare, era difficile per me ricordare tutto. Dovevo sempre riguardare la scena e prendere appunti su ciò che non funzionava. È stato difficile, ma alla fine ci siamo riusciti.
Nel film hai utilizzato Yumeji’s Theme, il leitmotiv di In The Mood For Love (2000), come mai questa scelta?
Ho utilizzato il brano per l’iconico messaggio di questo amore romantico, che potrebbe sembrare un po’ kitsch, ma che assume un valore universale per ognuno grazie alla globalizzazione. Per esempio, anche se vivi in un piccolo villaggio e sei una persona progressista in mezzo a una popolazione che ha una mentalità retrograda, hai pur sempre quel bisogno di affetto e intimità. Il brano simboleggia questo nel film.
Hai anche inserito elementi folkloristici, come Miorița, canto e ballata tradizionale rumena. Puoi dirmi qualcosa su questo aspetto?
Per quanto riguarda Miorița, la spiegazione è un po’ più complicata. La ballata fa parte della nostra tradizione, la si impara anche a scuola per dirti. Riguarda il modo in cui vediamo la vita e andiamo incontro alla morte. Ho deciso di utilizzare questa ballata soprattutto perché mostra la connessione tra l’uomo e gli animali. Se ascolti o leggi la traduzione del canto, noterai che gli animali sono preoccupati per l’uomo e cercano di avvertirlo davanti ad eventuali pericoli, soprattutto la sua pecora e il cane. Ho voluto inserire questi due animali nel film proprio per questo. Il cane, come detto precedentemente, è colui che va da Matthias e gli dice “hey, il male sta prendendo forma, devi fare qualcosa”. È stata anche quella una scena difficile da girare, perché non è stato facile comunicare con l’animale (il regista sorride, n.d.r.). Le pecore nel film invece hanno un altro significato, volevo mostrare come spesso l’uomo perde la propria individualità e diventa parte del gregge, “nascondendosi” dalle responsabilità. Se educhi una persona e le permetti di essere un codardo, questa diventerà parte del gregge, per questo nella scena girata all'asilo i bambini sono vestiti come delle pecore. Stanno insegnando a questi bambini a stare in disparte e a non difendere la propria opinione rimanendo conformi al gruppo. Durante il film possiamo vedere il rapporto che Matthias ha con diverse persone e animali, e credo che il personaggio più positivo sia quello della pecora che guarda l’uomo quando sta per andare via. A nessuno importa di Matthias quanto quella pecora (il regista ride, n.d.r.). Miorița, come puoi vedere, ha tante connotazioni in Animali Selvatici. Ho anche ricevuto la nuova edizione della ballata quando stavo lavorando al film. Continuando con la storia che racconta la canzone, i protagonisti sono tre pastori di etnia diversa e, ad un certo punto, due di questi diventano gelosi del terzo perché le sue pecore sono più belle e il cane più intelligente. E cosa fanno? Uccidono il pastore e si prendono i suoi animali. Anche se la tematica principale riguarda la vita e la morte, sotto sotto la ballata sorprende per come rappresenta il comportamento dell’uomo verso “l’altro”. Mette in mostra come possiamo diventare delle persone violente e compiere azioni tremende verso il prossimo perché è di una etnia diversa. Ho pensato che questo concetto potesse essere raccontato in una maniera nuova ed originale. Non ho mai parlato di questo, e non è nemmeno esplicitato direttamente nel film, ma Miorița è stata importante per me, come per altre persone che conoscono la ballata, perché mostra come il comportamento terribile nei confronti del prossimo non sia accidentale e non dipenda dal contesto storico in cui si vive, ma come esso faccia parte della nostra natura. Mi dispiace dire questo, perché anche se ci siamo evoluti nel corso della storia, il senso di sopravvivenza, rispetto all’empatia, ha sempre avuto il sopravvento. I bambini, ad esempio, sono egoisti e non hanno empatia, se li porti in un parco e vedono un insetto, lo schiacciano. Qui bisogna intervenire e spiegare che non è un buon comportamento. Comunque, concludendo il discorso sulle pecore, di solito non ho molte reference cinematografiche, ma la prima scena con le pecore è un omaggio a Modern Times (1936) di Charlie Chaplin. Utilizza l’immagine delle pecore che pascolano per parlare della classe operaia e, infatti, dopo vediamo una scena di un gruppo di persone che si recano al lavoro. Era tutto collegato con il discorso che Chaplin fa sul capitalismo e su come le persone vengono sfruttate.
Vorrei concludere l’intervista chiedendoti se credi che il comportamento di Csilla e della proprietaria della fabbrica sia da ipocriti. Hanno dato lavoro a questi immigrati, ma li pagano pur sempre il minimo sindacale.
Non lo so, o almeno, non lo so più di te. Tutto dipende da come si interpreta la situazione. Ho trovato interessante mostrare come loro due “proteggevano” questi immigrati di più rispetto ad altri, ma non perché pensavano necessariamente che tutte le persone dovevano essere trattate equamente. Ma allo stesso tempo, potrei dire di sì, che il loro comportamento può risultare ipocrita perché avevano bisogno di queste persone. Era questo il problema della situazione reale che ha ispirato il film. La comunità non voleva che il loro villaggio e le loro tradizioni fossero contaminate dagli stranieri. E con stranieri, intendo soprattutto rumeni (la faccenda reale che ha ispirato il film è ambientata nella Terra dei Siculi, Tinutul Secuiesc, territorio abitato prevalentemente da un sottogruppo etnico ungherese, n.d.r.). I proprietari della fabbrica ritenevano che i propri interessi fossero più importanti e hanno iniziato ad assumere gli stranieri. Dopo aver mostrato il film a Cannes, la prima proiezione pubblica in Romania è stata proprio nel villaggio in cui è ambientato il film, nel comune dove è avvenuta la scena del dibattito. Finita la proiezione ho chiesto se qualcuno aveva fatto parte di quella riunione e alcune persone hanno alzato timidamente la mano, anche il sindaco. L’atmosfera era un po’ tesa, ma non ci sono state risse o discussioni accese. Ed è questo il potere del cinema, ho trasfigurato la situazione reale per raccontare lo stato attuale della nostra società. Il mio intento non era quello di parlare di queste persone in particolare. Molti mi hanno detto, come scusa, che non erano più xenofobi rispetto ad altri, che non avevano nulla contro gli stranieri e che volevano solo preservare le tradizioni del loro villaggio. Nel film volevo mostrare che nessuno è completamente dalla parte del torto o della ragione. Questo si rispecchia anche nei personaggi di Csilla e della proprietaria della fabbrica. Hanno fatto buone azioni, ma fino a che punto? Fa parte di come sono le cosa nella realtà sai…un po’ ambigue.
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03.07.2023
Il cinema di Cristian Mungiu è sempre stato caratterizzato da storie che compiono una complessa, e a tratti provocante, riflessione sui problemi sociali e politici della Romania dopo l’era comunista. Questi tratti hanno reso il cineasta non solo uno dei maggiori esponenti della new wave rumena, ma anche uno delle voci più interessanti e rinomate del panorama cinematografico europeo degli ultimi vent’anni.
Prima di parlare di Animali Selvatici, suo quinto lungometraggio, ripercorriamo brevemente la sua carriera e le sue opere principali. Il suo primo film è stato Occident (2002), dove il cineasta ha analizzato le tematiche dell’isolamento, dell’amore e della ricerca del proprio posto nella società nell'era post-comunista, attraverso una struttura episodica. Ma è con il suo secondo lungometraggio che Mungiu ha avuto il suo breakout internazionale. 4 Mesi, 3 Settimane e 2 Giorni si aggiudicò la Palma d’Oro al Festival di Cannes nel 2007, ed è ancora oggi uno dei film più acclamati degli anni duemila. Ambienta negli anni ‘80, l’opera seguiva le vicende di due ragazze, di cui una rimasta incinta, che cercano aiuto per abortire illegalmente. Il film è uno struggente ritratto sull’amicizia, la fiducia e il costo della vita umana in una società opprimente. Cinque anni dopo, il regista ritorna a Cannes con Oltre le Colline (2012), film che racconta la storia di una giovane ragazza che sta cercando di convincere l’amica a lasciare il monastero in cui vive, ma il suo tentativo di intervenire sulle pratiche religiose della comunità porterà a gravi conseguenze. Il cineasta si aggiudicò il premio alla miglior sceneggiatura per la sua intricata analisi sulla fede, sulle istituzioni religiose e sul conflitto tra modernità e tradizione. Con Un Padre, Una Figlia (2016), la sua quarta pellicola vincitrice del premio alla miglior regia al Festival di Cannes, Mungiu si sposta in Transilvania e, attraverso la figura del protagonista Romeo - un dottore determinato a tutto pur di far ammettere la figlia in una prestigiosa università britannica - esamina la corruzione e i sacrifici che una persona deve compiere per arrivare al proprio obiettivo.
Lo scorso anno, Mungiu ha presentato a Cannes Animali Selvatici, seconda opera ambientata in Transilvania. Al centro della storia c’è Matthias (Marin Grigore), operaio che lavora in Germania e che si vede costretto tornare a casa dopo che il figlio ha assistito ad un episodio traumatico. Una volta arrivato, l’uomo cercherà non solo di stare accanto al bambino, educandolo e insegnandogli come “sopravvivere”, ma si prenderà anche cura del padre anziano. Durante questo periodo inizierà inoltre una liaison con Csilla (Judith State), responsabile della fabbrica locale. La pace della comunità verrà disturbata quando la donna prenderà la decisione di assumere tre immigrati dallo Sri-Lanka. Con Animali Selvatici, Mungiu porta sullo schermo un’ affascinante rappresentazione di un microcosmo che mima le dinamiche geopolitiche europee xenofobe. Infatti, il cineasta analizza le motivazioni che portano a tale comportamento e dimostra che ciò non dipende per forza dall’ambiente che ci circonda, ma dagli istinti animaleschi più bui della nostra persona.
Animali Selvatici è un’opera imperdibile e fondamentale di cui consigliamo ampiamente la visione. Il film arriverà nelle nostre sale il 6 Luglio con BiM Distribuzione e, per l’occasione, Cristian Mungiu ha intrapreso un breve tour in Italia per presentare il film. Durante l’ultima tappa a Milano, abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista. Davanti a noi si è presentata una persona cordiale e disponibile, che ci ha raccontato nel dettaglio alcuni aspetti della lavorazione del film, il significato di alcune sequenze e come “orchestrare” gli attori sul set.
Com’è andato questo tour di presentazione in Italia? Ti senti soddisfatto delle reazioni del pubblico?
Domanda davvero interessante. Beh, è un’esperienza magnifica ad essere sincero. Non so se riuscirò a riportare il grande pubblico in sala, ma sto provando a fare del mio meglio. Oggi non basta soltanto organizzare la proiezione di un film, soprattutto perché la gente può vedere così tanti film comodamente a casa e, dall’inizio della pandemia, si sta perdendo l’abitudine di vederli sul grande schermo. E facendo così, le persone hanno iniziato a pretendere troppo da un film, dovrebbe essere “tondo, quadro, alto, bello,… e d’intrattenimento”. Dedico molto tempo alla lavorazione dei miei film, di solito un paio di anni, e voglio che vengano viste. Di solito, per promuovere i miei film faccio qualche intervista e partecipo a delle premiere nazionali nelle capitali, ma con Animali Selvatici abbiamo deciso di adoperare un’altra strategia di promozione. Ho fatto la mia parte, ho dedicato il mio tempo per incontrare te e il pubblico in sala. Se poi la gente non andrà al cinema a vedere il film la capirò benissimo, ma almeno ho fatto la mia parte. Comunque, durante le varie proiezioni sono sorte delle conversazioni piuttosto interessanti, per me è importante perché se faccio cinema è anche per questa motivazione: avere l’occasione di dialogare con un pubblico e incoraggiarlo a riflettere su quello che vede. Ho incontrato questa ragazzo in una proiezione che voleva avere delle “risposte” sulla storia e sul finale e gli ho detto che il film riguardava lui stesso, su cosa sta succedendo attorno a noi e su come bisogna prendere una posizione in certe situazioni. E se dici questo ad un pubblico, loro inizieranno a pensare al film in maniera differente. Inoltre, devo dirti che amo l’Italia, l’opportunità di muoversi da città a città e incontrare così tanta gente era così allettante che ho accettato.
Passando al film, ho visto Animali Selvatici per la prima volta l’anno scorso al Festival di Cannes e, durante la conferenza stampa, ti avevo chiesto del finale. Dopo la domanda mi sono sentito un po’ imbarazzato, perché non si dovrebbe chiedere una spiegazione diretta sulla sequenza conclusiva. (Possibili spoiler nella risposta, n.d.r.)
Normalmente non dovresti chiedere spiegazioni sul finale perché dovrebbe essere abbastanza chiaro. Se non lo è, in qualche modo è colpa mia. Quindi, non c’è nulla di sbagliato a chiedere qualche delucidazione. A questo punto, però, posso dirti quale era il mio intento nella sequenza. Per me, l’intero film è il percorso di un personaggio che crede che ci sia qualcosa di sbagliato nel mondo che lo circonda e come questo sta evolvendo. Lo stress e l’angoscia stanno prendendo il sopravvento e non sa come “preparare” il figlio per il futuro che lo aspetta. Più ci si avvicina alla fine della storia, più il personaggio capisce che l’origine di questo “male” attorno a sé non riguarda quello che lo circonda, ma quello che lui prova internamente. Più nello specifico, c’è questo momento nel film, quando il padre muore e il cane inizia ad abbaiare, dove Matthias sente che questa “presenza”, se così posso definirla, gli è vicina. In seguito, inizia ad andare a trovare le persone che più gli stanno a cuore per vedere se stanno bene, come il figlio e la moglie. A un certo punto inizia a sentire dei rumori e questo “male” inizia a prendere forma, Matthias inizia a seguire questa presenza e viene portato all’interno dell’abitazione degli stranieri, in un luogo che non sembra ben definito. Sente delle urla dal villaggio e poi continua il suo “viaggio”. Qui si può notare il vantaggio di fare un film seguendo punti di vista soggettivi. Lui sa quello che gli sta accadendo e Csilla sa cosa le sta accadendo, ma tu come spettatore hai una visione sull’insieme dei due personaggi e su cosa sta succedendo ad entrambi . Sei in una posizione migliore rispetto a loro per capire e avere un’idea sul perché lei alla fine gli dice “perdonami”, ad esempio. Lui non sa le motivazioni, però lo spettatore potrebbe tornare indietro nel film e pensare al perché di tali parole. In quel preciso momento, Matthias capisce che la fonte del “male” potrebbe essere al suo interno. Questo rappresenta anche la natura dualistica del nostro essere, da una parte c’è la nostra capacità di provare empatia, ma dall’altra c’è la parte più “animalesca” che segue gli istinti e impulsi più bui che vengono dal nostro subconscio. Lui è in mezzo a questi due mondi e ha capito che deve prendere una decisione, anche nelle situazioni più inaspettate, come quando gli appare l’orso. Mi sono impegnato molto per il finale, volevo incorporare due idee. Da una parte il concetto di questa foresta, sconfinata, buia e senza una struttura precisa, che circonda il villaggio. È una rappresentazione del nostro subconscio e di certe paure di cui non sappiamo la provenienza. La seconda idea riguarda il personaggio di Csilla, al termine del film si rende conto che se una persona rimane in disparte e non ha una posizione su ciò che sta accadendo, potrebbe essere non “colpevole”, ma pur sempre responsabile di quella situazione. Lei lascia Matthias perché non vuole prendere una posizione, ed è soltanto allora che, finalmente, lui capisce che deve fare qualcosa ed essere coinvolto nella situazione.
Nel film, infatti, c’è questo bel contrasto tra i personaggi di Csilla e Matthias, da una parte la compassione e l’empatia verso il prossimo della donna, dall’altra la brutalità animalesca dell’uomo. Questa opposizione è mostrata egregiamente dai protagonisti Judith State e Marin Grigore, volevo chiederti qualcosa sul casting dei due attori, soprattutto perché la recitazione nelle tue opere è sempre di altissimo livello.
Prima di rispondere, voglio aggiungere qualcosa sui due protagonisti. Anche se sono molto diversi tra loro, sono accomunati dallo stesso bisogno di affetto e intimità. È qualcosa che abbiamo tutti dentro, anche se esteriormente possiamo sembrare irrazionali e irascibili. Una volta scelti gli attori, abbiamo parlato di come, di solito, instauriamo dei rapporti speciali con persone che abbiamo conosciuto quando eravamo giovani. Se un giorno rincontrerai il tuo primo amore delle superiori, ad esempio, non vedrai quella persona per ciò che è oggi, la vedrai sempre come il tuo primo, irrazionale, amore delle superiori. Ed è questo uno dei tratti chiave per capire il rapporto tra Matthias e Csilla. Il casting di Judith è stato più semplice, conoscevo già l’attrice e avevo lavorato con lei in due film che ho prodotto, 6.9 pe scara Richter (2016) di Nae Caranfil e Il padre che smuove le montagne (2021) di Daniel Sandu, dove aveva il ruolo femminile più importante. Per i protagonisti di Animali Selvatici avevo bisogno di attori bilingui. Ho sempre avuto in mente Judith, già da quando stavo scrivendo il film, lei riesce sempre a interpretare i suoi personaggi in una maniera talmente naturale che sembra che non stia recitando. Inoltre è bilingue e ha questa “energia” che corrisponde a quella del personaggio. Per quanto riguarda Matthias, il casting è stato più complesso. Ho cercato attori di etnia tedesca che vivono in Romania, ma non riuscivo a trovare l’interprete giusto per il ruolo. In seguito ho cercato tra gli attori rumeni che sapevano parlare tedesco ed ho scelto Marin Grigore. Come con Judith, avevo già lavorato con lui in precedenza, avevamo fatto dei commercial assieme. Il suo body language è molto espressivo, ha una corporatura grossa ed è in grado di esprimere la timidezza, la violenza e il lato tenero dei propri personaggi tutto allo stesso tempo. Una volta scelti Marin e Judith, dovevo vedere se funzionavano bene insieme. Si conoscevano e avevano già recitato insieme precedentemente (in Sieranevada, film del 2016 di Cristi Puiu, n.d.r.), quindi sono stato piuttosto fortunato. Abbiamo trascorso del tempo insieme sul set, che era fuori da Bucharest, questo li ha portati fuori dal loro habitat e gli ha permesso di entrare più in sintonia con i loro personaggi.
Ora vorrei entrare più nello specifico parlando di due sequenze che mi hanno colpito. La prima è forse la scena più rinomata del film, il piano fisso, di diciassette minuti, sul dibattito al municipio. La seconda è una scena dove i personaggi stanno cenando nella prima metà del film. Quello che mi ha colpito in quest’ultima è il personaggio di Ana, durante tutta la sequenza sembra quasi che stia evitando il contatto visivo con Csilla, dettaglio che ritengo molto interessante.
La scena della cena è stata più difficile di quella del comune. Abbiamo dovuto fare più riprese perché c’è una coreografia precisa che ogni personaggio deve rispettare. E ogni volta c’era qualche piccolo dettaglio che bisognava aggiustare. Ogni attore aveva la propria coreografia da imparare e doveva sapere cosa fare quando parlava e non. Questo perché lavoro attraverso dei master plan, voglio intervenire il meno possible sulla scena in fase di montaggio, e per far si che ciò funzioni ogni dettaglio deve essere curato alla perfezione. Versare l’acqua, mangiare un boccone, parlare con gli altri… ogni movimento deve essere preciso, anche il modo in cui sono posizionati i piatti sulla tavola. È un processo complicato, ma una volta che il cast capisce la “routine”, iniziano a pensare a ciò che non pensano, a esprimere e mimare ciò che non dicono. All’inizio gli attori sono un po’ stressati perché ragionano in continuazione su cosa devono dire e fare, per questo faccio dieci, venti, trenta, quaranta riprese se necessario, fino a quando non si sentono stanchi. Una volta capita la situazione, iniziano a fare certi gesti automaticamente e iniziano a esprimere diverse cose. È un approccio che reputo interessante, sembra semplice detto così a parole, ma è davvero difficile da mettere in pratica, sia per me, che per gli attori.
Per quanto riguarda la scena del municipio, l’ho vista più volte perché volevo concentrarmi su diversi personaggi. In essa viene messo in evidenza il dramma personale tra Matthias e Csilla, ma dietro di loro c’è tutto il dibattito sugli stranieri.
Quello che mi piace di queste scene è che innanzitutto devi istruire e spiegare agli attori su cosa devono fare quando non parlano. Quando parlano è più semplice, preparano il loro dialogo e dipendono da questo e dalla loro attitudine. Ma in questa scena di diciassette minuti, la maggior parte dei personaggi ha solo un paio di battute. Quindi, bisogna parlare con ogni singolo attore e spiegare cosa sta accadendo e che deve reagire come il personaggio che sta interpretando. Ci sono state innumerevoli difficoltà. Avevo ventisei pagine di dialogo, quando stavo scrivendo la sceneggiatura sapevo che questa scena sarebbe stata un unico piano fisso, ma non sapevo come l’avrei girata. Una volta sul set, ho capito che c’era un problema, quando scrivi una scena, scrivi una battuta del dialogo dopo l’altra e in questa sequenza si hanno più personaggi che parlano contemporaneamente. Prima di iniziare a girare, ho deciso di unire le prime sette pagine di dialogo con quelle successive perché le persone sedute di fronte, che parlavano durante l’assemblea, non si sarebbero “fermate” durante le brevi interazioni tra Csilla e Matthias. Anzi, era importante mostrare come queste persone non erano presenti perché, in quella sequenza, a Matthias interessa soltanto risolvere la questione personale con Csilla. Come dire agli attori come comportarsi in quegli istanti è stato complicato, come lo è stato mixare il sonoro in fase di montaggio. Tu non puoi capire le difficoltà di quel periodo, non solo per il cast, ma anche per il Covid (il tono di voce del regista si intristisce, n.d.r.). Il nostro ingegnere sonoro, davanti a questa scena, aveva detto “se riesco a fare questo, riuscirò a fare qualsiasi cosa” e… si è beccato il Covid due giorni dopo. Ho dovuto ingaggiare tre ingegneri sonori per la scena, avevamo ventisei microfoni nascosti sul set e ogni attore era collegato. Poi abbiamo iniziato a fare delle prove con il gruppo di persone dall’altra parte della telecamera. Ma c’era anche il problema di come posizionare tutti i personaggi nella scena, dovevo trovare la posizione esatta per la camera in modo che potessi vedere una quindicina di persone in piedi in secondo piano e, allo stesso tempo, creare l’idea che questa sequenza è percepita dai due personaggi principali. All’inizio ho “posizionato” loro due e in seguito tutti gli altri, poi ho capito che alcuni personaggi sarebbero stati dietro la camera e, per un attore, essere in una scena di diciassette minuti dietro la camera può essere piuttosto difficile. Per dare una prospettiva agli interpreti, e per fargli capire che erano nel film, ho deciso di creare questo muro di specchi nella parte inferiore della stanza, così sapevano di essere “presenti” nell'inquadratura. Inoltre, ho deciso di mettere una seconda telecamera apposta per loro, come se un giornalista stesse riprendendo la scena sul momento. Gli attori sapevano che non avrei mai usato quel materiale, ma li ha aiutati a concentrarsi. Poi c’era il problema del focus, chi era il personaggio principale della scena? Quale punto di vista seguire? Abbiamo persone che parlano ovunque, e non potevo concentrarmi sulla prospettiva di ognuna di loro, quindi ho deciso che il focus sarebbe stato su Csilla. Se questa parlava, l'obiettivo era su di lei, se lei guardava un personaggio che stava parlando, il focus era su questi e così via. Dopo aver delineato la posizione dei personaggi principali, bisognava pensare alle comparse. Avevo solo due giorni per girare la scena ed è stato un disastro… non riuscivo a superare il quinto minuto della sequenza . È stato difficile per gli attori trovare il giusto ritmo e momento per “interferire” nella scena, tutto doveva essere preciso. Il primo giorno è stato una catastrofe, ho radunato tutti spiegandogli che ci saremmo dovuti impegnare di più. Gli ho detto di concentrarsi e che dovevano imparare le battute alla perfezione. Sono molto affezionato agli attori con cui lavoro e non li rimprovero mai. Il giorno dopo abbiamo ricominciato, ma c’era qualcosa che non funzionava. I figuranti si sentivano stanchi, e si vedeva che le loro reazioni non erano naturali e consone con i personaggi, e ciò danneggiava anche gli attori principali. Sono andato da loro e gli ho detto: “Oggi voi non siete delle semplici comparse, siete dei veri attori, fate parte di questo personaggio collettivo, siate liberi e reagite come credete sia più giusto.” Si era creata una situazione caotica all’inizio perché tutti urlavano (il regista ride, n.d.r.), mi sono messo dietro alla camera e indicavo il “livello” del tono di reazione per ogni singolo personaggio. Stavo dirigendo la scena in maniera coreografica, come un direttore d’orchestra. Pian piano abbiamo trovato il ritmo giusto e sono riuscito a girare due/tre take che mi hanno convinto. Anche il lavoro in postproduction è stato piuttosto complesso, durante le riprese non potevo ascoltare venticinque microfoni contemporaneamente, ma soltanto cinque. Quando ho iniziato a sentire gli altri, mi sono accorto che c’erano dei commenti davvero interessanti. Il lavoro sul sound mixing è stato importante. Abbiamo fatto una ventina di riprese e, siccome la scena era piuttosto lunga e avevo sempre così tante osservazioni da fare, era difficile per me ricordare tutto. Dovevo sempre riguardare la scena e prendere appunti su ciò che non funzionava. È stato difficile, ma alla fine ci siamo riusciti.
Nel film hai utilizzato Yumeji’s Theme, il leitmotiv di In The Mood For Love (2000), come mai questa scelta?
Ho utilizzato il brano per l’iconico messaggio di questo amore romantico, che potrebbe sembrare un po’ kitsch, ma che assume un valore universale per ognuno grazie alla globalizzazione. Per esempio, anche se vivi in un piccolo villaggio e sei una persona progressista in mezzo a una popolazione che ha una mentalità retrograda, hai pur sempre quel bisogno di affetto e intimità. Il brano simboleggia questo nel film.
Hai anche inserito elementi folkloristici, come Miorița, canto e ballata tradizionale rumena. Puoi dirmi qualcosa su questo aspetto?
Per quanto riguarda Miorița, la spiegazione è un po’ più complicata. La ballata fa parte della nostra tradizione, la si impara anche a scuola per dirti. Riguarda il modo in cui vediamo la vita e andiamo incontro alla morte. Ho deciso di utilizzare questa ballata soprattutto perché mostra la connessione tra l’uomo e gli animali. Se ascolti o leggi la traduzione del canto, noterai che gli animali sono preoccupati per l’uomo e cercano di avvertirlo davanti ad eventuali pericoli, soprattutto la sua pecora e il cane. Ho voluto inserire questi due animali nel film proprio per questo. Il cane, come detto precedentemente, è colui che va da Matthias e gli dice “hey, il male sta prendendo forma, devi fare qualcosa”. È stata anche quella una scena difficile da girare, perché non è stato facile comunicare con l’animale (il regista sorride, n.d.r.). Le pecore nel film invece hanno un altro significato, volevo mostrare come spesso l’uomo perde la propria individualità e diventa parte del gregge, “nascondendosi” dalle responsabilità. Se educhi una persona e le permetti di essere un codardo, questa diventerà parte del gregge, per questo nella scena girata all'asilo i bambini sono vestiti come delle pecore. Stanno insegnando a questi bambini a stare in disparte e a non difendere la propria opinione rimanendo conformi al gruppo. Durante il film possiamo vedere il rapporto che Matthias ha con diverse persone e animali, e credo che il personaggio più positivo sia quello della pecora che guarda l’uomo quando sta per andare via. A nessuno importa di Matthias quanto quella pecora (il regista ride, n.d.r.). Miorița, come puoi vedere, ha tante connotazioni in Animali Selvatici. Ho anche ricevuto la nuova edizione della ballata quando stavo lavorando al film. Continuando con la storia che racconta la canzone, i protagonisti sono tre pastori di etnia diversa e, ad un certo punto, due di questi diventano gelosi del terzo perché le sue pecore sono più belle e il cane più intelligente. E cosa fanno? Uccidono il pastore e si prendono i suoi animali. Anche se la tematica principale riguarda la vita e la morte, sotto sotto la ballata sorprende per come rappresenta il comportamento dell’uomo verso “l’altro”. Mette in mostra come possiamo diventare delle persone violente e compiere azioni tremende verso il prossimo perché è di una etnia diversa. Ho pensato che questo concetto potesse essere raccontato in una maniera nuova ed originale. Non ho mai parlato di questo, e non è nemmeno esplicitato direttamente nel film, ma Miorița è stata importante per me, come per altre persone che conoscono la ballata, perché mostra come il comportamento terribile nei confronti del prossimo non sia accidentale e non dipenda dal contesto storico in cui si vive, ma come esso faccia parte della nostra natura. Mi dispiace dire questo, perché anche se ci siamo evoluti nel corso della storia, il senso di sopravvivenza, rispetto all’empatia, ha sempre avuto il sopravvento. I bambini, ad esempio, sono egoisti e non hanno empatia, se li porti in un parco e vedono un insetto, lo schiacciano. Qui bisogna intervenire e spiegare che non è un buon comportamento. Comunque, concludendo il discorso sulle pecore, di solito non ho molte reference cinematografiche, ma la prima scena con le pecore è un omaggio a Modern Times (1936) di Charlie Chaplin. Utilizza l’immagine delle pecore che pascolano per parlare della classe operaia e, infatti, dopo vediamo una scena di un gruppo di persone che si recano al lavoro. Era tutto collegato con il discorso che Chaplin fa sul capitalismo e su come le persone vengono sfruttate.
Vorrei concludere l’intervista chiedendoti se credi che il comportamento di Csilla e della proprietaria della fabbrica sia da ipocriti. Hanno dato lavoro a questi immigrati, ma li pagano pur sempre il minimo sindacale.
Non lo so, o almeno, non lo so più di te. Tutto dipende da come si interpreta la situazione. Ho trovato interessante mostrare come loro due “proteggevano” questi immigrati di più rispetto ad altri, ma non perché pensavano necessariamente che tutte le persone dovevano essere trattate equamente. Ma allo stesso tempo, potrei dire di sì, che il loro comportamento può risultare ipocrita perché avevano bisogno di queste persone. Era questo il problema della situazione reale che ha ispirato il film. La comunità non voleva che il loro villaggio e le loro tradizioni fossero contaminate dagli stranieri. E con stranieri, intendo soprattutto rumeni (la faccenda reale che ha ispirato il film è ambientata nella Terra dei Siculi, Tinutul Secuiesc, territorio abitato prevalentemente da un sottogruppo etnico ungherese, n.d.r.). I proprietari della fabbrica ritenevano che i propri interessi fossero più importanti e hanno iniziato ad assumere gli stranieri. Dopo aver mostrato il film a Cannes, la prima proiezione pubblica in Romania è stata proprio nel villaggio in cui è ambientato il film, nel comune dove è avvenuta la scena del dibattito. Finita la proiezione ho chiesto se qualcuno aveva fatto parte di quella riunione e alcune persone hanno alzato timidamente la mano, anche il sindaco. L’atmosfera era un po’ tesa, ma non ci sono state risse o discussioni accese. Ed è questo il potere del cinema, ho trasfigurato la situazione reale per raccontare lo stato attuale della nostra società. Il mio intento non era quello di parlare di queste persone in particolare. Molti mi hanno detto, come scusa, che non erano più xenofobi rispetto ad altri, che non avevano nulla contro gli stranieri e che volevano solo preservare le tradizioni del loro villaggio. Nel film volevo mostrare che nessuno è completamente dalla parte del torto o della ragione. Questo si rispecchia anche nei personaggi di Csilla e della proprietaria della fabbrica. Hanno fatto buone azioni, ma fino a che punto? Fa parte di come sono le cosa nella realtà sai…un po’ ambigue.