TR-54
13.03.2022
“La ricerca delle nostre origini potrebbe condurre alla nostra fine”. Da questa tagline si sviluppava, ormai dieci anni fa, Prometheus di Ridley Scott.
Moonfall, il nuovo film del disaster artist Roland Emmerich, rovescia questa prospettiva: la lotta senza quartiere contro un'apocalisse imminente si ribalta, senza soluzione di continuità, nella scoperta delle reali origini della nostra razza, e della cosmologia a noi famigliare. In Moonfall, infatti, come banalmente preannunciato dal titolo, l’usuale manipolo sparuto di improbabili eroi al centro di ogni blockbuster emmerichiano si ritrova a dover fronteggiare l'improvvisa uscita della Luna dalla sua orbita: scarto nella millenaria ripetizione dell'ordo cosmico che provoca maremoti e tsunami in tutti gli angoli del pianeta, e che preannuncia un imminente impatto del satellite sul globo terrestre.
“Pur con tutti i suoi difetti e i suoi disagi, il nostro tempo è, sotto un certo punto di vista, il più felice della storia dell’uomo. Ed è insieme forse l’epoca in assoluto più ossessionata dall’immaginario della catastrofe”, rimarcava Malco Malvestio nel suo Raccontare la fine del mondo, recentemente edito da Nottetempo. Malvestio nel suo saggio citava di Emmerich L'alba del giorno dopo, a detta di molti il primo kollossl hollywoodiano ad affrontare "seriamente" il tema del surriscaldamento globale: scritto prima del Coronavirus, con le riprese bloccate a metà strada a causa dello scoppio della pandemia, questo Moonfall vuole esprimere, secondo le dichiarazioni del regista, “anche la mia voglia personale di fuga dalla realtà, che tutti abbiamo conosciuto negli ultimi due anni”. Eppure, allo stesso modo di The Day After Tomorrow, Moonfall contiene un ampio numero di cliché e di stereotipi del cinema catastrofico hollywoodiano che, analizzati nella giusta chiave antropologica e senza dover per forza includere giudizi qualitativi, dal momento che il film è piacevolissimo, possono dirci molto circa l’atteggiamento che tanto il cinema quanto la nostra società in generale ha, nei confronti del “Disastro”.
L'insistenza con cui Roland Emmerich, tedesco trapiantato ad Hollywood, ha affrontato nel corso di ormai quattro diversi decenni il tema a fine del mondo e delle catastrofe globali, è proverbiale; e potrebbe fornire da sola un provocatorio spunto per riconoscere nel suo un "cinema d'autore senza autorialità". L'organicità tematica di Emmerich è particolarmente spiccata, e può diventare rivelatoria di come sono variate le fantasie apocalittiche di decenni in decenni. Già il suo film d’esordio, 1997 – Il principio dell’arca di Noè, flirtava con la catastrofe, ma Emmerich si impose al grande pubblico come il re dei disaster movies quando, una volta trasferitosi ad Hollywood, diresse nel giro di due anni Independence Day e il primo remake americano di Godzilla: due film che, con non pochi echi alla Guerra del Golfo, tutto sommato si attanagliavano ancora a una narrazione tradizionale e “mitologica” della catastrofe, dal momento che Independence Day attingeva a piene mani al repertorio classico dei film di fantascienza degli anni cinquanta, fino a mostrare un pezzo di Ultimatum alla Terra su un televisore, mentre il meno fortunato Godzilla provava a portare sul suolo americano il kaiju per eccellenza della cinematografia nipponica.
Quello che vorremmo rilevare è che, con l’unica e importante eccezione di The Day After – L’alba del giorno dopo, il cinema di fantascienza apocalittica di Roland Emmerich si è sempre tenuto a debita distanza dal presente. Dopo il 2012 del 2009, che prendeva spunto dalla famosa profezia dei Maya sulla fine del mondo, Emmerich aveva anche promesso di smettere di fare film catastrofici, ma è venuto meno a questo giuramento prima col sequel di Independence Day, e adesso con questo nuovo Moonfall.
Far uscire un film su una catastrofe globale quando il pianeta non è ancora del tutto uscito dalla catastrofe storica del Coronavirus suscita molte più riflessioni di prima, circa lo status per così dire “ontologico” di questo genere di film. “Moonfall è un po’ una controprogrammazione rispetto a tutti i problemi che abbiamo qui sulla Terra: il Covid, il cambiamento climatico, le tensioni tra Russia e Ucraina”, ha ammesso Emmerich, per poi precisare: “credo che sia importante offrire alle persone la possibilità di scappare dalla realtà per un paio d’ore”, ribadendo di aver scritto il film prima che scoppiasse la pandemia.
Il fatto è proprio questo: la catastrofe che diventa evasione, un paradosso che si fa intrattenimento. Michael Bay, l’altro grande disaster artist del cinema hollywoodiano, sta a sua volta per tornare al cinema con Ambulance, heist thriller interpretato da Jake Gylenhaal; ma, nei primi mesi di pandemia, aveva fatto un certo scalpore la sua scelta di realizzare, come produttore, il film Netflix Songbird, ambientato in una distopica Los Angeles del 2024, “quattro anni dopo l'inizio della pandemia di COVID-19”. Emmerich non aveva avuto esitazioni a inserire riferimenti espliciti alla sfida elettorale tra Trump e la Clinton nel suo Independence Day: Resurgence uscito nel 2016 a pochi mesi dal voto, e aveva anche affrontato di petto la questione dei diritti LGBT con il suo controverso dramma storico Stonewall, una rievocazione delle proteste che, nella New York del 1969, avevano di fatto sancito l’inizio del movimento del gay pride.
Moonfall - che in fondo replica con una leggera svogliatezza la stessa struttura e gli stessi cliché narrativi che Emmerich aveva imposto nella cultura hollywoodiana da Independence Day in poi – lascia affiorare in maniera più critica le ambiguità e le caratteristiche fondanti di un intero genere, quello della fantascienza apocalittica. Il suo flop ai botteghini si inserisce ormai in una serie di film di Emmerich che, dopo aver realizzato alcuni dei film di maggiore incasso degli anni novanta e duemila, sembra essere in difficoltà a chiamare a sé il grande pubblico: sia Independence Day 2 che Moonfall non hanno recuperato il loro budget, solo Midway, rivisitazione per quanto possibile super partes dei classici film di guerra sul fronte del Pacifico, aveva portato buoni risultati al box office. L’eventuale successo o insuccesso di un film non dice molto della sua qualità – Moonfall non avrà la stessa grandiosità della narrazione corale del primo Independence Day, ma resta una visione simpatica e intrattenente per uno spettatore senza pretese – ma certo contribuisce a cementare l’impressione che i film catastrofici “classici” abbiano un po’ fatto il loro tempo. Dall’altro lato, trionfanti, si stagliano i cinecomics, che partono (quasi) sempre da una catastrofe o da un’imminente fine del mondo, ma, invece di invocare un’inaspettata alleanza tra la scienza, l’esercito e il tipico uomo comune hollywoodiano che si scopre un eroe come succede in tutti i disaster movies di Emmerich, si affidano direttamente ad esseri super-umani, celestiali, a volte divini quale è il caso di Superman, concentrando la narrazione e la salvezza del mondo sui loro poteri, sulla loro personalità sin dal principio superiore ed “eroica”.
Ormai un classico della storia della critica cinematografica italiana, l’Immagine del disastro, datata del 1975, fu l’opera maggiore del critico Enzo Ungari, in seguito anche sceneggiatore per Bertolucci. L’Immagine del disastro si proponeva come una critica della fantascienza, dell’horror e dell’immaginario catastrofico-hollywoodiano in generale, attraverso gli stilemi di certa teoria marxista. Complice anche il suo uso un po’ spregiudicato di fotogrammi di film citati e non citati, disposti in un collage degno di Andy Warhol, l’Immagine del disastro è tutt’altro che invecchiata: e la sua lezione critica, benché estremistica, può darci qualche spunto per comprendere a fondo ciò che implica Moonfall, e il cinema di Roland Emmerich in generale.
La fantascienza è colpevole, perché offre agli inermi spettatori “la possibilità illusoria di cambiare di mondo al posto della possibilità reale di cambiare il mondo”: è questa la tesi alla base della critica della fantascienza compiuta da Ungari – ma allora perché la fantascienza si diverte così tanto ad immaginare la fine di questo mondo che, a tutta apparenza, vorrebbe preservare? Questa tendenza apocalittica si attanaglia a una caratteristica profonda dell’immagine filmica. “Fin dalla sua nascita il cinema ha sempre dimostrato una vera e propria vocazione per rappresentare la calamità”; e se Hollywood si è da sempre impegnata per tracciare una forma di “mitologia positiva” da propagandare a tutto il mondo occidentale, “il problema di fondo della società dello spettacolo” è “come trattare, rappresentare, travestire l’irrappresentabile di ieri, tutti quegli aspetti della realtà che per varie ragioni”, in primis la diffusione capillare dei mezzi di comunicazione di massa, “non possono più essere soggetti a rimozione”.
Ne abbiamo fatto esperienza proprio con il Coronavirus, nella schizofrenia inarrestabile degli organi di stampa e di comunicazione: senza soluzione di continuità, i giornali e i social ci annunciavano aperture e chiusure, minimizzavano o esageravano il rischio di contrarre il virus e i suoi effetti, compivano, in nome del clickbaiting, veri e propri atti di terrorismo “mediatico” che solo in parte potevano essere sinceramente giustificati con il diritto secolare alla libertà di stampa – vedasi i resoconti strappalacrime dalle terapie intensive, o l’attenzione spropositata tributata ai complottisti. Di più: è proprio perché compiaciutamente opulento, consapevolmente consumista, inestirpabilmente “felice” o perlomeno oppresso da un obbligo alla felicità che gli Stati Uniti si portano dietro sin nel codice genetico della loro Costituzione, il mondo occidentale ha bisogno di un immaginario della catastrofe. Il perché, ancora una volta, lo spiegava Ungari quasi cinquant’anni fa.
Nell’Immagine del disastro si legge infatti anche che il genere dei disaster movies “espande e teatralizza un bisogno di punizione e una paranoia che tendono a crescere quando il sistema, oscuramente intuito come macchina, attraversa o sembra attraversare una fase di cedimento. A questa paura corrisponde un supplemento di offerta di catastrofe, che funzione in parte come anticipo fantastico e in parte come garanzia a relegare nell’ambito della visione socializzata dello spettacolo ogni reale ipotesi di disastro e disfunzione”. È forse proprio perché negli ultimi anni, prima con l’11 Settembre, poi con gli attentati sul suolo europeo dell’ISIS e infine, in maniera molto più corposa, con lo scoppio del Coronavirus, che è ritornata ad acutizzarsi una sensazione di crisi del presente, che i film classici sulla catastrofe stanno gradualmente passando di moda, con le conseguenti ripercussioni e flop ai botteghini. Al loro posto, i cinecomics: film in cui la catastrofe è aprioristicamente data, ma che, mettendo in scena esseri soprannaturali in grado di sconfiggere ogni calamità, sembrano rassicurare il pubblico molto più dei disaster movies classici. Se già il grande mitografo Joseph Campbell, sul finire degli anni settanta, aveva messo in luce il carattere semplicistico e messianico di alcuni di fantascienza come Incontri ravvicinati del terzo tipo, sarebbe interessante sentire cos’avrebbe avuto da dire, ai giorni nostri, circa il cinema dei supereroi.
O archeologia o escatologia è un po' una frase fatta, ma esprime bene una tendenza inestirpabile del pensiero occidentale: tendenza che si riverbera indifferentemente nella filosofia, nelle religioni e nelle grandi narrazioni, di cui il cinema hollywoodiano è il più risoluto scampolo, in tempo di secolarizzazione. È tipica della fantascienza una certa tentazione all’ontologia, e un suo regresso alle antiche cosmologie mitiche che, del resto, rappresentano una delle sue maggiori fonti nonché antecedenti culturali. Tendenza che risale quantomeno a 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, film di fantascienza che iniziava nei remoti abissi del Pleistocene, a riconfigurare la lettura scientifica e storiografica dell’evoluzione dell’uomo mettendovi in mezzo la possibilità di un contatto con una razza extraterrestre per spiegare quello che tuttora è il più grande dei misteri, la nascita della coscienza. E, mettendo da parte esperienze meno occidentali come quella di Tarkovskij, la stessa tendenza all’ontologia e alla cosmogonia la si ritrovava anche in Mission to Mars, film minore di Brian De Palma datato 2000 che omaggiava più volte il modello kubrickiano.
Moonfall di Roland Emmerich rinnova questa tradizione: senza voler fare grossi spoiler, nell’ultima parte del film si consumano una serie di rivelazioni circa la reale natura della Luna e le origini più remote dell’umanità, che ben s’inseriscono nel filone inaugurato da Kubrick e proseguito, negli anni, da De Palma e l’ultimo Ridley Scott di Prometheus e Covenant. Pure risulta significativo, ed entra una certa misura stridente, che in Moonfall il personaggio che può pronunciare il proverbiale “ve l’avevo detto” è uno scienziato dilettante interpretato da John Bradley, un vero e proprio complottista che propaganda sul web le sue teorie sulla Luna come macrostruttura. Ma queste sono licenze narrative: e in fondo eroicizzare un complottista immaginario in un film di Hollywood è più indolore che criticare sui giornali certe manifestazioni e certe teorie dei negazionisti del Covid, dando però così molto più spazio alle loro idee in nome di un facile clickbaiting.
“Perché le piace tanto la fantascienza?”, viene chiesto ad Emmerich nel corso dell’intervista ufficiale che accompagna il materiale stampa di Moonfall nella sua uscita italiana. “Perché è sempre determinata da un concetto”, è la risposta, “spesso semplice e seducente. È molto visuale e come spettatore sono sempre stato attratto dalle immagini molto forti e piene di fascino”. In fondo, conclude Emmerich, l’aspetto più interessante della fantascienza è “proprio la possibilità di creare dei mondi. Nel passato remoto così come nel futuro sei molto libero nel tuo racconto”.
Enzo Ungari e Roland Emmerich concordano a chiasmo circa il carattere evasivo ed escapista della fantascienza, ma quella che è una criticità politica per il primo diventa una fantasmagoria per gli occhi del secondo. Nel 2021, siamo costretti a rinunciare al giudizio, perlomeno al giudizio politico, perché sempre più privi di strutture ed ideologie, e ci ritroviamo relegati all’analisi, che ha il suo bel daffare ad invocare gli archetipi. Per quanto riguarda Moonfall possiamo limitarci a dire che, nel mettere in scena un’apocalisse “impossibile” – lo spunto narrativo della caduta sulla Luna della Terra è a monte il segno di una certa stanchezza del filone catastrofico – il nuovo film di Roland Emmerich al tempo stesso ottiene e manca il suo obiettivo: lo ottiene, perché intrattiene, ed Emmerich certo non ha preteso altro che essere un grande giocherellone del disastro, non ha mai smaniato neppure per le candidature agli Oscar; e al tempo stesso manca il suo obiettivo e perde il segno, perché l’ambizione di distrarre da una crisi effettiva e presente con la messa in scena di una crisi immaginaria e fantastica è illusoria, prima ancora che pericolosa. Su tutto però si stende la patina dell’effetto nostalgia: per chi è cresciuto con Independence Day e Godzilla, ritrovare l’Emmerich dei tempi d’oro, benché un po’ sottotono, strappa pur sempre un sorriso.
TR-54
13.03.2022
“La ricerca delle nostre origini potrebbe condurre alla nostra fine”. Da questa tagline si sviluppava, ormai dieci anni fa, Prometheus di Ridley Scott.
Moonfall, il nuovo film del disaster artist Roland Emmerich, rovescia questa prospettiva: la lotta senza quartiere contro un'apocalisse imminente si ribalta, senza soluzione di continuità, nella scoperta delle reali origini della nostra razza, e della cosmologia a noi famigliare. In Moonfall, infatti, come banalmente preannunciato dal titolo, l’usuale manipolo sparuto di improbabili eroi al centro di ogni blockbuster emmerichiano si ritrova a dover fronteggiare l'improvvisa uscita della Luna dalla sua orbita: scarto nella millenaria ripetizione dell'ordo cosmico che provoca maremoti e tsunami in tutti gli angoli del pianeta, e che preannuncia un imminente impatto del satellite sul globo terrestre.
“Pur con tutti i suoi difetti e i suoi disagi, il nostro tempo è, sotto un certo punto di vista, il più felice della storia dell’uomo. Ed è insieme forse l’epoca in assoluto più ossessionata dall’immaginario della catastrofe”, rimarcava Malco Malvestio nel suo Raccontare la fine del mondo, recentemente edito da Nottetempo. Malvestio nel suo saggio citava di Emmerich L'alba del giorno dopo, a detta di molti il primo kollossl hollywoodiano ad affrontare "seriamente" il tema del surriscaldamento globale: scritto prima del Coronavirus, con le riprese bloccate a metà strada a causa dello scoppio della pandemia, questo Moonfall vuole esprimere, secondo le dichiarazioni del regista, “anche la mia voglia personale di fuga dalla realtà, che tutti abbiamo conosciuto negli ultimi due anni”. Eppure, allo stesso modo di The Day After Tomorrow, Moonfall contiene un ampio numero di cliché e di stereotipi del cinema catastrofico hollywoodiano che, analizzati nella giusta chiave antropologica e senza dover per forza includere giudizi qualitativi, dal momento che il film è piacevolissimo, possono dirci molto circa l’atteggiamento che tanto il cinema quanto la nostra società in generale ha, nei confronti del “Disastro”.
L'insistenza con cui Roland Emmerich, tedesco trapiantato ad Hollywood, ha affrontato nel corso di ormai quattro diversi decenni il tema a fine del mondo e delle catastrofe globali, è proverbiale; e potrebbe fornire da sola un provocatorio spunto per riconoscere nel suo un "cinema d'autore senza autorialità". L'organicità tematica di Emmerich è particolarmente spiccata, e può diventare rivelatoria di come sono variate le fantasie apocalittiche di decenni in decenni. Già il suo film d’esordio, 1997 – Il principio dell’arca di Noè, flirtava con la catastrofe, ma Emmerich si impose al grande pubblico come il re dei disaster movies quando, una volta trasferitosi ad Hollywood, diresse nel giro di due anni Independence Day e il primo remake americano di Godzilla: due film che, con non pochi echi alla Guerra del Golfo, tutto sommato si attanagliavano ancora a una narrazione tradizionale e “mitologica” della catastrofe, dal momento che Independence Day attingeva a piene mani al repertorio classico dei film di fantascienza degli anni cinquanta, fino a mostrare un pezzo di Ultimatum alla Terra su un televisore, mentre il meno fortunato Godzilla provava a portare sul suolo americano il kaiju per eccellenza della cinematografia nipponica.
Quello che vorremmo rilevare è che, con l’unica e importante eccezione di The Day After – L’alba del giorno dopo, il cinema di fantascienza apocalittica di Roland Emmerich si è sempre tenuto a debita distanza dal presente. Dopo il 2012 del 2009, che prendeva spunto dalla famosa profezia dei Maya sulla fine del mondo, Emmerich aveva anche promesso di smettere di fare film catastrofici, ma è venuto meno a questo giuramento prima col sequel di Independence Day, e adesso con questo nuovo Moonfall.
Far uscire un film su una catastrofe globale quando il pianeta non è ancora del tutto uscito dalla catastrofe storica del Coronavirus suscita molte più riflessioni di prima, circa lo status per così dire “ontologico” di questo genere di film. “Moonfall è un po’ una controprogrammazione rispetto a tutti i problemi che abbiamo qui sulla Terra: il Covid, il cambiamento climatico, le tensioni tra Russia e Ucraina”, ha ammesso Emmerich, per poi precisare: “credo che sia importante offrire alle persone la possibilità di scappare dalla realtà per un paio d’ore”, ribadendo di aver scritto il film prima che scoppiasse la pandemia.
Il fatto è proprio questo: la catastrofe che diventa evasione, un paradosso che si fa intrattenimento. Michael Bay, l’altro grande disaster artist del cinema hollywoodiano, sta a sua volta per tornare al cinema con Ambulance, heist thriller interpretato da Jake Gylenhaal; ma, nei primi mesi di pandemia, aveva fatto un certo scalpore la sua scelta di realizzare, come produttore, il film Netflix Songbird, ambientato in una distopica Los Angeles del 2024, “quattro anni dopo l'inizio della pandemia di COVID-19”. Emmerich non aveva avuto esitazioni a inserire riferimenti espliciti alla sfida elettorale tra Trump e la Clinton nel suo Independence Day: Resurgence uscito nel 2016 a pochi mesi dal voto, e aveva anche affrontato di petto la questione dei diritti LGBT con il suo controverso dramma storico Stonewall, una rievocazione delle proteste che, nella New York del 1969, avevano di fatto sancito l’inizio del movimento del gay pride.
Moonfall - che in fondo replica con una leggera svogliatezza la stessa struttura e gli stessi cliché narrativi che Emmerich aveva imposto nella cultura hollywoodiana da Independence Day in poi – lascia affiorare in maniera più critica le ambiguità e le caratteristiche fondanti di un intero genere, quello della fantascienza apocalittica. Il suo flop ai botteghini si inserisce ormai in una serie di film di Emmerich che, dopo aver realizzato alcuni dei film di maggiore incasso degli anni novanta e duemila, sembra essere in difficoltà a chiamare a sé il grande pubblico: sia Independence Day 2 che Moonfall non hanno recuperato il loro budget, solo Midway, rivisitazione per quanto possibile super partes dei classici film di guerra sul fronte del Pacifico, aveva portato buoni risultati al box office. L’eventuale successo o insuccesso di un film non dice molto della sua qualità – Moonfall non avrà la stessa grandiosità della narrazione corale del primo Independence Day, ma resta una visione simpatica e intrattenente per uno spettatore senza pretese – ma certo contribuisce a cementare l’impressione che i film catastrofici “classici” abbiano un po’ fatto il loro tempo. Dall’altro lato, trionfanti, si stagliano i cinecomics, che partono (quasi) sempre da una catastrofe o da un’imminente fine del mondo, ma, invece di invocare un’inaspettata alleanza tra la scienza, l’esercito e il tipico uomo comune hollywoodiano che si scopre un eroe come succede in tutti i disaster movies di Emmerich, si affidano direttamente ad esseri super-umani, celestiali, a volte divini quale è il caso di Superman, concentrando la narrazione e la salvezza del mondo sui loro poteri, sulla loro personalità sin dal principio superiore ed “eroica”.
Ormai un classico della storia della critica cinematografica italiana, l’Immagine del disastro, datata del 1975, fu l’opera maggiore del critico Enzo Ungari, in seguito anche sceneggiatore per Bertolucci. L’Immagine del disastro si proponeva come una critica della fantascienza, dell’horror e dell’immaginario catastrofico-hollywoodiano in generale, attraverso gli stilemi di certa teoria marxista. Complice anche il suo uso un po’ spregiudicato di fotogrammi di film citati e non citati, disposti in un collage degno di Andy Warhol, l’Immagine del disastro è tutt’altro che invecchiata: e la sua lezione critica, benché estremistica, può darci qualche spunto per comprendere a fondo ciò che implica Moonfall, e il cinema di Roland Emmerich in generale.
La fantascienza è colpevole, perché offre agli inermi spettatori “la possibilità illusoria di cambiare di mondo al posto della possibilità reale di cambiare il mondo”: è questa la tesi alla base della critica della fantascienza compiuta da Ungari – ma allora perché la fantascienza si diverte così tanto ad immaginare la fine di questo mondo che, a tutta apparenza, vorrebbe preservare? Questa tendenza apocalittica si attanaglia a una caratteristica profonda dell’immagine filmica. “Fin dalla sua nascita il cinema ha sempre dimostrato una vera e propria vocazione per rappresentare la calamità”; e se Hollywood si è da sempre impegnata per tracciare una forma di “mitologia positiva” da propagandare a tutto il mondo occidentale, “il problema di fondo della società dello spettacolo” è “come trattare, rappresentare, travestire l’irrappresentabile di ieri, tutti quegli aspetti della realtà che per varie ragioni”, in primis la diffusione capillare dei mezzi di comunicazione di massa, “non possono più essere soggetti a rimozione”.
Ne abbiamo fatto esperienza proprio con il Coronavirus, nella schizofrenia inarrestabile degli organi di stampa e di comunicazione: senza soluzione di continuità, i giornali e i social ci annunciavano aperture e chiusure, minimizzavano o esageravano il rischio di contrarre il virus e i suoi effetti, compivano, in nome del clickbaiting, veri e propri atti di terrorismo “mediatico” che solo in parte potevano essere sinceramente giustificati con il diritto secolare alla libertà di stampa – vedasi i resoconti strappalacrime dalle terapie intensive, o l’attenzione spropositata tributata ai complottisti. Di più: è proprio perché compiaciutamente opulento, consapevolmente consumista, inestirpabilmente “felice” o perlomeno oppresso da un obbligo alla felicità che gli Stati Uniti si portano dietro sin nel codice genetico della loro Costituzione, il mondo occidentale ha bisogno di un immaginario della catastrofe. Il perché, ancora una volta, lo spiegava Ungari quasi cinquant’anni fa.
Nell’Immagine del disastro si legge infatti anche che il genere dei disaster movies “espande e teatralizza un bisogno di punizione e una paranoia che tendono a crescere quando il sistema, oscuramente intuito come macchina, attraversa o sembra attraversare una fase di cedimento. A questa paura corrisponde un supplemento di offerta di catastrofe, che funzione in parte come anticipo fantastico e in parte come garanzia a relegare nell’ambito della visione socializzata dello spettacolo ogni reale ipotesi di disastro e disfunzione”. È forse proprio perché negli ultimi anni, prima con l’11 Settembre, poi con gli attentati sul suolo europeo dell’ISIS e infine, in maniera molto più corposa, con lo scoppio del Coronavirus, che è ritornata ad acutizzarsi una sensazione di crisi del presente, che i film classici sulla catastrofe stanno gradualmente passando di moda, con le conseguenti ripercussioni e flop ai botteghini. Al loro posto, i cinecomics: film in cui la catastrofe è aprioristicamente data, ma che, mettendo in scena esseri soprannaturali in grado di sconfiggere ogni calamità, sembrano rassicurare il pubblico molto più dei disaster movies classici. Se già il grande mitografo Joseph Campbell, sul finire degli anni settanta, aveva messo in luce il carattere semplicistico e messianico di alcuni di fantascienza come Incontri ravvicinati del terzo tipo, sarebbe interessante sentire cos’avrebbe avuto da dire, ai giorni nostri, circa il cinema dei supereroi.
O archeologia o escatologia è un po' una frase fatta, ma esprime bene una tendenza inestirpabile del pensiero occidentale: tendenza che si riverbera indifferentemente nella filosofia, nelle religioni e nelle grandi narrazioni, di cui il cinema hollywoodiano è il più risoluto scampolo, in tempo di secolarizzazione. È tipica della fantascienza una certa tentazione all’ontologia, e un suo regresso alle antiche cosmologie mitiche che, del resto, rappresentano una delle sue maggiori fonti nonché antecedenti culturali. Tendenza che risale quantomeno a 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, film di fantascienza che iniziava nei remoti abissi del Pleistocene, a riconfigurare la lettura scientifica e storiografica dell’evoluzione dell’uomo mettendovi in mezzo la possibilità di un contatto con una razza extraterrestre per spiegare quello che tuttora è il più grande dei misteri, la nascita della coscienza. E, mettendo da parte esperienze meno occidentali come quella di Tarkovskij, la stessa tendenza all’ontologia e alla cosmogonia la si ritrovava anche in Mission to Mars, film minore di Brian De Palma datato 2000 che omaggiava più volte il modello kubrickiano.
Moonfall di Roland Emmerich rinnova questa tradizione: senza voler fare grossi spoiler, nell’ultima parte del film si consumano una serie di rivelazioni circa la reale natura della Luna e le origini più remote dell’umanità, che ben s’inseriscono nel filone inaugurato da Kubrick e proseguito, negli anni, da De Palma e l’ultimo Ridley Scott di Prometheus e Covenant. Pure risulta significativo, ed entra una certa misura stridente, che in Moonfall il personaggio che può pronunciare il proverbiale “ve l’avevo detto” è uno scienziato dilettante interpretato da John Bradley, un vero e proprio complottista che propaganda sul web le sue teorie sulla Luna come macrostruttura. Ma queste sono licenze narrative: e in fondo eroicizzare un complottista immaginario in un film di Hollywood è più indolore che criticare sui giornali certe manifestazioni e certe teorie dei negazionisti del Covid, dando però così molto più spazio alle loro idee in nome di un facile clickbaiting.
“Perché le piace tanto la fantascienza?”, viene chiesto ad Emmerich nel corso dell’intervista ufficiale che accompagna il materiale stampa di Moonfall nella sua uscita italiana. “Perché è sempre determinata da un concetto”, è la risposta, “spesso semplice e seducente. È molto visuale e come spettatore sono sempre stato attratto dalle immagini molto forti e piene di fascino”. In fondo, conclude Emmerich, l’aspetto più interessante della fantascienza è “proprio la possibilità di creare dei mondi. Nel passato remoto così come nel futuro sei molto libero nel tuo racconto”.
Enzo Ungari e Roland Emmerich concordano a chiasmo circa il carattere evasivo ed escapista della fantascienza, ma quella che è una criticità politica per il primo diventa una fantasmagoria per gli occhi del secondo. Nel 2021, siamo costretti a rinunciare al giudizio, perlomeno al giudizio politico, perché sempre più privi di strutture ed ideologie, e ci ritroviamo relegati all’analisi, che ha il suo bel daffare ad invocare gli archetipi. Per quanto riguarda Moonfall possiamo limitarci a dire che, nel mettere in scena un’apocalisse “impossibile” – lo spunto narrativo della caduta sulla Luna della Terra è a monte il segno di una certa stanchezza del filone catastrofico – il nuovo film di Roland Emmerich al tempo stesso ottiene e manca il suo obiettivo: lo ottiene, perché intrattiene, ed Emmerich certo non ha preteso altro che essere un grande giocherellone del disastro, non ha mai smaniato neppure per le candidature agli Oscar; e al tempo stesso manca il suo obiettivo e perde il segno, perché l’ambizione di distrarre da una crisi effettiva e presente con la messa in scena di una crisi immaginaria e fantastica è illusoria, prima ancora che pericolosa. Su tutto però si stende la patina dell’effetto nostalgia: per chi è cresciuto con Independence Day e Godzilla, ritrovare l’Emmerich dei tempi d’oro, benché un po’ sottotono, strappa pur sempre un sorriso.