INT-17
18.12.2022
Nel 1994, Milcho Manchevski vinceva il Leone d’oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con Prima della pioggia, il suo film di debutto. La successiva carriera del cineasta macedone l’ha visto lavorare a cavallo tra i continenti: la patria balcanica e gli Stati Uniti - ai quali è legato per gli studi di cinema - in libertà e volutamente lontano dallo studio system. Il Balkan Film Festival, organizzato nella Casa del Cinema di Roma, lo ha avuto tra i suoi ospiti di quest’anno. Lo scorso Ottobre il suo ultimo film, Kaymak, ha debuttato al festival di Tokyo ed è stato presentato nelle sale macedoni.
Sin da Prima della pioggia, molti dei suoi film, tra cui anche Dust (2001) e Willow (2019), sono caratterizzati da trame molteplici intrecciate fra loro. Lo riterrebbe un elemento che distingue il suo cinema? Cosa la ispira a compiere questo tipo di narrazione?
Sarei d’accordo. Adoro la narrazione tanto quanto adoro l’arte non convenzionale, post-concettuale. Nel meglio o nel peggio, la maggior parte del cinema narrativo si incentra sullo storytelling. Il che va bene, in quanto il racconto, e l’ascolto, di storie è una necessità umana essenziale, qualcosa che ci insegna, ci unisce, che ci permette di essere parte di un intero più grande e migliore, qualcosa che produce in noi un piacere enorme. Per quanto io apprezzi tutto ciò che è legato alla narrativa, trovo soffocanti i vincoli della narrazione lineare. Questo specialmente perché un singolo approccio dello storytelling è arrivato a dominare sul cinema di narrazione ed è praticamente dato per scontato, quasi fosse una legge della fisica. Ci sono tutte quelle analisi di sceneggiature e «dottori» di sceneggiatura, e la celebrazione del genere cinematografico, come se fosse un grosso risultato rientrare in una struttura data, come se essere un manierista fosse più importante e appagante che essere innovativi e capaci. Ci sono queste regole narrative: durata di due ore, distinzione tra protagonisti e personaggi di supporto, il necessario sviluppo del personaggio, l’inizio, la parte intermedia e la fine, il finale catartico. Giocare, metterle in discussione, riposizionarle…tutto ciò apre a nuove possibilità. In fondo al percorso troviamo spesso una narrazione innovativa ed un’arte ancora più soddisfacente. Per non parlare della pura gioia del divertirsi come un bambino. Non esiste arte senza il gioco, senza il divertimento puerile. Non ritengo di aver scoperto l’acqua calda, ma sono sconcertato dall’aderenza religiosa, dalla paura di questo sentimento, e di questa struttura da romanzo ottocentesco. Sono stati fatti alcuni grandi film pur rimanendo aggrappati a questo approccio, ma c’è tutto un vasto oceano là fuori ed io ci sguazzo a malapena.
In Majki (2010) e Bikini Moon (2017) ha esplorato il rapporto tra finzione, documentario, e rappresentazione della realtà. Ritiene che la realtà possa mai essere rappresentata senza alterazione dal cinema?
Non penso. Mi sono sempre interessato agli aspetti rappresentativi del fare cinema. Ne ho scritto due saggi, uno dei quali è stato presentato ad una conferenza al Vaticano e pubblicato in un libro (Truth and Fiction: Notes on (Exceptional) Faith in Art e Great Expectations: When a Film Is Not Macedonian Enough n.d.r). In aggiunta ai titoli già menzionati, ho anche diretto due cortometraggi che esplorano il rapporto tra verità, finzione e percezione: Thursday (2013) e The End of Time (2017). Mi ha sempre interessato l’argomento, ma è negli ultimi dodici anni che ho iniziato a dedicarmici in modo serio. In passato, ed ancora oggi, mi è stato proposto di dirigere sceneggiature o di adattare romanzi basati su personalità o eventi reali, e ho sempre declinato. Ho un problema etico serio con il concetto: non voglio parlare di eventi reali come se raccontassi verità scientifiche se non sono stato presente quando queste accadevano. Eppure, la maggior parte degli spettatori riterrà che stanno guardando qualcosa di vero. Uno modifica la realtà nel momento in cui accende la telecamera. Per non menzionare le centinaia, o migliaia, di decisioni che si fanno attraverso il processo. Come regista stai cambiando la realtà di cui parli e, che tu l’ammetta o no, ne manipoli la memoria. Noi cineasti siamo come gli archeologi primitivi che fanno irruzione in una tomba, rompono gli oggetti, raccolgono i gioielli e ritengono di aver ritrovato un pezzo di passato. Mi perplime l’arroganza con cui gran parte del cinema documentario opera: «raccontiamo la Verità con la V maiuscola!». Un po’ più di umiltà sarebbe ben accetta. Spesso la verità è elusiva e molteplice, o davvero complessa, complicata, fluida…il che non vuol dire che viviamo un’era della post-verità. Al contrario, la facilità con cui alcuni registi si attribuiscono «ricette» o «mappe» per ottenere una verità già determinata prima che il processo di produzione del film sia avviata è pericoloso. Mi sembra che ci siano più dogmi allo sbando oggi - a dettare cosa dire e come - che in qualsiasi tempo successivo a McCarthy e Stalin. Come parte dello stesso paradigma, spesso assistiamo alla seguente cosa: un soggetto o argomento o causa viene confusa con l’opera stessa che la racconta. Questo approccio, che è spesso molto forzato, sembra ignorare una verità semplice: si può fare un film brutto su un buon argomento, perché un buon film lo è a prescindere dal soggetto.
Lei fa parte del pantheon di registi che hanno vinto un Leone d’Oro con il loro lungometraggio di debutto. Come ha influenzato la sua carriera, ventotto anni dopo? Si è sentito sotto pressione, o l’ha aiutata?
Certamente entrambi. Un giorno le mie sceneggiature venivano mandate indietro dai produttori con le buste sigillate; il giorno successivo, mi venivano offerti adattamenti di Barrico e Graham Greene, progetti di grandi case di produzione con Nicole Kidman, Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. Il mio talento è uscito allo scoperto, ma era anche la rivincita su undici anni di lavoro all'oscuro, scrivendo ogni giorno, inviando sceneggiature a produttori, accettando il rifiuto, filmando i miei piccoli progetti di tasca mia, o con soldi presi in prestito, mentre lavoravo come traduttore, dipingevo case, portavo palloncini o scaricavo equipaggiamenti cinematografici. Quindi all’improvviso il mio lavoro è stato validato, tutti si sono messi ad analizzare ogni effetto sonoro, ogni frammento di dialogo, a rincorrermi per avere autografi…era bello avere opportunità lavorative. Il cinema è un’arte incasinata in quanto si ha bisogno di molti soldi, altre persone, e tecnologia per poter iniziare a fare le proprie opere. Ho passato gli undici anni successivi alla scuola di cinema a cercare di mettermi in una situazione nella quale potessi creare la mia arte. D’altro canto, la pressione era enorme. Ricordo una signora a Bologna che mi ha scorto sulla soglia della Cineteca, quando hanno proiettato Prima della pioggia ed alcuni cortometraggi precedenti, che mi ha riconosciuto e mi ha detto: «non lasciarti rapinare da Hollywood!». C’era anche pressione dal sistema Hollywoodiano che voleva farmi fare i suoi film e non i miei, anche se ero io a firmarli. C’era la pressione del pubblico macedone che voleva che io li rappresentassi al mondo, il che voleva dire fare lungometraggi che pubblicizzassero la vita in Macedonia. E certamente, c’era la pressione dei partiti politici che volevano vedere sul grande schermo la loro versione della realtà, o anche della storia, solitamente in base alla loro posizione rispetto al governo. Ho trascorso nove anni sulla black list pur essendo il brand nazionale più ricercato all’estero. Col senno di poi, sono estremamente grato che Prima della pioggia sia esploso dal nulla, il film è quasi stato annullato quando la Macedonia si è staccata dalla co-produzione, appena prima dell’inizio delle riprese, e quando Channel 4 si è ritirata dal progetto due settimane dopo gli inizi della lavorazione. Non scambierei con nulla al mondo le persone che ho incontrato, i professionisti con cui ho lavorato, le cose che ho visto e fatto…però, ritengo che i lavori che ho realizzato in seguito a Prima della Pioggia, pur non essendo così ampiamente visti dal pubblico, siano più complessi, rilevanti e divertenti.
Un altro aspetto peculiare della sua carriera cinematografica è essere stato in grado di lavorare in varie nazioni: la Macedonia, il Regno Unito, ma anche gli Stati Uniti, ecc. In cosa variava l'industria tra questi paesi? C’erano differenze tra il lavorare con un cast di lingua inglese, come per esempio in Dust , ed attori europei?
Certamente ci sono delle difformità, ma se ci si focalizza sull’essenza, e cioè l’arte che tutti fanno, si possono trovare più similitudini che differenze. La Macedonia è un piccolo stato, ma ha un’industria cinematografica più grande delle proprie dimensioni geografiche. Nonostante questo non è facile ottenere le esperienze, o conoscenze, necessarie. Ho sempre avuto la fortuna di lavorare con troupe molto dedite. A volte lavoravano sotto condizioni difficili, ma a loro importava molto del risultato finale. Ho incontrato persone del genere negli Stati Uniti, in Regno Unito, Francia, Germania e Russia, ma mi sono anche imbattuto in «mercenari», persone che spendono molta della loro energia su cose che non giovano al film in sé. Quando ero agli inizi, e per molto tempo dopo, mi focalizzavo sui risultati e non mi godevo il processo, questo in parte derivava dalla sfortuna che ho avuto con alcuni produttori, parzialmente per mancanza di saggezza. Ora mi godo il processo e parte delle motivazioni che mi spingono a fare questi film nascono dalla voglia di lavorare con le fantastiche persone che mi circondano: David Munns, Milka Anchevska, Jane Kortoshev, Ivana Tasev, Ulrik Boel Bentsen, Nik Gaster, Mishko Chunihin, Ian Prior, Nikola Ivanovic…ci ho messo una vita, ma finalmente ho una squadra! Per quanto riguarda gli attori lavorare con loro è la mia fase preferita del filmmaking. Gli attori macedoni sono di prima categoria, spesso sono più bravi delle star di Hollywood, solo che non hanno i mezzi e la pubblicità che è riservata alle stelle. Ho avuto la grande fortuna, o la persistenza e i criteri ferrei, di lavorare sempre con grandi attori. Non ho mai accettato le pressioni degli studios, o dei distributori, di lavorare con nomi «redditizi» se non erano anche davvero, davvero bravi. Per quanto riguarda le differenze, immagino che gli attori britannici siano più precisi nel comunicare, cosa che apprezzo molto.
Parlando di Dust, la cosa particolare è che la Macedonia è usata come location per rappresentare il West, il che può ricordare molto, al pubblico italiano, il caso degli spaghetti western, che sono stati girati principalmente in Spagna ed Italia. C’era un riferimento intenzionale a quel genere?
Ci sono solo due o tre esterni in Dust che sono ambientati in Oklahoma - nei flashback in bianco e nero - e abbiamo trovato location che erano molto convincenti. In aggiunta, abbiamo ricostruito interamente Cherry Orchard, il bordello, che poi uno dei produttori ha venduto ad un imprenditore che ha spostato l’intera struttura vicino alla capitale e ci ha aperto un ristorante ed un club equestre. Per il resto le riprese si sono svolte in Macedonia, dove il film è in parte ambientato, e in un paio di interni a Parigi, come le sequenze del transatlantico. Gli esterni newyorkesi invece sono stati girati veramente li, mentre gli interni erano ricostruiti in un teatro di posa in Germania. Ma il western è trascendentale rispetto alla location fisica. Mad Max è un western, anche se non è stato fatto, né ambientato, in America.
Ha anche lavorato alla televisione, ha diretto una puntata di The Wire. Come è stata questa esperienza, comparata al cinema?
Sembra un’anatra, cammina come un’anatra, starnazza come un’anatra… ma è un gufo! Il processo è simile, ma nella produzione televisiva c’è poco tempo per osservare l’aspetto creativo delle cose, per assorbirne la complessità. Certamente è stata una grande fortuna lavorare su The Wire, che è probabilmente una delle migliori trasmissioni televisive di sempre, principalmente per via di David Simon e della sua sceneggiatura. Ritenevo che il mio lavoro fosse di trasferire questa sceneggiatura ricca, divertente, verosimile e complessa senza alterazioni. Il che è dato anche dal poco potere che i registi hanno nella televisione americana, anche su HBO. Non è molto diverso dal vecchio studio system. Ho passato del tempo nella pre-produzione a creare un blocking deliberato ma elegante e sono riuscito a convincere il direttore della fotografia ad adoperare lenti più lunghe rispetto a quelle che lo show aveva usato in precedenza. Sono anche riuscito a fare le prove con gli attori, che hanno molto apprezzato, anche se è qualcosa di inconsueto nelle produzioni televisive. Abbiamo dovuto fare le riprese molto velocemente, e mi sono entusiasmato per questo aspetto: era come un’operazione militare e il tuo succo creativo doveva continuare a fluire, dovevi restare concentrato. Per me la grande differenza era la mancanza del controllo creativo che di solito richiedevo: la sceneggiatura non era mia, gran parte del casting non era mio, non ero stato coinvolto nel reclutamento della troupe…ma ho accettato tutto perché mi fidavo del produttore, Bob Colesberry.
I conflitti dei balcani di ogni secolo ed epoca sono un aspetto comune dei tuoi primi lungometraggi. Ritieni di essere stato in grado di fare la differenza? O che il cinema sia in grado di aumentare la consapevolezza sulle atrocità della guerra? In particolare, tenendo conto del conflitto in Ucraina.
Non ritengo che l’arte possa avere qualche effetto pragmatico. Coloro che fanno le guerre non si fanno facilmente influenzare dall’arte. Nonostante questo, l’arte, incluso il cinema, può avere un effetto diverso. Può parlarci, non necessariamente con parole o messaggi, della condizione umana, riguardo emozioni, e concetti, che sono difficili da comunicare in una conversazione. Ci rende più ricchi e migliori, ci fa sentire emozioni, riflettere e conoscere. Questi sono valori importanti ed è per questo che sono rattristato quando qualcuno cerca di usare l’arte in generale come uno strumento educativo o per i propri fini. L’arte è molto più grande dell’agenda ideologica di una persona.
Nel tuo ultimo film, Kaymak, esplori le vite erotiche di due coppie. Cosa ti ha ispirato a fare questo film? Inoltre, l’argomento trattato ha portato problemi nel realizzarlo?
Avevo la necessità di fare una storia d’amore per adulti. Molte delle storie d’amore sono infantili, non letteralmente per bambini, ma l’approccio verso il mondo complesso dell’amore, incluso il romanticismo, la lussuria, il concepimento, la responsabilità e la fedeltà, è piatto e conservativo: il ragazzo incontra la ragazza, il ragazzo perde la ragazza, poi riesce a conquistarla e vivono per sempre felici e contenti. Nemmeno i bambini sono più così ingenui, se lo sono mai stati. Mi mancavano le complessità e quelle contraddizioni dei rapporti tra adulti. Più mi ci immergevo, più divertente e triste diventava la storia che stavo sviluppando. Gran parte del film è ispirata ad una storia vera, proprio la parte più disturbante e più incredibile. Alla fine, il film è diventato una storia d’amore tra persone complicate, il che le rende più reali, tutti sono vittime e perpetratori. È anche diventato un film sulle libertà personali e sulla libertà sessuale. Non è stato difficile far partire la produzione, certamente abbiamo avuta tutta una serie di rimproveri dogmatici sul cosa potevamo dire o fare, ed abbiamo quasi perso il supporto di Eurimages per via di questa censura preventiva, ma il problema principale era la ricerca di fondi presso l’ente cinematografico macedone, che ha usato la copertura del covid per spendere metà di queste finanze in film che non sono mai stati fatti. Uno si dovrebbe solamente chiedere: che beneficio ha avuto il direttore da queste decisioni che hanno bypassato qualsiasi procedura?
C’è molta comicità in Kaymak in rapporto ai tuoi film precedenti. Come mai?
Non so. Sembrava giusto. Forse rido di più della vita rispetto ad un tempo…
Emerge anche la differenza tra le due coppie, sia per l’età che per la classe sociale. C’è un’idea di lotta fra classi? Si collega in qualche modo al tema erotico?
Si, certamente c’è un problema legato alle classi sociali. È il 2022, e siamo pienamente alle prese con le politiche legate all’identità, soprattutto in America, ma sta diventando sempre più evidente che l’inequità economica resta una delle più grandi cause di ingiustizia sia nei paesi ricchi che in quelli poveri. Sono curioso di vedere tra 10 o 20 anni se lo spostamento della focalizzazione su altre forme di ingiustizia, che non sono legate alle classi economiche, renderà più giusta la società. Riguardo alla lotta di classe e il sesso penso che sia qualcosa che ho imparato da Wilhelm Reich e Dusan Makavejev.
Il finale di Kaymak fa pensare che si tratti di un avvertimento. È così?
Non lo intendevo in tal senso. Le cose nella vita sono troppo complicate affinché si possano trarne avvertimenti. Come ho detto prima, non ritengo che l’arte debba essere trattata come un’appendice per l’aula scolastica. È difficile parlarne senza fare spoiler, diciamo solo che è stato molto divertente.
In molte inquadrature e scene sembra esserci un’enfasi sulla location, la città di Skopje, attraverso cantieri e simili.
La città inumana, che scatena i suoi abitanti gli uni contro gli altri per amore dello status e del profitto, è uno dei personaggi di Kaymak. Così è Skopje, una città stretta dall’avidità della mafia urbanistica e dai politici corrotti, dove ogni centimetro del marciapiede è trasformato in un parcheggio così da costringere i disabili a muoversi in mezzo alla strada, e dove grossi SUV suonano il clacson contro di loro perché bloccano il traffico, dove due edifici che si affacciano l’uno davanti all’altro possono essere anche a soli tre metri di distanza, dove la città e lo Stato nascondono le vere statistiche sulla densità della popolazione, dove i professori dell’urbanistica progettano nuovi piani dei palazzi quadruplicandone la densità, e tutto ciò è legale.
Quale sarà il suo prossimo progetto?
Riguarderà lo stupendo amore tra un fratello ed una sorella che rubano i busti di eroi nazionali per venderli al chilo.
INT-17
18.12.2022
Nel 1994, Milcho Manchevski vinceva il Leone d’oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con Prima della pioggia, il suo film di debutto. La successiva carriera del cineasta macedone l’ha visto lavorare a cavallo tra i continenti: la patria balcanica e gli Stati Uniti - ai quali è legato per gli studi di cinema - in libertà e volutamente lontano dallo studio system. Il Balkan Film Festival, organizzato nella Casa del Cinema di Roma, lo ha avuto tra i suoi ospiti di quest’anno. Lo scorso Ottobre il suo ultimo film, Kaymak, ha debuttato al festival di Tokyo ed è stato presentato nelle sale macedoni.
Sin da Prima della pioggia, molti dei suoi film, tra cui anche Dust (2001) e Willow (2019), sono caratterizzati da trame molteplici intrecciate fra loro. Lo riterrebbe un elemento che distingue il suo cinema? Cosa la ispira a compiere questo tipo di narrazione?
Sarei d’accordo. Adoro la narrazione tanto quanto adoro l’arte non convenzionale, post-concettuale. Nel meglio o nel peggio, la maggior parte del cinema narrativo si incentra sullo storytelling. Il che va bene, in quanto il racconto, e l’ascolto, di storie è una necessità umana essenziale, qualcosa che ci insegna, ci unisce, che ci permette di essere parte di un intero più grande e migliore, qualcosa che produce in noi un piacere enorme. Per quanto io apprezzi tutto ciò che è legato alla narrativa, trovo soffocanti i vincoli della narrazione lineare. Questo specialmente perché un singolo approccio dello storytelling è arrivato a dominare sul cinema di narrazione ed è praticamente dato per scontato, quasi fosse una legge della fisica. Ci sono tutte quelle analisi di sceneggiature e «dottori» di sceneggiatura, e la celebrazione del genere cinematografico, come se fosse un grosso risultato rientrare in una struttura data, come se essere un manierista fosse più importante e appagante che essere innovativi e capaci. Ci sono queste regole narrative: durata di due ore, distinzione tra protagonisti e personaggi di supporto, il necessario sviluppo del personaggio, l’inizio, la parte intermedia e la fine, il finale catartico. Giocare, metterle in discussione, riposizionarle…tutto ciò apre a nuove possibilità. In fondo al percorso troviamo spesso una narrazione innovativa ed un’arte ancora più soddisfacente. Per non parlare della pura gioia del divertirsi come un bambino. Non esiste arte senza il gioco, senza il divertimento puerile. Non ritengo di aver scoperto l’acqua calda, ma sono sconcertato dall’aderenza religiosa, dalla paura di questo sentimento, e di questa struttura da romanzo ottocentesco. Sono stati fatti alcuni grandi film pur rimanendo aggrappati a questo approccio, ma c’è tutto un vasto oceano là fuori ed io ci sguazzo a malapena.
In Majki (2010) e Bikini Moon (2017) ha esplorato il rapporto tra finzione, documentario, e rappresentazione della realtà. Ritiene che la realtà possa mai essere rappresentata senza alterazione dal cinema?
Non penso. Mi sono sempre interessato agli aspetti rappresentativi del fare cinema. Ne ho scritto due saggi, uno dei quali è stato presentato ad una conferenza al Vaticano e pubblicato in un libro (Truth and Fiction: Notes on (Exceptional) Faith in Art e Great Expectations: When a Film Is Not Macedonian Enough n.d.r). In aggiunta ai titoli già menzionati, ho anche diretto due cortometraggi che esplorano il rapporto tra verità, finzione e percezione: Thursday (2013) e The End of Time (2017). Mi ha sempre interessato l’argomento, ma è negli ultimi dodici anni che ho iniziato a dedicarmici in modo serio. In passato, ed ancora oggi, mi è stato proposto di dirigere sceneggiature o di adattare romanzi basati su personalità o eventi reali, e ho sempre declinato. Ho un problema etico serio con il concetto: non voglio parlare di eventi reali come se raccontassi verità scientifiche se non sono stato presente quando queste accadevano. Eppure, la maggior parte degli spettatori riterrà che stanno guardando qualcosa di vero. Uno modifica la realtà nel momento in cui accende la telecamera. Per non menzionare le centinaia, o migliaia, di decisioni che si fanno attraverso il processo. Come regista stai cambiando la realtà di cui parli e, che tu l’ammetta o no, ne manipoli la memoria. Noi cineasti siamo come gli archeologi primitivi che fanno irruzione in una tomba, rompono gli oggetti, raccolgono i gioielli e ritengono di aver ritrovato un pezzo di passato. Mi perplime l’arroganza con cui gran parte del cinema documentario opera: «raccontiamo la Verità con la V maiuscola!». Un po’ più di umiltà sarebbe ben accetta. Spesso la verità è elusiva e molteplice, o davvero complessa, complicata, fluida…il che non vuol dire che viviamo un’era della post-verità. Al contrario, la facilità con cui alcuni registi si attribuiscono «ricette» o «mappe» per ottenere una verità già determinata prima che il processo di produzione del film sia avviata è pericoloso. Mi sembra che ci siano più dogmi allo sbando oggi - a dettare cosa dire e come - che in qualsiasi tempo successivo a McCarthy e Stalin. Come parte dello stesso paradigma, spesso assistiamo alla seguente cosa: un soggetto o argomento o causa viene confusa con l’opera stessa che la racconta. Questo approccio, che è spesso molto forzato, sembra ignorare una verità semplice: si può fare un film brutto su un buon argomento, perché un buon film lo è a prescindere dal soggetto.
Lei fa parte del pantheon di registi che hanno vinto un Leone d’Oro con il loro lungometraggio di debutto. Come ha influenzato la sua carriera, ventotto anni dopo? Si è sentito sotto pressione, o l’ha aiutata?
Certamente entrambi. Un giorno le mie sceneggiature venivano mandate indietro dai produttori con le buste sigillate; il giorno successivo, mi venivano offerti adattamenti di Barrico e Graham Greene, progetti di grandi case di produzione con Nicole Kidman, Leonardo DiCaprio e Brad Pitt. Il mio talento è uscito allo scoperto, ma era anche la rivincita su undici anni di lavoro all'oscuro, scrivendo ogni giorno, inviando sceneggiature a produttori, accettando il rifiuto, filmando i miei piccoli progetti di tasca mia, o con soldi presi in prestito, mentre lavoravo come traduttore, dipingevo case, portavo palloncini o scaricavo equipaggiamenti cinematografici. Quindi all’improvviso il mio lavoro è stato validato, tutti si sono messi ad analizzare ogni effetto sonoro, ogni frammento di dialogo, a rincorrermi per avere autografi…era bello avere opportunità lavorative. Il cinema è un’arte incasinata in quanto si ha bisogno di molti soldi, altre persone, e tecnologia per poter iniziare a fare le proprie opere. Ho passato gli undici anni successivi alla scuola di cinema a cercare di mettermi in una situazione nella quale potessi creare la mia arte. D’altro canto, la pressione era enorme. Ricordo una signora a Bologna che mi ha scorto sulla soglia della Cineteca, quando hanno proiettato Prima della pioggia ed alcuni cortometraggi precedenti, che mi ha riconosciuto e mi ha detto: «non lasciarti rapinare da Hollywood!». C’era anche pressione dal sistema Hollywoodiano che voleva farmi fare i suoi film e non i miei, anche se ero io a firmarli. C’era la pressione del pubblico macedone che voleva che io li rappresentassi al mondo, il che voleva dire fare lungometraggi che pubblicizzassero la vita in Macedonia. E certamente, c’era la pressione dei partiti politici che volevano vedere sul grande schermo la loro versione della realtà, o anche della storia, solitamente in base alla loro posizione rispetto al governo. Ho trascorso nove anni sulla black list pur essendo il brand nazionale più ricercato all’estero. Col senno di poi, sono estremamente grato che Prima della pioggia sia esploso dal nulla, il film è quasi stato annullato quando la Macedonia si è staccata dalla co-produzione, appena prima dell’inizio delle riprese, e quando Channel 4 si è ritirata dal progetto due settimane dopo gli inizi della lavorazione. Non scambierei con nulla al mondo le persone che ho incontrato, i professionisti con cui ho lavorato, le cose che ho visto e fatto…però, ritengo che i lavori che ho realizzato in seguito a Prima della Pioggia, pur non essendo così ampiamente visti dal pubblico, siano più complessi, rilevanti e divertenti.
Un altro aspetto peculiare della sua carriera cinematografica è essere stato in grado di lavorare in varie nazioni: la Macedonia, il Regno Unito, ma anche gli Stati Uniti, ecc. In cosa variava l'industria tra questi paesi? C’erano differenze tra il lavorare con un cast di lingua inglese, come per esempio in Dust , ed attori europei?
Certamente ci sono delle difformità, ma se ci si focalizza sull’essenza, e cioè l’arte che tutti fanno, si possono trovare più similitudini che differenze. La Macedonia è un piccolo stato, ma ha un’industria cinematografica più grande delle proprie dimensioni geografiche. Nonostante questo non è facile ottenere le esperienze, o conoscenze, necessarie. Ho sempre avuto la fortuna di lavorare con troupe molto dedite. A volte lavoravano sotto condizioni difficili, ma a loro importava molto del risultato finale. Ho incontrato persone del genere negli Stati Uniti, in Regno Unito, Francia, Germania e Russia, ma mi sono anche imbattuto in «mercenari», persone che spendono molta della loro energia su cose che non giovano al film in sé. Quando ero agli inizi, e per molto tempo dopo, mi focalizzavo sui risultati e non mi godevo il processo, questo in parte derivava dalla sfortuna che ho avuto con alcuni produttori, parzialmente per mancanza di saggezza. Ora mi godo il processo e parte delle motivazioni che mi spingono a fare questi film nascono dalla voglia di lavorare con le fantastiche persone che mi circondano: David Munns, Milka Anchevska, Jane Kortoshev, Ivana Tasev, Ulrik Boel Bentsen, Nik Gaster, Mishko Chunihin, Ian Prior, Nikola Ivanovic…ci ho messo una vita, ma finalmente ho una squadra! Per quanto riguarda gli attori lavorare con loro è la mia fase preferita del filmmaking. Gli attori macedoni sono di prima categoria, spesso sono più bravi delle star di Hollywood, solo che non hanno i mezzi e la pubblicità che è riservata alle stelle. Ho avuto la grande fortuna, o la persistenza e i criteri ferrei, di lavorare sempre con grandi attori. Non ho mai accettato le pressioni degli studios, o dei distributori, di lavorare con nomi «redditizi» se non erano anche davvero, davvero bravi. Per quanto riguarda le differenze, immagino che gli attori britannici siano più precisi nel comunicare, cosa che apprezzo molto.
Parlando di Dust, la cosa particolare è che la Macedonia è usata come location per rappresentare il West, il che può ricordare molto, al pubblico italiano, il caso degli spaghetti western, che sono stati girati principalmente in Spagna ed Italia. C’era un riferimento intenzionale a quel genere?
Ci sono solo due o tre esterni in Dust che sono ambientati in Oklahoma - nei flashback in bianco e nero - e abbiamo trovato location che erano molto convincenti. In aggiunta, abbiamo ricostruito interamente Cherry Orchard, il bordello, che poi uno dei produttori ha venduto ad un imprenditore che ha spostato l’intera struttura vicino alla capitale e ci ha aperto un ristorante ed un club equestre. Per il resto le riprese si sono svolte in Macedonia, dove il film è in parte ambientato, e in un paio di interni a Parigi, come le sequenze del transatlantico. Gli esterni newyorkesi invece sono stati girati veramente li, mentre gli interni erano ricostruiti in un teatro di posa in Germania. Ma il western è trascendentale rispetto alla location fisica. Mad Max è un western, anche se non è stato fatto, né ambientato, in America.
Ha anche lavorato alla televisione, ha diretto una puntata di The Wire. Come è stata questa esperienza, comparata al cinema?
Sembra un’anatra, cammina come un’anatra, starnazza come un’anatra… ma è un gufo! Il processo è simile, ma nella produzione televisiva c’è poco tempo per osservare l’aspetto creativo delle cose, per assorbirne la complessità. Certamente è stata una grande fortuna lavorare su The Wire, che è probabilmente una delle migliori trasmissioni televisive di sempre, principalmente per via di David Simon e della sua sceneggiatura. Ritenevo che il mio lavoro fosse di trasferire questa sceneggiatura ricca, divertente, verosimile e complessa senza alterazioni. Il che è dato anche dal poco potere che i registi hanno nella televisione americana, anche su HBO. Non è molto diverso dal vecchio studio system. Ho passato del tempo nella pre-produzione a creare un blocking deliberato ma elegante e sono riuscito a convincere il direttore della fotografia ad adoperare lenti più lunghe rispetto a quelle che lo show aveva usato in precedenza. Sono anche riuscito a fare le prove con gli attori, che hanno molto apprezzato, anche se è qualcosa di inconsueto nelle produzioni televisive. Abbiamo dovuto fare le riprese molto velocemente, e mi sono entusiasmato per questo aspetto: era come un’operazione militare e il tuo succo creativo doveva continuare a fluire, dovevi restare concentrato. Per me la grande differenza era la mancanza del controllo creativo che di solito richiedevo: la sceneggiatura non era mia, gran parte del casting non era mio, non ero stato coinvolto nel reclutamento della troupe…ma ho accettato tutto perché mi fidavo del produttore, Bob Colesberry.
I conflitti dei balcani di ogni secolo ed epoca sono un aspetto comune dei tuoi primi lungometraggi. Ritieni di essere stato in grado di fare la differenza? O che il cinema sia in grado di aumentare la consapevolezza sulle atrocità della guerra? In particolare, tenendo conto del conflitto in Ucraina.
Non ritengo che l’arte possa avere qualche effetto pragmatico. Coloro che fanno le guerre non si fanno facilmente influenzare dall’arte. Nonostante questo, l’arte, incluso il cinema, può avere un effetto diverso. Può parlarci, non necessariamente con parole o messaggi, della condizione umana, riguardo emozioni, e concetti, che sono difficili da comunicare in una conversazione. Ci rende più ricchi e migliori, ci fa sentire emozioni, riflettere e conoscere. Questi sono valori importanti ed è per questo che sono rattristato quando qualcuno cerca di usare l’arte in generale come uno strumento educativo o per i propri fini. L’arte è molto più grande dell’agenda ideologica di una persona.
Nel tuo ultimo film, Kaymak, esplori le vite erotiche di due coppie. Cosa ti ha ispirato a fare questo film? Inoltre, l’argomento trattato ha portato problemi nel realizzarlo?
Avevo la necessità di fare una storia d’amore per adulti. Molte delle storie d’amore sono infantili, non letteralmente per bambini, ma l’approccio verso il mondo complesso dell’amore, incluso il romanticismo, la lussuria, il concepimento, la responsabilità e la fedeltà, è piatto e conservativo: il ragazzo incontra la ragazza, il ragazzo perde la ragazza, poi riesce a conquistarla e vivono per sempre felici e contenti. Nemmeno i bambini sono più così ingenui, se lo sono mai stati. Mi mancavano le complessità e quelle contraddizioni dei rapporti tra adulti. Più mi ci immergevo, più divertente e triste diventava la storia che stavo sviluppando. Gran parte del film è ispirata ad una storia vera, proprio la parte più disturbante e più incredibile. Alla fine, il film è diventato una storia d’amore tra persone complicate, il che le rende più reali, tutti sono vittime e perpetratori. È anche diventato un film sulle libertà personali e sulla libertà sessuale. Non è stato difficile far partire la produzione, certamente abbiamo avuta tutta una serie di rimproveri dogmatici sul cosa potevamo dire o fare, ed abbiamo quasi perso il supporto di Eurimages per via di questa censura preventiva, ma il problema principale era la ricerca di fondi presso l’ente cinematografico macedone, che ha usato la copertura del covid per spendere metà di queste finanze in film che non sono mai stati fatti. Uno si dovrebbe solamente chiedere: che beneficio ha avuto il direttore da queste decisioni che hanno bypassato qualsiasi procedura?
C’è molta comicità in Kaymak in rapporto ai tuoi film precedenti. Come mai?
Non so. Sembrava giusto. Forse rido di più della vita rispetto ad un tempo…
Emerge anche la differenza tra le due coppie, sia per l’età che per la classe sociale. C’è un’idea di lotta fra classi? Si collega in qualche modo al tema erotico?
Si, certamente c’è un problema legato alle classi sociali. È il 2022, e siamo pienamente alle prese con le politiche legate all’identità, soprattutto in America, ma sta diventando sempre più evidente che l’inequità economica resta una delle più grandi cause di ingiustizia sia nei paesi ricchi che in quelli poveri. Sono curioso di vedere tra 10 o 20 anni se lo spostamento della focalizzazione su altre forme di ingiustizia, che non sono legate alle classi economiche, renderà più giusta la società. Riguardo alla lotta di classe e il sesso penso che sia qualcosa che ho imparato da Wilhelm Reich e Dusan Makavejev.
Il finale di Kaymak fa pensare che si tratti di un avvertimento. È così?
Non lo intendevo in tal senso. Le cose nella vita sono troppo complicate affinché si possano trarne avvertimenti. Come ho detto prima, non ritengo che l’arte debba essere trattata come un’appendice per l’aula scolastica. È difficile parlarne senza fare spoiler, diciamo solo che è stato molto divertente.
In molte inquadrature e scene sembra esserci un’enfasi sulla location, la città di Skopje, attraverso cantieri e simili.
La città inumana, che scatena i suoi abitanti gli uni contro gli altri per amore dello status e del profitto, è uno dei personaggi di Kaymak. Così è Skopje, una città stretta dall’avidità della mafia urbanistica e dai politici corrotti, dove ogni centimetro del marciapiede è trasformato in un parcheggio così da costringere i disabili a muoversi in mezzo alla strada, e dove grossi SUV suonano il clacson contro di loro perché bloccano il traffico, dove due edifici che si affacciano l’uno davanti all’altro possono essere anche a soli tre metri di distanza, dove la città e lo Stato nascondono le vere statistiche sulla densità della popolazione, dove i professori dell’urbanistica progettano nuovi piani dei palazzi quadruplicandone la densità, e tutto ciò è legale.
Quale sarà il suo prossimo progetto?
Riguarderà lo stupendo amore tra un fratello ed una sorella che rubano i busti di eroi nazionali per venderli al chilo.