NC-113
20.05.2022
Barbara Loden non è mai esistita. L’ho vista con i miei occhi mentre veniva tagliata a metà da un comico con un buffo naso e due grandi baffi. Era uno spettacolo televisivo in bianco e nero degli anni Cinquanta, di quelli che all’epoca devono aver fatto molto ridere e che oggi fanno un po’ tenerezza. Il pubblico raggiungeva l’apice della goduria quando la lama del comico trafiggeva la cassa in cui era sdraiata la sua "assistente poco vestita", così si chiamava Barbara Loden nel programma. Perché era lei la donna nella cassa, quella che ho visto tagliata a metà da un comico strano con un naso buffo e dei grandi baffi. Ovviamente tutta la gag era un trucco, però credo che il merito di quell’illusione non spettasse all’abilità del comico. Barbara Loden poteva essere tagliata a metà perché in fondo non esisteva come esistono le altre persone che hanno un busto legato alle gambe, un respiro, della pelle, delle ossa.
Altrimenti, se si pensa che sia davvero esistita, se si crede che abbia avuto un corpo come noi, allora si deve spiegare come sia stato possibile che questo corpo si sia ricongiunto dopo essere stato tagliato a metà. Non solo. Si deve anche spiegare come nel corso della sua vita questo corpo, così esile e portentoso, abbia potuto sostenere tanta bellezza e tragedia, come abbia attraversato il cinema classico e il cinema moderno, incarnando il tramonto dell’uno e il dirompente smarrimento dell’altro. Se si crede che Barbara Loden sia davvero esistita si deve dire che il suo corpo è nato in America nel 1932 ed è morto nel 1980 per un tumore al seno. In mezzo è stato corpo di fotomodella, soubrette, attrice teatrale e cinematografica. Una volta sola è stato corpo di regista, ma una volta che vale le decine di molti altri. Io non penso che sia esistito un corpo del genere, quindi per quello che rimane scriverò di lui come se fosse una creazione del mio computer, un flusso di immagini, uno spettro che torna ad apparirmi.
Elia Kazan deve averla molto amata Barbara Loden, tanto che i due si sposarono nel 1966. Eppure, quando ho visto i due film di Kazan nei quali lei ha recitato, non ho avvertito neanche per un attimo la sensazione che l’uomo dietro alla macchina da presa amasse la donna che stava riprendendo. Del resto nel 1960, anno di Wild River, si erano appena conosciuti e l’anno dopo, quando girarono Splendor in the Grass, chissà com’erano i loro rapporti. Resta il fatto che un uomo che ama una donna non la filma come Kazan ha filmato Loden, o almeno trova per lei delle parti migliori di quelle che lui le aveva trovato, quindi mi piace supporre che la scintilla sia scoccata in seguito.
In Wild River Loden è l’impettita segretaria di Montgomery Clift. Compare in tre sequenze e dice pochissime battute, giusto quelle necessarie per connotare l’acida civetteria del suo personaggio. In Splendor in the Grass interpreta invece la sorella di Warren Beatty, disinibita giovane anticonformista in lite col padre ed elemento scandaloso per la puritana società americana di fine anni Venti. Esce di scena a metà film, scappando in auto tra le lacrime da una festa di Capodanno in cui si è ubriacata e ha subito una violenza. La repressa asessuata e la bambola frivola, queste dunque le sembianze che Barbara Loden ha assunto finché è stato un uomo a filmarla. Due tipi privi di spessore più che due soggettività. Due margini che hanno il loro scopo nell’essere funzione di altro. Ma i fantasmi sono capricciosi. Non li ingabbi, ti scappano tra le dita e spariscono appena volti gli occhi. Quello di Barbara Loden sfuggì al cinema di suo marito, ormai maestoso e decadente come una cattedrale in fiamme, manifestandosi tempo dopo, stavolta senza altri sguardi a dargli forma. La ragazza che abbandonò il vecchio anno sfrecciando in automobile si risvegliò in Wanda (1970) nove anni dopo, scarmigliata sul divano di un soggiorno sottosopra. Così, tra la sorella di Warren Beatty e Wanda c’è lo stacco a nero di un’arte che si rinnova e problematizza le sue crisi, la vertiginosa distanza che separa un’epoca dall’altra, lo specchio dal sasso che lo frantuma.
Colei che aveva dichiarato di odiare il cinema «perché le persone nei film sono tutte perfette e mi fanno sentire inferiore» scrive, dirige e interpreta un film che di perfetto non ha nulla e che anzi su questa imperfezione fonda il suo miracolo. Una famosa Factory, un regista di origini greche, due motociclisti hippy e una coppia di gangster avevano via via spalancato territori vergini agli spettri regolati fin lì in America dal decoupage e da una narrazione di ferro. Wanda sconfina in questi sentieri ignoti, raccontando il vagare esistenziale di una donna alla ricerca della propria identità e del proprio senso nel mondo.
La protagonista del film non ha una casa. Lavora in un’azienda tessile dove è vessata dal suo capo. Fa tardi in tribunale per l’udienza di divorzio e quando arriva acconsente a lasciare i figli con l’ex marito perché «staranno meglio con lui». Mentre beve in un bar viene rimorchiata da un uomo col quale trascorre un pomeriggio in motel prima di essere abbandonata in strada. Cammina in un centro commerciale, i manichini in vetrina le assomigliano. Entra in un cinema, si addormenta in sala durante il film. Verso sera viene rapita da un signore che ha appena commesso un omicidio in un locale. I due partono, lui deve fuggire e lei può essergli utile. A letto, nonostante tutto, Wanda cerca di essere carina con il suo sequestratore ma l’uomo è cattivo e odia le persone. Riprendono la fuga, la polizia li sta cercando. Organizzano una rapina in banca ma il piano non funziona. L’uomo muore, Wanda fugge ma ne incontra un altro che vuole farle del male. Si perde nel bosco, piange. Entra in un locale dove la gente è allegra e sta facendo festa. Si siede a un tavolo con alcune di loro. La musica è alta e lei è stanca. Le offrono da fumare, la vita sembra una cosa facile. Lei fuma ma non ride. Fermo immagine. Il film finisce come è iniziato; non sappiamo dove dormirà Wanda quella notte.
Per chi crede all’esistenza di Barbara Loden, questa storia l’ha raccontata lei, nel 1970, in America. L’ha fatto in maniera sbilenca e traballante, in un periodo in cui le donne non potevano determinare la rappresentazione di cui erano oggetto. L’ha fatto con due lire e con attori presi dalla strada, probabilmente in reazione al cinema perfetto e bellissimo degli uomini, quello dei dolly e delle storie a lieto fine, delle segretarie asessuate e delle bambole frivole. Wanda è un film desolante, alieno e alienato, il cui squallido realismo destabilizza e crea voragini. Un grande film del rifiuto femminista, diranno poi, anche se Loden non ne era consapevole. Se infatti da una parte il film anticipa temi che i movimenti femministi di quegli anni avrebbero assunto come battaglie nodali del loro agire, quali la messa in ridicolo della violenza maschile, lo sfruttamento lavorativo delle donne e la loro libera rivendicazione di esprimersi riguardo alla propria sessualità, alla maternità e al ruolo sociale imposto, il personaggio di Wanda non può certo dirsi icona della lotta femminile. La sua traiettoria non raggiunge infatti una consapevolezza emancipatrice, il suo debole desiderio non culmina mai nell’autocoscienza o in un’ideologia collettiva rivoluzionaria. All’opposto, per tutto il film Wanda non fa che cercare l’approvazione di uomini che la maltrattano, arrivando addirittura a rischiare la vita per il delinquente che l’ha rapita. La sua identità, invece di ritrovarsi, si scinde in frantumi sempre meno componibili. Forse, più che nel messaggio politico, la disorientante potenza del film risiede proprio nell’anti-epica inettitudine della sua protagonista.
Wanda non è in grado di fare la madre. Non è una buona moglie ma neanche una prostituta capace di soddisfare i suoi clienti. È troppo lenta per lavorare ai ritmi del mercato, allora gioca a fare la criminale ma è così sbadata che fa saltare goffamente il piano del suo complice. La sua vita fallisce ogni volta di nuovo. Eppure, di fallimenti così splendidi e radicali il cinema non ne aveva mai raccontati. L’improvviso arrestarsi finale della pellicola sul viso stordito di Wanda, accerchiata dalla gioia altrui e stremata dal proprio dolore, ricorda l’intensità dell’ultima inquadratura de I 400 colpi (1959) di Truffaut. Lì il giovanissimo Antoine Doinel ci guardava, interrogandoci anche sul nostro ruolo di spettatori. Qui Wanda chiude gli occhi, non siamo noi che possiamo arginarne la tristezza. È insieme un addio e un monito: guai a voler catturare la solitudine di un fantasma.
NC-113
20.05.2022
Barbara Loden non è mai esistita. L’ho vista con i miei occhi mentre veniva tagliata a metà da un comico con un buffo naso e due grandi baffi. Era uno spettacolo televisivo in bianco e nero degli anni Cinquanta, di quelli che all’epoca devono aver fatto molto ridere e che oggi fanno un po’ tenerezza. Il pubblico raggiungeva l’apice della goduria quando la lama del comico trafiggeva la cassa in cui era sdraiata la sua "assistente poco vestita", così si chiamava Barbara Loden nel programma. Perché era lei la donna nella cassa, quella che ho visto tagliata a metà da un comico strano con un naso buffo e dei grandi baffi. Ovviamente tutta la gag era un trucco, però credo che il merito di quell’illusione non spettasse all’abilità del comico. Barbara Loden poteva essere tagliata a metà perché in fondo non esisteva come esistono le altre persone che hanno un busto legato alle gambe, un respiro, della pelle, delle ossa.
Altrimenti, se si pensa che sia davvero esistita, se si crede che abbia avuto un corpo come noi, allora si deve spiegare come sia stato possibile che questo corpo si sia ricongiunto dopo essere stato tagliato a metà. Non solo. Si deve anche spiegare come nel corso della sua vita questo corpo, così esile e portentoso, abbia potuto sostenere tanta bellezza e tragedia, come abbia attraversato il cinema classico e il cinema moderno, incarnando il tramonto dell’uno e il dirompente smarrimento dell’altro. Se si crede che Barbara Loden sia davvero esistita si deve dire che il suo corpo è nato in America nel 1932 ed è morto nel 1980 per un tumore al seno. In mezzo è stato corpo di fotomodella, soubrette, attrice teatrale e cinematografica. Una volta sola è stato corpo di regista, ma una volta che vale le decine di molti altri. Io non penso che sia esistito un corpo del genere, quindi per quello che rimane scriverò di lui come se fosse una creazione del mio computer, un flusso di immagini, uno spettro che torna ad apparirmi.
Elia Kazan deve averla molto amata Barbara Loden, tanto che i due si sposarono nel 1966. Eppure, quando ho visto i due film di Kazan nei quali lei ha recitato, non ho avvertito neanche per un attimo la sensazione che l’uomo dietro alla macchina da presa amasse la donna che stava riprendendo. Del resto nel 1960, anno di Wild River, si erano appena conosciuti e l’anno dopo, quando girarono Splendor in the Grass, chissà com’erano i loro rapporti. Resta il fatto che un uomo che ama una donna non la filma come Kazan ha filmato Loden, o almeno trova per lei delle parti migliori di quelle che lui le aveva trovato, quindi mi piace supporre che la scintilla sia scoccata in seguito.
In Wild River Loden è l’impettita segretaria di Montgomery Clift. Compare in tre sequenze e dice pochissime battute, giusto quelle necessarie per connotare l’acida civetteria del suo personaggio. In Splendor in the Grass interpreta invece la sorella di Warren Beatty, disinibita giovane anticonformista in lite col padre ed elemento scandaloso per la puritana società americana di fine anni Venti. Esce di scena a metà film, scappando in auto tra le lacrime da una festa di Capodanno in cui si è ubriacata e ha subito una violenza. La repressa asessuata e la bambola frivola, queste dunque le sembianze che Barbara Loden ha assunto finché è stato un uomo a filmarla. Due tipi privi di spessore più che due soggettività. Due margini che hanno il loro scopo nell’essere funzione di altro. Ma i fantasmi sono capricciosi. Non li ingabbi, ti scappano tra le dita e spariscono appena volti gli occhi. Quello di Barbara Loden sfuggì al cinema di suo marito, ormai maestoso e decadente come una cattedrale in fiamme, manifestandosi tempo dopo, stavolta senza altri sguardi a dargli forma. La ragazza che abbandonò il vecchio anno sfrecciando in automobile si risvegliò in Wanda (1970) nove anni dopo, scarmigliata sul divano di un soggiorno sottosopra. Così, tra la sorella di Warren Beatty e Wanda c’è lo stacco a nero di un’arte che si rinnova e problematizza le sue crisi, la vertiginosa distanza che separa un’epoca dall’altra, lo specchio dal sasso che lo frantuma.
Colei che aveva dichiarato di odiare il cinema «perché le persone nei film sono tutte perfette e mi fanno sentire inferiore» scrive, dirige e interpreta un film che di perfetto non ha nulla e che anzi su questa imperfezione fonda il suo miracolo. Una famosa Factory, un regista di origini greche, due motociclisti hippy e una coppia di gangster avevano via via spalancato territori vergini agli spettri regolati fin lì in America dal decoupage e da una narrazione di ferro. Wanda sconfina in questi sentieri ignoti, raccontando il vagare esistenziale di una donna alla ricerca della propria identità e del proprio senso nel mondo.
La protagonista del film non ha una casa. Lavora in un’azienda tessile dove è vessata dal suo capo. Fa tardi in tribunale per l’udienza di divorzio e quando arriva acconsente a lasciare i figli con l’ex marito perché «staranno meglio con lui». Mentre beve in un bar viene rimorchiata da un uomo col quale trascorre un pomeriggio in motel prima di essere abbandonata in strada. Cammina in un centro commerciale, i manichini in vetrina le assomigliano. Entra in un cinema, si addormenta in sala durante il film. Verso sera viene rapita da un signore che ha appena commesso un omicidio in un locale. I due partono, lui deve fuggire e lei può essergli utile. A letto, nonostante tutto, Wanda cerca di essere carina con il suo sequestratore ma l’uomo è cattivo e odia le persone. Riprendono la fuga, la polizia li sta cercando. Organizzano una rapina in banca ma il piano non funziona. L’uomo muore, Wanda fugge ma ne incontra un altro che vuole farle del male. Si perde nel bosco, piange. Entra in un locale dove la gente è allegra e sta facendo festa. Si siede a un tavolo con alcune di loro. La musica è alta e lei è stanca. Le offrono da fumare, la vita sembra una cosa facile. Lei fuma ma non ride. Fermo immagine. Il film finisce come è iniziato; non sappiamo dove dormirà Wanda quella notte.
Per chi crede all’esistenza di Barbara Loden, questa storia l’ha raccontata lei, nel 1970, in America. L’ha fatto in maniera sbilenca e traballante, in un periodo in cui le donne non potevano determinare la rappresentazione di cui erano oggetto. L’ha fatto con due lire e con attori presi dalla strada, probabilmente in reazione al cinema perfetto e bellissimo degli uomini, quello dei dolly e delle storie a lieto fine, delle segretarie asessuate e delle bambole frivole. Wanda è un film desolante, alieno e alienato, il cui squallido realismo destabilizza e crea voragini. Un grande film del rifiuto femminista, diranno poi, anche se Loden non ne era consapevole. Se infatti da una parte il film anticipa temi che i movimenti femministi di quegli anni avrebbero assunto come battaglie nodali del loro agire, quali la messa in ridicolo della violenza maschile, lo sfruttamento lavorativo delle donne e la loro libera rivendicazione di esprimersi riguardo alla propria sessualità, alla maternità e al ruolo sociale imposto, il personaggio di Wanda non può certo dirsi icona della lotta femminile. La sua traiettoria non raggiunge infatti una consapevolezza emancipatrice, il suo debole desiderio non culmina mai nell’autocoscienza o in un’ideologia collettiva rivoluzionaria. All’opposto, per tutto il film Wanda non fa che cercare l’approvazione di uomini che la maltrattano, arrivando addirittura a rischiare la vita per il delinquente che l’ha rapita. La sua identità, invece di ritrovarsi, si scinde in frantumi sempre meno componibili. Forse, più che nel messaggio politico, la disorientante potenza del film risiede proprio nell’anti-epica inettitudine della sua protagonista.
Wanda non è in grado di fare la madre. Non è una buona moglie ma neanche una prostituta capace di soddisfare i suoi clienti. È troppo lenta per lavorare ai ritmi del mercato, allora gioca a fare la criminale ma è così sbadata che fa saltare goffamente il piano del suo complice. La sua vita fallisce ogni volta di nuovo. Eppure, di fallimenti così splendidi e radicali il cinema non ne aveva mai raccontati. L’improvviso arrestarsi finale della pellicola sul viso stordito di Wanda, accerchiata dalla gioia altrui e stremata dal proprio dolore, ricorda l’intensità dell’ultima inquadratura de I 400 colpi (1959) di Truffaut. Lì il giovanissimo Antoine Doinel ci guardava, interrogandoci anche sul nostro ruolo di spettatori. Qui Wanda chiude gli occhi, non siamo noi che possiamo arginarne la tristezza. È insieme un addio e un monito: guai a voler catturare la solitudine di un fantasma.