La dolce immoralità di
un immaginario perduto,
di Jacopo Abballe
TR-80
07.05.2023
Non è difficile capire perché la critica italiana non si sia mai interessata sufficientemente al cinema del polacco Walerian Borowczyk: l’assenza totale di un qualsivoglia impegno socio-politico, la fuga continua in una dimensione più vicina al sogno che alla realtà, le ossessioni erotiche e passatistiche per un certo tipo di bellezza, per un certo tipo di nudità, per un certo modo di stare al mondo... E con “un certo” c’è da intendere qualcosa che è più vicino ai classici della letteratura libertina che non al cinema moderno. In definitiva, il suo stare al di là di qualsiasi nouvelle vague ha segnato il suo cinema come un territorio così unico e personale da mettere in imbarazzo molta critica italiana (e internazionale). Sì, i suoi primi film sono storie di disubbidienza verso dei padroni, ma più che alle connotazioni politiche, Borowczyk sembra interessato al valore erotico della trasgressione: il piacere è possibile lì dove si infrange un divieto.
Goto, l’isola dell’amore (1969), primo film importante per l’autore, restituisce le coordinate essenziali della sua estetica sublime. Borowczyk è anzitutto uno sperimentatore, un cineasta che ama giocare con la tecnica. Non deve trarre in inganno una certa “frontalità” delle sue immagini e un modo apparentemente essenziale di cogliere le cose: la varietà interna alla sua filmografia è già segno di grande sperimentazione – si passa con nonchalance dal lungometraggio al cortometraggio, dal racconto all’astrazione, dal cinema erotico all’animazione, dalle grandi produzioni francesi ai film auto-finanziati. Non senza passi falsi, ma sempre con estrema vivacità.
C’è poi la questione della tecnica, appunto: in Goto tornano molte sperimentazioni già verificate nei cortometraggi, in particolare in Diptyque (1967), tra i più belli dell’autore. Sperimentazioni che hanno come oggetto la contrapposizione – in Diptyque quella tra una prima parte in bianco e nero e una seconda a colori, tra uno stile documentaristico e un altro estetizzante, tra la vita sporca e faticosa di un contadino che ha lavorato per tutta la vita e le immagini vuote e perfette di fiori, vasi in ceramica e gattini. Goto, in modo più sofisticato, è un film che non vive tanto di contrapposizioni, quanto di contrappunti: un film in bianco e nero in cui delle schegge di colore si insinuano con forza dirompente. Cosa vediamo a colori? Le scarpe di Glossia, la moglie del governatore; i gioielli della donna su un comò; un secchio colmo di sangue; della carne a pezzi.
Queste rapide “visualizzazioni” da parte del protagonista Grozo restituiscono la forza del suo desiderio per Glossia, nonché la natura feticistica di tale desiderio (che si consuma negli oggetti della donna). Quando vediamo il rosso del sangue e della carne siamo sempre nel territorio del desiderio. Grozo, infatti, è un ex detenuto che ama così tanto la moglie del governatore da uccidere per possederla. Ma che al contempo desidera così tanto possederla da ucciderla. L’amore come contrappunto alla morte, ma entrambi restituiti nelle immagini del desiderio: si rivelerà questa la sintesi fondamentale del cinema di Borowczyk.
Il successivo Blanche (1971) non fa che confermare l’ossessione dell’autore per l’oggettistica: le mele, che rimandano a quelle marce e piene di mosche che in Goto ritornano più volte, riempiono qui lo scenario, si fanno oggetti d’arredo essenziali e stravaganti. Così come gli animali in cattività, che incorniciati dalle loro gabbiette costituiscono dei veri e propri tableaux vivants. Gli elementi naturali entrano perfettamente in armonia con quelli artificiali: gli esseri viventi si confondono tra gli oggetti e le cose inanimate acquistano una vitalità poetica. Ne sono un esempio il crocifisso e il vangelo impugnati da alcuni frati, che nelle loro mani si trasformano in armi affilate – la croce si apre e svela un pugnale sottile, il vangelo ha un meccanismo in metallo che fa scattare un coltello tra le pagine. Questi elementi risaltano non solo grazie a inquadrature ravvicinate sulle mani degli attori – che suggeriscono l’interesse maniacale del regista per la dimensione tattile delle cose – ma anche grazie all’austerità degli ambienti. È chiaro che l’interesse di Borowczyk per il realismo sia infimo e non deve dunque sorprendere la povertà dell’arredo nel castello di un ricco duca del XIII secolo.
Ma se in Blanche gli scenari sono alquanto spogli, lo stesso non si può dire per i corpi degli attori. Ligia Branice appare nuda in una delle primissime inquadrature del film, ma viene immediatamente raggiunta da una serva che la avvolge con un telo. Da quel momento apparirà in scena sempre con i vestiti addosso, completamente coperta, perfino intorno al viso. La sensualità della Branice passa quindi attraverso i suoi occhi grandi, le sue labbra piene e non di meno attraverso i suoi abiti aderenti. In particolare, questa “vestizione” iniziale assume il tono di una rimodulazione: è come se la Branice giungesse direttamente dal film precedente – nel quale interpretava proprio la moglie del governatore, mostrando in più di un’occasione il suo corpo nudo – catapultata di colpo in un’epoca lontana e quindi trattata in base alla pudicizia del tempo. In questo senso, il corpo dell’attrice si fa vero e proprio oggetto trans-filmico che attraversa epoche, ambienti e storie diverse, guidato solo dalle pulsioni del suo regista.
Nei primi anni Settanta le maglie della censura cinematografica si allentano drasticamente e i limiti del rappresentabile si ampliano in modo significativo, tanto che la pornografia inizia ad essere tollerata in molti paesi occidentali: parallelamente, il pubblico si rivela sempre più curioso verso i film di sesso e i produttori sono ora ben disposti a finanziare film (commerciali o d’autore) dai contenuti scandalosi. Queste condizioni permettono a Borowczyk di esplorare il territorio dell’erotismo in modo più esplicito e morboso. Racconti immorali, che esce in Francia nel 1973, è un’antologia di storie erotiche incestuose, blasfeme o zoofile. L’ispirazione è di carattere storico per due episodi: quello della contessa ungherese Erzsébet Bàthory, che era solita lavarsi nel sangue delle sue schiave, e quello su Lucrezia Borgia, figlia illegittima del papa Alessandro VI e figura chiave degli scandali ecclesiastici del Rinascimento italiano.
Altri due episodi sono invece di matrice letteraria. Thérése Philosophe racconta di una giovane cattolica che, rinchiusa in una stanza per essere tornata troppo tardi dalla messa, scopre il testo libertino che dà il titolo al racconto: un classico del Settecento che narra la relazione erotica tra un vecchio prete e una ragazza appena entrata nell’età dell’adolescenza. La protagonista, che porta proprio il nome di Thérése, resta talmente colpita dal testo e in particolare dalle sue illustrazioni pornografiche da lasciarsi andare a un’incontenibile frenesia masturbatoria. In questo episodio si ritrova conferma di quel feticismo tattile che segna tutto il cinema di Borowczyk: la giovane Thérése non sembra eccitata solo dal contenuto del libro, ma anzitutto dal libro in quanto oggetto antico e sensuale – lo stesso atto di sfogliare le pagine procura in lei un piacere travolgente. In un momento di profondo candore, se lo porta al petto, lo tiene stretto in mezzo ai suoi seni nudi e lo sostituisce così a qualsiasi vangelo.
Ma l’episodio più sublime è senz’altro il primo della raccolta: La marea, tratto dall’omonimo racconto di André Pieyre de Mandiargues. La storia è quella di due giovani, cugini, che si avventurano tra gli scogli di una spiaggia normanna poco prima dell’alta marea: “Mia cugina Julie aveva 16 anni, io ne avevo 20. Questa piccola differenza d’età la rendeva sensibile alla mia autorità”. Il ragazzo fa alzare o gattonare Julie a suo piacimento, la comanda in modo serio e lezioso. Ma l’ha portata sulla spiaggia per un motivo ben preciso: insegnarle a prendere un uomo nella bocca seguendo il ritmo della marea.
Quando finalmente ti verrò in gola, tu inghiottirai il mio fluido vivente con dolcezza e obbedienza. Questo dono vitale è molto importante e penserai a questo dono come al risultato del grande movimento della marea che ci circonda.
Il montaggio alterna campi lunghi sulle onde che avanzano a dettagli sconvolgenti sui corpi dei due giovani. Quando Borowczyk inquadra il volto di Lise Danvers non inquadra nient’altro: il volto come unico paesaggio necessario, che nasconde in sé distese incredibili. Così l’inquadratura sulle sue labbra non va al di là dei contorni della pelle, a cogliere i capelli di lei o magari la spiaggia, ma restituisce la bocca come una splendida voragine in cui affondare.
L’attenzione del regista si focalizza su cose molto specifiche: non solo labbra, occhi e capezzoli, ma anche le calosce di Julie, che inzuppate d’acqua salata e sporche di alghe si riscoprono oggetti marini. Mandiargues scrisse alla prefazione del suo capolavoro, il romanzo neo-sadiano Il castello dell’inglese, che si avvertiva nel suo libro, “dalla prima all’ultima pagina, un certo sapore di granchio”. Il castello dell’inglese, pubblicato in Francia nel 1953, presenta già alcuni elementi narrativi che si riveleranno fondanti ne La marea, scritto quasi dieci anni più tardi. Il castello in cui è ambientata la vicenda si trova infatti nei pressi di una spiaggia ed è possibile raggiungerlo solo al momento della bassa marea, quando la strada d’accesso non è sommersa. Si avverte, nella scrittura di Mandiargues, la ricerca di un incontro vivace tra dei corpi voluttuosi e delle cose animalesche, selvagge, con particolare predilezione per tutto ciò che è di origine marina: di fatto una delle scene più parossistiche del romanzo ha per oggetto lo stupro di una dodicenne in una vasca di piovre voraci.
Borowczyk riesce a restituire con trasporto profondo il panismo raccontato dallo scrittore francese (che potremmo definire nero nel caso del Castello e gioioso in altri suoi scritti). Il suo adattamento de La marea non racchiude solo il senso di un’iniziazione, ma di una verità che è alla base del mondo: “I due principali movimenti sono il movimento rotativo e il movimento sessuale” scrive Georges Bataille ne L’ano solare, “È così che si vede che la terra girando fa accoppiare gli animali e gli uomini e [...] che gli animali e gli uomini fanno girare la terra accoppiandosi”. Non solo, dunque, un’eiaculazione si perde nei moti di una marea, mimetizzandosi come sua conseguenza, ma la stessa marea ci appare come il risultato di un’eiaculazione. È lo spettacolo incredibile a cui ci prepara il giovane protagonista, che prima di penetrare la dolce bocca della cugina si diverte a declamare quanto sta per compiere e quanto lei dovrà eseguire. La fellatio assume quindi il tono di una dimostrazione, come nella letteratura di Sade, dove il ragionamento si fa violenza. Nel caso de La marea, però, la crudeltà sadica lascia il posto a qualcosa che ha sì il tono di una lezione impartita dall’alto, ma anche di un incontro sublime tra due corpi che si dissolvono nel mare. È questo uno dei momenti più preziosi di tutto il cinema degli anni Settanta.
Esistono in verità altri due episodi riconducibili ai Racconti immorali. Il primo è Una collezione particolare, un breve documentario che mostra con occhio giocoso ed esuberante un’incredibile collezione di oggetti erotici. La collezione appartiene proprio a Mandiargues, con cui Borowczyk instaura in questi anni una sincera amicizia e un sodalizio artistico proficuo.
Il secondo è La bestia, reintegrato nel film da un recente restauro. Nato da un soggetto originale del regista ma ispirato ad alcune leggende popolari francesi, racconta dell’incontro tra una signora alto-borghese e una creatura animalesca: la bestia in questione è un essere peloso e vorace che si abbatte sulla donna con incredibile libido; il suo grosso pene, simile a quello di un cavallo, è scosso continuamente da fremiti d’orgasmo e da eiaculazioni fluviali. L’attacco, che si trasforma presto in uno stupro, in un primo momento è vissuto dalla donna con terrore e disgusto, e in un secondo con meravigliato piacere.
La bestia non si limita a trattare la zoofilia con una spudoratezza mai vista sullo schermo, ma lega a questa disinibizione uno spirito divertito, appassionato, libertino. Tanto da restituire un rapporto così crudo e selvaggio come un momento liberatorio e sensuale. L’episodio viene ampliato da Borowczyk in un film omonimo nel 1975, che nonostante le buone intuizioni non regge il confronto con la precedente produzione del regista. In Italia il film, che viene relegato al circuito a luci rosse, riscuote un discreto successo, catturando l’attenzione di alcuni critici e scatenando un vero e proprio filone zoofilo: nell’arco di due anni vengono prodotti La bestia nello spazio di Alfonso Brescia, La bella e la bestia di Luigi Russo e Bestialità di Peter Skerl.
Il successo del film lega definitivamente il nome di Borowczyk al cinema erotico, che da questo momento può lavorare con budget più consistenti e nomi rilevanti. In uno dei rari ritorni nella nativa Polonia realizza Storia di un peccato (1975), tratto da un romanzo del polacco Stefan Zeromskj. Tornato in Francia firma invece Il margine (1976), adattamento del libro omonimo dell’amico Mandiargues, con protagonisti due nomi d’eccezione del cinema dello scandalo: Joe Dallesandro e Sylvia Kristel. Mentre Il margine è nei cinema francesi, Borowczyk gira in completa autonomia un documentario sperimentale tra le strade di Parigi: immagini tremolanti e frenetiche restituiscono nel loro succedersi veloce il caos delle strade, la vitalità della gente, i suoni improvvisi e fragorosi della vita urbana. In verità, Brief von Paris non è un grande film, ma è una delle espressioni più chiare e dirette della libertà creativa del suo autore, che non sembra particolarmente interessato a perseguire la via del successo, quanto a catturare delle immagini per il semplice gusto di filmare. Questo documentario, che è un mediometraggio, conferma inoltre un assunto fondamentale del regista, espresso nella sua frase più iconica: “Un film non è una salsiccia”. Un film, cioè, non migliora o peggiora per merito della sua lunghezza.
Borowczyk coniuga quindi alla sua produzione più riconosciuta, fatta di film per il cinema e grandi successi commerciali, un’altra produzione, più personale e privata: dai primi corti in stop motion realizzati in Polonia con il collega Jan Lanica ai mini-documentari in Francia e alle trasposizioni d’avanguardia (Rosalie, da un racconto di Guy de Maupassant). Borowczyk cura personalmente i disegni delle sue animazioni (l’ultima, Scherzo Infernal, è del 1984), così come le decorazioni e gli arredi dei suoi lungometraggi: l’importanza riconosciuta agli oggetti più insignificanti e il bisogno di intervenire personalmente in tutte le fasi della produzione – montaggio compreso – mettono in luce il bisogno esasperato di toccare il cinema con mano. Per Borowczyk ogni film si può costruire come il protagonista di Goto costruisce la sua personalissima trappola per mosche: gli basta qualche pezzo di legno vecchio, dei coni metallici, una rete e dei capelli, per costruire qualcosa di mai visto. Un oggetto alieno.
Gli ultimi lavori del regista sono sintomo di un decadimento significativo della sua poetica e di una degradazione particolare della qualità della sua opera. Dopo una parentesi italiana – di cui Interno di un convento è il più ricordato, ma anche il più pateticamente libertino e noioso – Borowczyk accetta di dirigere Emmanuelle 5, ennesimo seguito alla saga con la Kristel. Il film, che il regista realizza più che altro per motivi alimentari, è portato a termine senza passione, controvoglia, e verrà (poco) ricordato come uno dei punti più bassi della serie. Il suo ultimo film per il cinema è Cérémonie d'amour (1987, da noi La regina della notte) tratto anche stavolta da Mandiargues (il romanzo di partenza è Sparirà tutto), che si muove tra la sensualità di alcune scene in interni e il kitsch involontario di certi dialoghi “molto francesi”.
Borowczyk non sembra pienamente a suo agio in un contesto urbano – i due protagonisti si incontrano per la prima volta nella metro di Parigi – e questo era in parte già il limite de Il margine. Ma quel che colpisce davvero è un’inaspettata pudicizia. Le scene di sesso sono rare e filmate con un stile che non ricorda affatto i motivi “immorali” tipici del regista. È però con quest’ultimo film che si può fare chiarezza una volta per tutte sulla natura dell’erotismo nel cinema di Borowczyk: la macchina da presa, più che sulla nudità dei corpi, indugia su quel che gli abiti lasciano trasparire. E a guardare indietro ci si accorge che questi film non hanno mai davvero cercato il piacere nella pornografia dei corpi, quanto nella sensualità impetuosa di una mezza nudità.
Sparirà tutto... Cosa resiste, di fatti, nel cinema di oggi, dell’immaginario magico-sessuale costruito in trent’anni di attività da questo surrealista giocoso ed erotomane? Ben poco, forse niente. Ma per chi continua ad amare il suo cinema alcune immagini non possono scomparire. Se si accetta nel profondo l’estetica sublime dell’autore si salveranno anzitutto le sue scene più dolci. La contessa sanguinaria dei Racconti, che fa vestire il suo poggio – riscopertosi fanciulla – soltanto per poterlo svestire. E della Marea non il momento della fellatio – che di fatto non si vede mai per davvero – ma le carezze sul volto della piccola Julie. Toccare con mano... Il piacere della pelle e dei vestiti sotto le nostre dita: ecco la sensazione fondamentale che nessun’altro autore, al cinema, ha saputo raccontare con tale forza – la forza di una marea. Lasciamoci allora travolgere da quest’onda che è il cinema di Borowczyk, trascinante come un mare in tempesta, delicato come una carezza sul volto.
La dolce immoralità di
un immaginario perduto,
di Jacopo Abballe
TR-80
07.05.2023
Non è difficile capire perché la critica italiana non si sia mai interessata sufficientemente al cinema del polacco Walerian Borowczyk: l’assenza totale di un qualsivoglia impegno socio-politico, la fuga continua in una dimensione più vicina al sogno che alla realtà, le ossessioni erotiche e passatistiche per un certo tipo di bellezza, per un certo tipo di nudità, per un certo modo di stare al mondo... E con “un certo” c’è da intendere qualcosa che è più vicino ai classici della letteratura libertina che non al cinema moderno. In definitiva, il suo stare al di là di qualsiasi nouvelle vague ha segnato il suo cinema come un territorio così unico e personale da mettere in imbarazzo molta critica italiana (e internazionale). Sì, i suoi primi film sono storie di disubbidienza verso dei padroni, ma più che alle connotazioni politiche, Borowczyk sembra interessato al valore erotico della trasgressione: il piacere è possibile lì dove si infrange un divieto.
Goto, l’isola dell’amore (1969), primo film importante per l’autore, restituisce le coordinate essenziali della sua estetica sublime. Borowczyk è anzitutto uno sperimentatore, un cineasta che ama giocare con la tecnica. Non deve trarre in inganno una certa “frontalità” delle sue immagini e un modo apparentemente essenziale di cogliere le cose: la varietà interna alla sua filmografia è già segno di grande sperimentazione – si passa con nonchalance dal lungometraggio al cortometraggio, dal racconto all’astrazione, dal cinema erotico all’animazione, dalle grandi produzioni francesi ai film auto-finanziati. Non senza passi falsi, ma sempre con estrema vivacità.
C’è poi la questione della tecnica, appunto: in Goto tornano molte sperimentazioni già verificate nei cortometraggi, in particolare in Diptyque (1967), tra i più belli dell’autore. Sperimentazioni che hanno come oggetto la contrapposizione – in Diptyque quella tra una prima parte in bianco e nero e una seconda a colori, tra uno stile documentaristico e un altro estetizzante, tra la vita sporca e faticosa di un contadino che ha lavorato per tutta la vita e le immagini vuote e perfette di fiori, vasi in ceramica e gattini. Goto, in modo più sofisticato, è un film che non vive tanto di contrapposizioni, quanto di contrappunti: un film in bianco e nero in cui delle schegge di colore si insinuano con forza dirompente. Cosa vediamo a colori? Le scarpe di Glossia, la moglie del governatore; i gioielli della donna su un comò; un secchio colmo di sangue; della carne a pezzi.
Queste rapide “visualizzazioni” da parte del protagonista Grozo restituiscono la forza del suo desiderio per Glossia, nonché la natura feticistica di tale desiderio (che si consuma negli oggetti della donna). Quando vediamo il rosso del sangue e della carne siamo sempre nel territorio del desiderio. Grozo, infatti, è un ex detenuto che ama così tanto la moglie del governatore da uccidere per possederla. Ma che al contempo desidera così tanto possederla da ucciderla. L’amore come contrappunto alla morte, ma entrambi restituiti nelle immagini del desiderio: si rivelerà questa la sintesi fondamentale del cinema di Borowczyk.
Il successivo Blanche (1971) non fa che confermare l’ossessione dell’autore per l’oggettistica: le mele, che rimandano a quelle marce e piene di mosche che in Goto ritornano più volte, riempiono qui lo scenario, si fanno oggetti d’arredo essenziali e stravaganti. Così come gli animali in cattività, che incorniciati dalle loro gabbiette costituiscono dei veri e propri tableaux vivants. Gli elementi naturali entrano perfettamente in armonia con quelli artificiali: gli esseri viventi si confondono tra gli oggetti e le cose inanimate acquistano una vitalità poetica. Ne sono un esempio il crocifisso e il vangelo impugnati da alcuni frati, che nelle loro mani si trasformano in armi affilate – la croce si apre e svela un pugnale sottile, il vangelo ha un meccanismo in metallo che fa scattare un coltello tra le pagine. Questi elementi risaltano non solo grazie a inquadrature ravvicinate sulle mani degli attori – che suggeriscono l’interesse maniacale del regista per la dimensione tattile delle cose – ma anche grazie all’austerità degli ambienti. È chiaro che l’interesse di Borowczyk per il realismo sia infimo e non deve dunque sorprendere la povertà dell’arredo nel castello di un ricco duca del XIII secolo.
Ma se in Blanche gli scenari sono alquanto spogli, lo stesso non si può dire per i corpi degli attori. Ligia Branice appare nuda in una delle primissime inquadrature del film, ma viene immediatamente raggiunta da una serva che la avvolge con un telo. Da quel momento apparirà in scena sempre con i vestiti addosso, completamente coperta, perfino intorno al viso. La sensualità della Branice passa quindi attraverso i suoi occhi grandi, le sue labbra piene e non di meno attraverso i suoi abiti aderenti. In particolare, questa “vestizione” iniziale assume il tono di una rimodulazione: è come se la Branice giungesse direttamente dal film precedente – nel quale interpretava proprio la moglie del governatore, mostrando in più di un’occasione il suo corpo nudo – catapultata di colpo in un’epoca lontana e quindi trattata in base alla pudicizia del tempo. In questo senso, il corpo dell’attrice si fa vero e proprio oggetto trans-filmico che attraversa epoche, ambienti e storie diverse, guidato solo dalle pulsioni del suo regista.
Nei primi anni Settanta le maglie della censura cinematografica si allentano drasticamente e i limiti del rappresentabile si ampliano in modo significativo, tanto che la pornografia inizia ad essere tollerata in molti paesi occidentali: parallelamente, il pubblico si rivela sempre più curioso verso i film di sesso e i produttori sono ora ben disposti a finanziare film (commerciali o d’autore) dai contenuti scandalosi. Queste condizioni permettono a Borowczyk di esplorare il territorio dell’erotismo in modo più esplicito e morboso. Racconti immorali, che esce in Francia nel 1973, è un’antologia di storie erotiche incestuose, blasfeme o zoofile. L’ispirazione è di carattere storico per due episodi: quello della contessa ungherese Erzsébet Bàthory, che era solita lavarsi nel sangue delle sue schiave, e quello su Lucrezia Borgia, figlia illegittima del papa Alessandro VI e figura chiave degli scandali ecclesiastici del Rinascimento italiano.
Altri due episodi sono invece di matrice letteraria. Thérése Philosophe racconta di una giovane cattolica che, rinchiusa in una stanza per essere tornata troppo tardi dalla messa, scopre il testo libertino che dà il titolo al racconto: un classico del Settecento che narra la relazione erotica tra un vecchio prete e una ragazza appena entrata nell’età dell’adolescenza. La protagonista, che porta proprio il nome di Thérése, resta talmente colpita dal testo e in particolare dalle sue illustrazioni pornografiche da lasciarsi andare a un’incontenibile frenesia masturbatoria. In questo episodio si ritrova conferma di quel feticismo tattile che segna tutto il cinema di Borowczyk: la giovane Thérése non sembra eccitata solo dal contenuto del libro, ma anzitutto dal libro in quanto oggetto antico e sensuale – lo stesso atto di sfogliare le pagine procura in lei un piacere travolgente. In un momento di profondo candore, se lo porta al petto, lo tiene stretto in mezzo ai suoi seni nudi e lo sostituisce così a qualsiasi vangelo.
Ma l’episodio più sublime è senz’altro il primo della raccolta: La marea, tratto dall’omonimo racconto di André Pieyre de Mandiargues. La storia è quella di due giovani, cugini, che si avventurano tra gli scogli di una spiaggia normanna poco prima dell’alta marea: “Mia cugina Julie aveva 16 anni, io ne avevo 20. Questa piccola differenza d’età la rendeva sensibile alla mia autorità”. Il ragazzo fa alzare o gattonare Julie a suo piacimento, la comanda in modo serio e lezioso. Ma l’ha portata sulla spiaggia per un motivo ben preciso: insegnarle a prendere un uomo nella bocca seguendo il ritmo della marea.
Quando finalmente ti verrò in gola, tu inghiottirai il mio fluido vivente con dolcezza e obbedienza. Questo dono vitale è molto importante e penserai a questo dono come al risultato del grande movimento della marea che ci circonda.
Il montaggio alterna campi lunghi sulle onde che avanzano a dettagli sconvolgenti sui corpi dei due giovani. Quando Borowczyk inquadra il volto di Lise Danvers non inquadra nient’altro: il volto come unico paesaggio necessario, che nasconde in sé distese incredibili. Così l’inquadratura sulle sue labbra non va al di là dei contorni della pelle, a cogliere i capelli di lei o magari la spiaggia, ma restituisce la bocca come una splendida voragine in cui affondare.
L’attenzione del regista si focalizza su cose molto specifiche: non solo labbra, occhi e capezzoli, ma anche le calosce di Julie, che inzuppate d’acqua salata e sporche di alghe si riscoprono oggetti marini. Mandiargues scrisse alla prefazione del suo capolavoro, il romanzo neo-sadiano Il castello dell’inglese, che si avvertiva nel suo libro, “dalla prima all’ultima pagina, un certo sapore di granchio”. Il castello dell’inglese, pubblicato in Francia nel 1953, presenta già alcuni elementi narrativi che si riveleranno fondanti ne La marea, scritto quasi dieci anni più tardi. Il castello in cui è ambientata la vicenda si trova infatti nei pressi di una spiaggia ed è possibile raggiungerlo solo al momento della bassa marea, quando la strada d’accesso non è sommersa. Si avverte, nella scrittura di Mandiargues, la ricerca di un incontro vivace tra dei corpi voluttuosi e delle cose animalesche, selvagge, con particolare predilezione per tutto ciò che è di origine marina: di fatto una delle scene più parossistiche del romanzo ha per oggetto lo stupro di una dodicenne in una vasca di piovre voraci.
Borowczyk riesce a restituire con trasporto profondo il panismo raccontato dallo scrittore francese (che potremmo definire nero nel caso del Castello e gioioso in altri suoi scritti). Il suo adattamento de La marea non racchiude solo il senso di un’iniziazione, ma di una verità che è alla base del mondo: “I due principali movimenti sono il movimento rotativo e il movimento sessuale” scrive Georges Bataille ne L’ano solare, “È così che si vede che la terra girando fa accoppiare gli animali e gli uomini e [...] che gli animali e gli uomini fanno girare la terra accoppiandosi”. Non solo, dunque, un’eiaculazione si perde nei moti di una marea, mimetizzandosi come sua conseguenza, ma la stessa marea ci appare come il risultato di un’eiaculazione. È lo spettacolo incredibile a cui ci prepara il giovane protagonista, che prima di penetrare la dolce bocca della cugina si diverte a declamare quanto sta per compiere e quanto lei dovrà eseguire. La fellatio assume quindi il tono di una dimostrazione, come nella letteratura di Sade, dove il ragionamento si fa violenza. Nel caso de La marea, però, la crudeltà sadica lascia il posto a qualcosa che ha sì il tono di una lezione impartita dall’alto, ma anche di un incontro sublime tra due corpi che si dissolvono nel mare. È questo uno dei momenti più preziosi di tutto il cinema degli anni Settanta.
Esistono in verità altri due episodi riconducibili ai Racconti immorali. Il primo è Una collezione particolare, un breve documentario che mostra con occhio giocoso ed esuberante un’incredibile collezione di oggetti erotici. La collezione appartiene proprio a Mandiargues, con cui Borowczyk instaura in questi anni una sincera amicizia e un sodalizio artistico proficuo.
Il secondo è La bestia, reintegrato nel film da un recente restauro. Nato da un soggetto originale del regista ma ispirato ad alcune leggende popolari francesi, racconta dell’incontro tra una signora alto-borghese e una creatura animalesca: la bestia in questione è un essere peloso e vorace che si abbatte sulla donna con incredibile libido; il suo grosso pene, simile a quello di un cavallo, è scosso continuamente da fremiti d’orgasmo e da eiaculazioni fluviali. L’attacco, che si trasforma presto in uno stupro, in un primo momento è vissuto dalla donna con terrore e disgusto, e in un secondo con meravigliato piacere.
La bestia non si limita a trattare la zoofilia con una spudoratezza mai vista sullo schermo, ma lega a questa disinibizione uno spirito divertito, appassionato, libertino. Tanto da restituire un rapporto così crudo e selvaggio come un momento liberatorio e sensuale. L’episodio viene ampliato da Borowczyk in un film omonimo nel 1975, che nonostante le buone intuizioni non regge il confronto con la precedente produzione del regista. In Italia il film, che viene relegato al circuito a luci rosse, riscuote un discreto successo, catturando l’attenzione di alcuni critici e scatenando un vero e proprio filone zoofilo: nell’arco di due anni vengono prodotti La bestia nello spazio di Alfonso Brescia, La bella e la bestia di Luigi Russo e Bestialità di Peter Skerl.
Il successo del film lega definitivamente il nome di Borowczyk al cinema erotico, che da questo momento può lavorare con budget più consistenti e nomi rilevanti. In uno dei rari ritorni nella nativa Polonia realizza Storia di un peccato (1975), tratto da un romanzo del polacco Stefan Zeromskj. Tornato in Francia firma invece Il margine (1976), adattamento del libro omonimo dell’amico Mandiargues, con protagonisti due nomi d’eccezione del cinema dello scandalo: Joe Dallesandro e Sylvia Kristel. Mentre Il margine è nei cinema francesi, Borowczyk gira in completa autonomia un documentario sperimentale tra le strade di Parigi: immagini tremolanti e frenetiche restituiscono nel loro succedersi veloce il caos delle strade, la vitalità della gente, i suoni improvvisi e fragorosi della vita urbana. In verità, Brief von Paris non è un grande film, ma è una delle espressioni più chiare e dirette della libertà creativa del suo autore, che non sembra particolarmente interessato a perseguire la via del successo, quanto a catturare delle immagini per il semplice gusto di filmare. Questo documentario, che è un mediometraggio, conferma inoltre un assunto fondamentale del regista, espresso nella sua frase più iconica: “Un film non è una salsiccia”. Un film, cioè, non migliora o peggiora per merito della sua lunghezza.
Borowczyk coniuga quindi alla sua produzione più riconosciuta, fatta di film per il cinema e grandi successi commerciali, un’altra produzione, più personale e privata: dai primi corti in stop motion realizzati in Polonia con il collega Jan Lanica ai mini-documentari in Francia e alle trasposizioni d’avanguardia (Rosalie, da un racconto di Guy de Maupassant). Borowczyk cura personalmente i disegni delle sue animazioni (l’ultima, Scherzo Infernal, è del 1984), così come le decorazioni e gli arredi dei suoi lungometraggi: l’importanza riconosciuta agli oggetti più insignificanti e il bisogno di intervenire personalmente in tutte le fasi della produzione – montaggio compreso – mettono in luce il bisogno esasperato di toccare il cinema con mano. Per Borowczyk ogni film si può costruire come il protagonista di Goto costruisce la sua personalissima trappola per mosche: gli basta qualche pezzo di legno vecchio, dei coni metallici, una rete e dei capelli, per costruire qualcosa di mai visto. Un oggetto alieno.
Gli ultimi lavori del regista sono sintomo di un decadimento significativo della sua poetica e di una degradazione particolare della qualità della sua opera. Dopo una parentesi italiana – di cui Interno di un convento è il più ricordato, ma anche il più pateticamente libertino e noioso – Borowczyk accetta di dirigere Emmanuelle 5, ennesimo seguito alla saga con la Kristel. Il film, che il regista realizza più che altro per motivi alimentari, è portato a termine senza passione, controvoglia, e verrà (poco) ricordato come uno dei punti più bassi della serie. Il suo ultimo film per il cinema è Cérémonie d'amour (1987, da noi La regina della notte) tratto anche stavolta da Mandiargues (il romanzo di partenza è Sparirà tutto), che si muove tra la sensualità di alcune scene in interni e il kitsch involontario di certi dialoghi “molto francesi”.
Borowczyk non sembra pienamente a suo agio in un contesto urbano – i due protagonisti si incontrano per la prima volta nella metro di Parigi – e questo era in parte già il limite de Il margine. Ma quel che colpisce davvero è un’inaspettata pudicizia. Le scene di sesso sono rare e filmate con un stile che non ricorda affatto i motivi “immorali” tipici del regista. È però con quest’ultimo film che si può fare chiarezza una volta per tutte sulla natura dell’erotismo nel cinema di Borowczyk: la macchina da presa, più che sulla nudità dei corpi, indugia su quel che gli abiti lasciano trasparire. E a guardare indietro ci si accorge che questi film non hanno mai davvero cercato il piacere nella pornografia dei corpi, quanto nella sensualità impetuosa di una mezza nudità.
Sparirà tutto... Cosa resiste, di fatti, nel cinema di oggi, dell’immaginario magico-sessuale costruito in trent’anni di attività da questo surrealista giocoso ed erotomane? Ben poco, forse niente. Ma per chi continua ad amare il suo cinema alcune immagini non possono scomparire. Se si accetta nel profondo l’estetica sublime dell’autore si salveranno anzitutto le sue scene più dolci. La contessa sanguinaria dei Racconti, che fa vestire il suo poggio – riscopertosi fanciulla – soltanto per poterlo svestire. E della Marea non il momento della fellatio – che di fatto non si vede mai per davvero – ma le carezze sul volto della piccola Julie. Toccare con mano... Il piacere della pelle e dei vestiti sotto le nostre dita: ecco la sensazione fondamentale che nessun’altro autore, al cinema, ha saputo raccontare con tale forza – la forza di una marea. Lasciamoci allora travolgere da quest’onda che è il cinema di Borowczyk, trascinante come un mare in tempesta, delicato come una carezza sul volto.