Il lascito di un artista che ha cambiato per sempre
il volto della Settima Arte,
di Mario Vannoni
TR-122
08.02.2025
Quando ricordiamo David Lynch il nostro pensiero volge immediatamente ai suoi film, opere che hanno contribuito a spingere in territori inesplorati i confini della Settima Arte, creando storie e immaginari sconvolgenti, penetrati a fondo nella nostra memoria visiva e culturale. Ma, se ci si ragiona, il lavoro di Lynch che maggiormente ha influenzato il patrimonio collettivo non proviene dal cinema, bensì dalla televisione. Twin Peaks (I segreti di Twin Peaks, 1990-1991) è stata una di quelle che oggi definiremmo “serie evento”, uno show che tutti guardavano e di cui si aspettava con ansia l’episodio successivo per poi discuterne il lunedì a scuola o al lavoro.
Questa è la prima, superficiale avvisaglia di uno sguardo trasversale e transmediale, abile nel muoversi all’interno di un mondo (quello dello spettacolo) nei confronti del quale il regista si è sempre posto come un freak. Coerente, integro e soprattutto fedele alla sua personalissima visione, Lynch si è sempre dedicato all’esplorazione dell’arte in senso lato, dimostrandosi capace di estendere la propria produzione su linguaggi differenti, ibridandoli tra loro in forme sempre nuove e dotate di una vitalità dall'approccio infantile - affascinato dal non conosciuto, aperto alla sperimentazione ed entusiasta nello scoprire - che è esso stesso fonte di originalità. È questa l’unica prospettiva con la quale si può affrontare il suo lavoro, considerandolo non come frutto della mente di un regista, ma come quello di un inventore di forme: un artista, per intenderci.
The Elephant Man (1980)
Inizialmente intenzionato a diventare pittore, il giovane David esordì con Six Men Getting Sick (1967), un cortometraggio dove viene adoperata come schermo una scultura rappresentante sei teste umane (ricavate da calchi della testa del regista realizzati da Jack Fisk, suo storico collaboratore e scenografo) sulle quali vengono proiettate delle animazioni in loop. Il primo contatto di Lynch con il cinema avviene quindi per mezzo di altre arti filtrate attraverso la pellicola. Six Men Getting Sick è, di fatto, una video-installazione che asseconda una concezione della messa in scena d’impronta figurativa, al punto che l’idea di partenza, come affermato dal cineasta stesso, era di suggerire «l’impressione di un dipinto vivo». Ciò che Lynch cerca nel cinema è dunque anzitutto il movimento, la possibilità di conferire al pittorico la dimensione temporale. Il cinema è (nella sua visione) essenzialmente lo spostamento di un corpo nello spazio.
Non a caso, nel suo primo lungometraggio, Eraserhead (Eraserhead - La mente che cancella, 1977), il protagonista Henry si muove di continuo da un posto all’altro tramite un incedere del tutto particolare, qualcosa a metà tra un claudicare a là Charlot e l'ancheggiare oscillante di un uomo che non ha piena confidenza con la propria fisicità. A ben vedere questa è una caratteristica tipica dei personaggi lynchiani, che manifestano sempre nel corpo un qualche sintomo di disadattamento all’ambiente circostante e che, perciò, incarnano un’emanazione della figura del regista, a sua volta sempre sbilenco, incerto, dalla postura e dal portamento bizzarro: «un James Stewart venuto da Marte», come lo definiva Mel Brooks. Pensiamo a Jeffrey Beaumont, protagonista di Blue Velvet (Velluto blu, 1986), e al suo passo della gallina, oppure all’infermità di Alvin Straight in The Straight Story (Una storia vera, 1999), o ancora ai tracciati quasi geometrici compiuti dai conigli in Rabbits (2002) o in Inland Empire (Inland Empire - L'impero della mente, 2006), per non parlare dell’eccentricità corporea di Sailor Ripley in Wild at Heart (Cuore selvaggio, 1990). Ecco, l’idea di corpo in Lynch è emblematica di uno squilibrio, lo stesso che esiste nel suo cinema e che ne è, anzi, il tratto più peculiare.
David Lynch dirige Isabella Rossellini sul set di Blue Velvet (Velluto Blu, 1986)
Dopo il successo di Eraserhead, inizialmente giudicato troppo insolito per una classica distribuzione mainstream e quindi relegato nelle proiezioni di mezzanotte, che ne ha di fatto decretato lo status di film di culto (leggenda vuole che fosse tra le pellicole predilette da Stanley Kubrick, il quale lo mostrava a ripetizione sul set di Shining), Lynch venne scelto da Mel Brooks, influente attore e produttore hollywoodiano, per girare The Elephant Man (1980), un lungometraggio ispirato alla vita di Joseph Merrick - la figura più lampante di quell’inadeguatezza corporea che scorre lungo tutta la filmografia dell’autore- che riscontrò un grande successo commerciale e venne candidato a otto premi Oscar. Fu così che il regista si ritrovò la strada spianata: le proposte fioccarono, tra cui quella di George Lucas che gli offrì la possibilità di dirigere Return of the Jedi (Il ritorno dello Jedi, 1983) e che Lynch prontamente rifiutò per dedicarsi al progetto di Dune (1984). L’adattamento del romanzo di Frank Herbert fu un fiasco al botteghino, tanto da portare il suo autore al disconoscimento dell’opera, che lamentò l’ingerenza della produzione di Dino De Laurentiis, reo di aver martoriato la pellicola in fase di montaggio.
Ciononostante, la collaborazione tra i due proseguì (da qui in poi il cineasta avrà sempre il final cut sulle sue produzioni), culminando nella realizzazione di Blue Velvet, un film complesso e considerato da molti (tra cui l’allora direttore del Festival di Venezia Gian Luigi Rondi) come osceno e scandaloso, ma assurto anch’esso al rango di cult, sorta di ricettacolo della poetica lynchiana, tra contenuti oscuri e scabrosi, doppi, cittadine di provincia e vicinanza liminare, e liminale, tra Bene e Male. A questo seguì Wild at Heart, personalissima rilettura del romanzo per l'infanzia The Wonderful Wizard of Oz (Il meraviglioso mago di Oz), opera che ebbe un' enorme influenza sull’intera produzione di Lynch (almeno dal punto di vista dell’apprezzamento di pubblico e critica), e che, venendo premiata con la Palma d’oro al Festival di Cannes, incanalò il regista verso quella "consacrazione planetaria" che sarebbe derivata, da li a breve, dal successo di Twin Peaks.
La vittoria della Palma d'Oro al Festival di Cannes 1990
Da qui in poi la parabola ascendente si incurva verso il basso, in particolare quando Lynch decide di girare un film-prequel dello show (che aveva abbandonato dopo l’imposizione dell’emittente di rivelare l’assassino di Laura Palmer, per poi tornare nell’ultimo episodio della seconda stagione), ovvero Twin Peaks: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me, 1992). L'opera venne ostracizzata dai fan della serie e anche la critica impiegò anni per comprenderla e rivalutarla come un crocevia fondamentale nella poetica dell’autore. Infatti, da qui in poi Lynch intraprenderà un percorso artistico radicale, scevro da qualsiasi tipo di condizionamento esterno, approfondendo un’estetica presente sin dai suoi primi cortometraggi (come The Alphabet, 1968 e The Grandmother, 1970, un lavoro essenziale nella filmografia del regista, contenente i prodromi di ciò che sarà il suo cinema a venire). I tre film che seguono - Lost Highway (Strade perdute, 1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire - rappresentano l’espressione più compiuta di ciò che l’aggettivo lynchiano vuole indicare: storie torbide, non-linearità della narrazione, passaggi tra mondi, opere cinematografiche inafferrabili attraverso lo scandaglio della ragione, aperte alla sensazione, all’interpretazione del sentire.
The Straight Story si frappone a questa “trilogia”, spezzando apparentemente quell'abisso di oscurità progressiva con la sua linearità e semplicità descrittiva, quasi un film di buoni sentimenti. Ma a un’attenta analisi, come molti hanno sottolineato nel corso degli anni, il lungometraggio ritrae "l’altra faccia della medaglia" del lynchiano, lo specchio riflesso, il doppio di Lost Highway e Mulholland Drive, che ancora una volta (e in maniera quanto mai esplicita) coglie lo smarrirsi di un soggetto in movimento all'interno un'ambiente che dà spazio alla luce per mostrare l’oscurità - quando il cinema del regista ci aveva, da sempre, abituato al contrario. Ed è proprio questa l’azione fondamentale che il lynchiano svolge sulle nostre coscienze: un continuo depistaggio, una perturbazione delle coordinate, uno smarrimento sublime (e perciò terrificante) nelle profondità dell’inconscio, dello spirito, dell’anima. In questo senso il cinema di Lynch è esistenzialista, perché esplora l’assurdità dell’esistere: «non capisco perché la gente si aspetti che l'arte abbia un senso [mentre] accettano il fatto che la vita non abbia senso».
The Straight Story (Una storia vera, 1999)
Nel 2017, Lynch torna a Twin Peaks (con l'ultima stagione dello show intitolata Twin Peaks - The Return) per realizzare il suo ultimo capolavoro. L’opera si può leggere in tanti modi - un saggio sulla senilità, la messa in scena dell’esplosione del Reale, il disancoramento della serialità dal mondo televisivo, o ancora l’esposizione di un Male abissale e infinito, reso mitico da una narrazione fondativa che ne riscrive l’immaginario - ma forse il suo portato teorico più precipuo sta nella distruzione dei significati. La trama, pur complessa e ricca di percorsi secondari che spostano continuamente l’attenzione dal fulcro narrativo (in una maniera così sistematica da diventare strutturale), si presenta come un ri-attraversamento di Twin Peaks, visto però da una prospettiva irriducibilmente mutata. Il viaggio di Dale Cooper è contemporaneamente a ritroso e avanti nel tempo, nel tentativo di riallacciare gli eventi restituendoli al proprio senso. Ma quale? Recuperata Laura Palmer dal suo destino, Twin Peaks - la cittadina, la serie, il mondo (finzionale?) - smette di esistere e sconfina nel Reale. Cooper diventa Richard, Laura diventa Carrie Page e Twin Peaks diventa il nostro mondo (o lo è sempre stato?).
Nel momento in cui il senso sembra ricostruirsi la realtà cessa di esistere, resta solo il buio di un cortocircuito che è la metafora più potente dell’intera carriera di Lynch. L’urlo di Laura Palmer/Carrie Page nel finale di Twin Peaks - The Return, capace letteralmente di spegnere ogni percorso logico, è la Loggia nera di Twin Peaks, è il Club Silencio di Mulholland Drive, il mondo dietro/dentro al termosifone di Eraserhead, il fuoco di Wild at Heart, la voce di Dune, il pettirosso di Blue Velvet, la stazione radiofonica di Inland Empire, il quadro di Fire Walk with Me, il cervo investito in The Straight Story, il cielo stellato di The Elephant Man, la strada di Lost Highway: un vuoto di senso, un non-luogo, spazio liminare di registrazione di un eccesso, un buco nero della rappresentazione.
Rita e Betty assistono assuefatte allo spettacolo del Club Silencio in una sequenza chiave di Mulholland Drive (2001)
Ed è proprio il nero ciò verso cui converge tutto il cinema (l’arte) del regista, nero non come assenza di luce ma come sensazione dell’infinito. Si pensi ai suoi quadri, dipinti in un monocromatismo quasi assoluto, le linee che assomigliano a graffi e le figure che tendono a ricadere su sé stesse. O ai boschi, paesaggi sempre disorientanti, contenitori di suoni e presagi, ritratti nella funzione di nascondere all’occhio per accedere all’immaginazione. Ma anche al suo gemello, il sipario, vero e proprio luogo magico del visibile lynchiano, che a sua volta nasconde per rivelare, oggetto-feticcio che incornicia la centralità dello sguardo, hitchcockianamente voyeuristico, come veicolo trasformativo della realtà. E che dire del fuoco, del vento, dell’elettricità? Cariche energetiche che disegnano un mondo in costante seppur celata (agli occhi) attività, manifestazioni di un oltre in cui la verità, herzoghianamente intesa, è da ricercarsi, e perciò unico ed inevitabile approdo dell’arte di Lynch.
Un’arte che, lo ripetiamo, non è solo cinematografica - Lynch oltre che essere stato anche pittore è stato musicista, scultore, disegnatore di mobili - e che anzi utilizza il cinema come scatola entro cui far confluire passioni, influenze, ossessioni, assecondando una visione che è anzitutto pittorica. Sono notevoli le risonanze che il lavoro del regista mostra con le opere di Francis Bacon o Edward Hopper, matrici di un immaginario che non si lascia classificare con delle etichette - postmoderno, moderno, classico, sperimentale, surrealista, espressionista sono tutte espressioni associabili al lynchiano - e che cerca nell’interazione tra il dinamismo delle figure e la sotterranea vitalità dell’ambiente l’inconscio delle immagini, uno squarcio in cui penetrare per far emergere l’assoluto, per raggiungere la trascendenza. Le immagini di Lynch non sono oniriche, non provengono da luoghi di sogno: sembrano non appartenerci perché non si lasciano inquadrare entro un registro riconducibile all’esperienza conscia, sfuggono alla comprensione perché scavano alle radici della nostra sensibilità, a tratti ci repellono perché esibiscono il rimosso delle nostre pulsioni. Lynch non va compreso, va ascoltato per essere esperito.
L'agente Dale Cooper e Laura Palmer si incontrano nell'iconica Loggia Nera in Twin Peaks - The Return (2017)
In questo intersecarsi dei sensi - il pittorico rimanda alla vista, il sonoro ha una dimensione tattile, la materialità degli oggetti riesce a restituirne il gusto, gli spazi hanno una consistenza uditiva, così come le atmosfere possiedono odori - il regista scopre nella sinestesia l’elemento per realizzare un’arte del sensibile che lo avvicina alle avanguardie e a certe cinematografie indipendenti (John Waters su tutti), seppur da un punto di vista strettamente linguistico il suo cinema non abbia mai proposto soluzioni intrinsecamente sperimentali. Lynch non è un regista che cerca geometrie inusuali nelle proprie inquadrature, non utilizza il montaggio per decostruire la grammatica filmica, né tantomeno crea effetti speciali innovativi per dar forma alle sue visioni. La novità del cinema di Lynch - che resta tuttora un mistero, e così dev’essere - non è delle immagini, ma nelle immagini, nella visionarietà con cui, ricorrendo a un linguaggio ampiamente canonicizzato, riesce a innervare suggestioni figurali all’interno del figurativo.
Come giustamente osserva Riccardo Caccia nella sua monografia sul regista, Lynch fa un uso "aberrante" di un linguaggio comune - con tutte le risonanze che tale pratica comporta nei confronti della biografia dell’artista, che ha sempre confessato il suo disagio nell’utilizzo della parola -, così come innesta il non-narrativo nel narrativo, senza destrutturare mai davvero l’ordine simbolico, ma costruendo in esso delle emersioni di senso di potenza significante. In altre parole, Lynch non è Godard: non distrugge l’ordine per ricostruirlo daccapo, ma lo lavora dall’interno per estrarne il potenziale semantico latente, per scoprire connessioni inedite e nuove associazioni di sguardo.
Lynch presenta al Sundance Film Festival Lost Highway (Strade perdute, 1997) con gli attori Patricia Arquette e Bill Pullman
È nella stessa direzione che si orienta il suo gusto figurativo, mai teso a una visione proiettata verso il futuro (tecnologico, artistico, antropologico) ma piuttosto ripiegato verso un passato (delle immagini, dell’uomo) che si fa matrice mitica dell’immaginario. Ne è una spia la ricerca svolta nell’ambito degli effetti speciali, che riconducono il suo cinema a formule arcaiche, primigenie, primitive, improntate a una rudimentalità che anziché diminuirne il fascino lo accresce: le immagini di Lynch non sono mai falsificate; sono semmai sottoposte a un’elaborazione interna in cui convergono forme espressive diverse ma sempre, in qualche modo, analogiche, materiche, “classiche”.
Il ricorso più esplicito al sostrato mitico, tuttavia, è l’utilizzo plurimo e insistito delle atmosfere anni ’50. È ormai divenuto un simbolo l’incipit di Blue Velvet, con le sue staccionate dipinte di bianco, i fiori di un rosso innaturale, i pompieri che salutano felici guardando in camera, il tutto accompagnato dalle note dell’omonimo brano di Bobby Vinton (pubblicato proprio nel 1951), andando a creare l’atmosfera idilliaca - mitizzata più che realmente esperita - degli Stati Uniti in quella decade. Il modo con il quale Lynch rappresenta la provincia americana (la cittadina in cui è ambientato Blue Velvet si chiama Lumberton, nome che rimanda al legname, altro elemento ricorrente nell’opera del regista, ad esempio in Twin Peaks, a sua volta ambientato in una provincia al confine con il Canada) si struttura sullo sguardo con cui lui stesso l’ha vissuta; David Lynch nasce infatti a Missoula, nel 1946, e trascorre i primi anni di vita spostandosi di frequente per le esigenze lavorative del padre, nel nord-ovest degli Usa.
L'inconico intro di Blu Velvet (Velluto Blu, 1986)
La stilizzazione con la quale ritrae gli anni ’50, perciò, gli deriva dal fatto di averli vissuti durante l’infanzia, con gli occhi di un bambino, i quali hanno trasfigurato quell’idea di buon vicinato, pace e tranquillità in un paradiso in terra. Accanto ad esso, tuttavia, complice anche la terribile esperienza della sua permanenza a Philadelphia quando frequentava la Pennsylvania Academy of Fine Arts e girava Eraserhead, emerge dal sottosuolo un mondo gretto, truce, sporco, brutale, finemente rappresentato nell’inquadratura che scova gli scarafaggi nascosti sotto l’erba verdissima del prato, nell’orecchio mozzato - uno dei tanti portali lynchiani verso altri mondi - e nel personaggio di Frank Booth. Si è soliti leggere l’arco narrativo di Blue Velvet come un passaggio dalla purezza giovanile alla corruzione dell’età adulta, ma se guardiamo attentamente alle attitudini comportamentali di Jeffrey ci accorgeremo che il suo personaggio non incarna il polo positivo (il Bene) contrapposto al negativo di Frank (il Male); al contrario, il Male è già in Jeffrey sin dall’inizio.
Ne è sintomo, ad esempio, la brutalità animalesca (elemento sottolineato anche dal suono) con cui possiede Dorothy e il conseguente tradimento ai danni di Sandy, ma anche gli indizi sparsi di un sotteso rapporto padre-figlio che si viene a creare proprio tra lui e Frank. In Lynch non c’è mai dualità né manicheismo: i confini sono sempre sfumati, il buio confina con la luce e il Bene si trova perennemente in prossimità del Male. Pensiamo anche ai personaggi di Twin Peaks, ad un primo impatto sembrano persone semplici e di buon cuore, ma con il progredire della serie ognuno di loro rivela una malcelata crudeltà perversa: neanche Cooper, che nelle prime due stagioni incarnava a tutti gli effetti una figura angelica, si salva, anche lui ha il suo doppelgänger; e anche Laura Palmer, che nella mitologia fornitaci nella terza stagione abita la supposta Loggia Bianca, è un personaggio contraddittorio, corrotto, per certi versi malato. Il fatto stesso che venga posseduta da BOB sin dall’infanzia sembra indicare la necessità di accettare il Male dentro di sé per poterlo conoscere a fondo ed eventualmente sconfiggerlo. Il passato, dunque, possiede certamente un alone mitico che dona quella sensazione di sogno tipica della prima produzione lynchiana, ma al contempo si svela come elemento perturbante (primordiale, ancora una volta, e perciò originario) capace di portare a galla i peggiori incubi.
Il memorabile "urlo" di Laura Palmer in Twin Peaks (1990-1991)
In questa duplice (molteplice) dimensione si colloca anche la figura di Lynch intesa come parte del nostro immaginario culturale. Se da un lato le sue opere hanno riflesso un mondo oscuro, in certi casi dominato dal Male (il che, lo ripetiamo, è una banalizzazione della sua poetica), dall’altro la sua indole (come quella di molti suoi personaggi) di persona solare e sostanzialmente entusiasta della vita sembra cozzare perfettamente con la sua arte. Allo stesso modo è curioso notare come il suo apprezzamento sia a sua volta sempre oscillato tra un massimo riconoscimento e un totale disconoscimento. È comunque raro che un artista del suo calibro, che ha affrontato temi troppo spesso relegati ai margini della cultura senza scendere a compromessi, investendo tutto sé stesso in una visione autenticamente personale e radicale, tanto negli intenti quanto negli esiti, abbia incontrato un tale favore critico (ma ancor più di pubblico).
Quando Twin Peaks approdava sulle televisioni di tutto il mondo, in Italia la serialità a cui si era abituati era quella di Dallas e Dinasty. Ma nel 1991 Mike Bongiorno annunciava che, dopo il suo programma, sarebbe arrivata la prima vera serie evento; e Mediaset mandò in onda l’ultimo episodio di Twin Peaks (che è a tutti gli effetti una soap-opera ibridata con il giallo e il mistery) quasi in contemporanea con gli Stati Uniti, qualcosa che oggi ci sembra ovvio e banale, ma che all’epoca risultò rivoluzionario. Forse non capiremo mai davvero Lynch, ed è questo che lo rende così affasciante. La sua produzione ci ha consegnato un’arte capace di scoperchiare il Reale sotteso alla Realtà, di guardare negli anfratti profondi dell’essere umano, di cercare la Luce nel Buio. Immagini che fanno innamorare di una tazza di caffè e di una fetta di cherry pie e che contemporaneamente portano in luoghi oltremondani che assomigliano così tanto al nostro mondo. Uno specchio in cui (non) riconoscerci. Una scatola che ci riporta a noi stessi. Una pittura del desiderio.
Una volta David Lynch disse "Perdersi è meraviglioso". Sarà banale, ma: grazie.
Mulholland Drive (2001)
Il lascito di un artista che ha cambiato per sempre
il volto della Settima Arte,
di Mario Vannoni
TR-122
08.02.2025
Quando ricordiamo David Lynch il nostro pensiero volge immediatamente ai suoi film, opere che hanno contribuito a spingere in territori inesplorati i confini della Settima Arte, creando storie e immaginari sconvolgenti, penetrati a fondo nella nostra memoria visiva e culturale. Ma, se ci si ragiona, il lavoro di Lynch che maggiormente ha influenzato il patrimonio collettivo non proviene dal cinema, bensì dalla televisione. Twin Peaks (I segreti di Twin Peaks, 1990-1991) è stata una di quelle che oggi definiremmo “serie evento”, uno show che tutti guardavano e di cui si aspettava con ansia l’episodio successivo per poi discuterne il lunedì a scuola o al lavoro.
Questa è la prima, superficiale avvisaglia di uno sguardo trasversale e transmediale, abile nel muoversi all’interno di un mondo (quello dello spettacolo) nei confronti del quale il regista si è sempre posto come un freak. Coerente, integro e soprattutto fedele alla sua personalissima visione, Lynch si è sempre dedicato all’esplorazione dell’arte in senso lato, dimostrandosi capace di estendere la propria produzione su linguaggi differenti, ibridandoli tra loro in forme sempre nuove e dotate di una vitalità dall'approccio infantile - affascinato dal non conosciuto, aperto alla sperimentazione ed entusiasta nello scoprire - che è esso stesso fonte di originalità. È questa l’unica prospettiva con la quale si può affrontare il suo lavoro, considerandolo non come frutto della mente di un regista, ma come quello di un inventore di forme: un artista, per intenderci.
The Elephant Man (1980)
Inizialmente intenzionato a diventare pittore, il giovane David esordì con Six Men Getting Sick (1967), un cortometraggio dove viene adoperata come schermo una scultura rappresentante sei teste umane (ricavate da calchi della testa del regista realizzati da Jack Fisk, suo storico collaboratore e scenografo) sulle quali vengono proiettate delle animazioni in loop. Il primo contatto di Lynch con il cinema avviene quindi per mezzo di altre arti filtrate attraverso la pellicola. Six Men Getting Sick è, di fatto, una video-installazione che asseconda una concezione della messa in scena d’impronta figurativa, al punto che l’idea di partenza, come affermato dal cineasta stesso, era di suggerire «l’impressione di un dipinto vivo». Ciò che Lynch cerca nel cinema è dunque anzitutto il movimento, la possibilità di conferire al pittorico la dimensione temporale. Il cinema è (nella sua visione) essenzialmente lo spostamento di un corpo nello spazio.
Non a caso, nel suo primo lungometraggio, Eraserhead (Eraserhead - La mente che cancella, 1977), il protagonista Henry si muove di continuo da un posto all’altro tramite un incedere del tutto particolare, qualcosa a metà tra un claudicare a là Charlot e l'ancheggiare oscillante di un uomo che non ha piena confidenza con la propria fisicità. A ben vedere questa è una caratteristica tipica dei personaggi lynchiani, che manifestano sempre nel corpo un qualche sintomo di disadattamento all’ambiente circostante e che, perciò, incarnano un’emanazione della figura del regista, a sua volta sempre sbilenco, incerto, dalla postura e dal portamento bizzarro: «un James Stewart venuto da Marte», come lo definiva Mel Brooks. Pensiamo a Jeffrey Beaumont, protagonista di Blue Velvet (Velluto blu, 1986), e al suo passo della gallina, oppure all’infermità di Alvin Straight in The Straight Story (Una storia vera, 1999), o ancora ai tracciati quasi geometrici compiuti dai conigli in Rabbits (2002) o in Inland Empire (Inland Empire - L'impero della mente, 2006), per non parlare dell’eccentricità corporea di Sailor Ripley in Wild at Heart (Cuore selvaggio, 1990). Ecco, l’idea di corpo in Lynch è emblematica di uno squilibrio, lo stesso che esiste nel suo cinema e che ne è, anzi, il tratto più peculiare.
David Lynch dirige Isabella Rossellini sul set di Blue Velvet (Velluto Blu, 1986)
Dopo il successo di Eraserhead, inizialmente giudicato troppo insolito per una classica distribuzione mainstream e quindi relegato nelle proiezioni di mezzanotte, che ne ha di fatto decretato lo status di film di culto (leggenda vuole che fosse tra le pellicole predilette da Stanley Kubrick, il quale lo mostrava a ripetizione sul set di Shining), Lynch venne scelto da Mel Brooks, influente attore e produttore hollywoodiano, per girare The Elephant Man (1980), un lungometraggio ispirato alla vita di Joseph Merrick - la figura più lampante di quell’inadeguatezza corporea che scorre lungo tutta la filmografia dell’autore- che riscontrò un grande successo commerciale e venne candidato a otto premi Oscar. Fu così che il regista si ritrovò la strada spianata: le proposte fioccarono, tra cui quella di George Lucas che gli offrì la possibilità di dirigere Return of the Jedi (Il ritorno dello Jedi, 1983) e che Lynch prontamente rifiutò per dedicarsi al progetto di Dune (1984). L’adattamento del romanzo di Frank Herbert fu un fiasco al botteghino, tanto da portare il suo autore al disconoscimento dell’opera, che lamentò l’ingerenza della produzione di Dino De Laurentiis, reo di aver martoriato la pellicola in fase di montaggio.
Ciononostante, la collaborazione tra i due proseguì (da qui in poi il cineasta avrà sempre il final cut sulle sue produzioni), culminando nella realizzazione di Blue Velvet, un film complesso e considerato da molti (tra cui l’allora direttore del Festival di Venezia Gian Luigi Rondi) come osceno e scandaloso, ma assurto anch’esso al rango di cult, sorta di ricettacolo della poetica lynchiana, tra contenuti oscuri e scabrosi, doppi, cittadine di provincia e vicinanza liminare, e liminale, tra Bene e Male. A questo seguì Wild at Heart, personalissima rilettura del romanzo per l'infanzia The Wonderful Wizard of Oz (Il meraviglioso mago di Oz), opera che ebbe un' enorme influenza sull’intera produzione di Lynch (almeno dal punto di vista dell’apprezzamento di pubblico e critica), e che, venendo premiata con la Palma d’oro al Festival di Cannes, incanalò il regista verso quella "consacrazione planetaria" che sarebbe derivata, da li a breve, dal successo di Twin Peaks.
La vittoria della Palma d'Oro al Festival di Cannes 1990
Da qui in poi la parabola ascendente si incurva verso il basso, in particolare quando Lynch decide di girare un film-prequel dello show (che aveva abbandonato dopo l’imposizione dell’emittente di rivelare l’assassino di Laura Palmer, per poi tornare nell’ultimo episodio della seconda stagione), ovvero Twin Peaks: Fire Walk with Me (Fuoco cammina con me, 1992). L'opera venne ostracizzata dai fan della serie e anche la critica impiegò anni per comprenderla e rivalutarla come un crocevia fondamentale nella poetica dell’autore. Infatti, da qui in poi Lynch intraprenderà un percorso artistico radicale, scevro da qualsiasi tipo di condizionamento esterno, approfondendo un’estetica presente sin dai suoi primi cortometraggi (come The Alphabet, 1968 e The Grandmother, 1970, un lavoro essenziale nella filmografia del regista, contenente i prodromi di ciò che sarà il suo cinema a venire). I tre film che seguono - Lost Highway (Strade perdute, 1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire - rappresentano l’espressione più compiuta di ciò che l’aggettivo lynchiano vuole indicare: storie torbide, non-linearità della narrazione, passaggi tra mondi, opere cinematografiche inafferrabili attraverso lo scandaglio della ragione, aperte alla sensazione, all’interpretazione del sentire.
The Straight Story si frappone a questa “trilogia”, spezzando apparentemente quell'abisso di oscurità progressiva con la sua linearità e semplicità descrittiva, quasi un film di buoni sentimenti. Ma a un’attenta analisi, come molti hanno sottolineato nel corso degli anni, il lungometraggio ritrae "l’altra faccia della medaglia" del lynchiano, lo specchio riflesso, il doppio di Lost Highway e Mulholland Drive, che ancora una volta (e in maniera quanto mai esplicita) coglie lo smarrirsi di un soggetto in movimento all'interno un'ambiente che dà spazio alla luce per mostrare l’oscurità - quando il cinema del regista ci aveva, da sempre, abituato al contrario. Ed è proprio questa l’azione fondamentale che il lynchiano svolge sulle nostre coscienze: un continuo depistaggio, una perturbazione delle coordinate, uno smarrimento sublime (e perciò terrificante) nelle profondità dell’inconscio, dello spirito, dell’anima. In questo senso il cinema di Lynch è esistenzialista, perché esplora l’assurdità dell’esistere: «non capisco perché la gente si aspetti che l'arte abbia un senso [mentre] accettano il fatto che la vita non abbia senso».
The Straight Story (Una storia vera, 1999)
Nel 2017, Lynch torna a Twin Peaks (con l'ultima stagione dello show intitolata Twin Peaks - The Return) per realizzare il suo ultimo capolavoro. L’opera si può leggere in tanti modi - un saggio sulla senilità, la messa in scena dell’esplosione del Reale, il disancoramento della serialità dal mondo televisivo, o ancora l’esposizione di un Male abissale e infinito, reso mitico da una narrazione fondativa che ne riscrive l’immaginario - ma forse il suo portato teorico più precipuo sta nella distruzione dei significati. La trama, pur complessa e ricca di percorsi secondari che spostano continuamente l’attenzione dal fulcro narrativo (in una maniera così sistematica da diventare strutturale), si presenta come un ri-attraversamento di Twin Peaks, visto però da una prospettiva irriducibilmente mutata. Il viaggio di Dale Cooper è contemporaneamente a ritroso e avanti nel tempo, nel tentativo di riallacciare gli eventi restituendoli al proprio senso. Ma quale? Recuperata Laura Palmer dal suo destino, Twin Peaks - la cittadina, la serie, il mondo (finzionale?) - smette di esistere e sconfina nel Reale. Cooper diventa Richard, Laura diventa Carrie Page e Twin Peaks diventa il nostro mondo (o lo è sempre stato?).
Nel momento in cui il senso sembra ricostruirsi la realtà cessa di esistere, resta solo il buio di un cortocircuito che è la metafora più potente dell’intera carriera di Lynch. L’urlo di Laura Palmer/Carrie Page nel finale di Twin Peaks - The Return, capace letteralmente di spegnere ogni percorso logico, è la Loggia nera di Twin Peaks, è il Club Silencio di Mulholland Drive, il mondo dietro/dentro al termosifone di Eraserhead, il fuoco di Wild at Heart, la voce di Dune, il pettirosso di Blue Velvet, la stazione radiofonica di Inland Empire, il quadro di Fire Walk with Me, il cervo investito in The Straight Story, il cielo stellato di The Elephant Man, la strada di Lost Highway: un vuoto di senso, un non-luogo, spazio liminare di registrazione di un eccesso, un buco nero della rappresentazione.
Rita e Betty assistono assuefatte allo spettacolo del Club Silencio in una sequenza chiave di Mulholland Drive (2001)
Ed è proprio il nero ciò verso cui converge tutto il cinema (l’arte) del regista, nero non come assenza di luce ma come sensazione dell’infinito. Si pensi ai suoi quadri, dipinti in un monocromatismo quasi assoluto, le linee che assomigliano a graffi e le figure che tendono a ricadere su sé stesse. O ai boschi, paesaggi sempre disorientanti, contenitori di suoni e presagi, ritratti nella funzione di nascondere all’occhio per accedere all’immaginazione. Ma anche al suo gemello, il sipario, vero e proprio luogo magico del visibile lynchiano, che a sua volta nasconde per rivelare, oggetto-feticcio che incornicia la centralità dello sguardo, hitchcockianamente voyeuristico, come veicolo trasformativo della realtà. E che dire del fuoco, del vento, dell’elettricità? Cariche energetiche che disegnano un mondo in costante seppur celata (agli occhi) attività, manifestazioni di un oltre in cui la verità, herzoghianamente intesa, è da ricercarsi, e perciò unico ed inevitabile approdo dell’arte di Lynch.
Un’arte che, lo ripetiamo, non è solo cinematografica - Lynch oltre che essere stato anche pittore è stato musicista, scultore, disegnatore di mobili - e che anzi utilizza il cinema come scatola entro cui far confluire passioni, influenze, ossessioni, assecondando una visione che è anzitutto pittorica. Sono notevoli le risonanze che il lavoro del regista mostra con le opere di Francis Bacon o Edward Hopper, matrici di un immaginario che non si lascia classificare con delle etichette - postmoderno, moderno, classico, sperimentale, surrealista, espressionista sono tutte espressioni associabili al lynchiano - e che cerca nell’interazione tra il dinamismo delle figure e la sotterranea vitalità dell’ambiente l’inconscio delle immagini, uno squarcio in cui penetrare per far emergere l’assoluto, per raggiungere la trascendenza. Le immagini di Lynch non sono oniriche, non provengono da luoghi di sogno: sembrano non appartenerci perché non si lasciano inquadrare entro un registro riconducibile all’esperienza conscia, sfuggono alla comprensione perché scavano alle radici della nostra sensibilità, a tratti ci repellono perché esibiscono il rimosso delle nostre pulsioni. Lynch non va compreso, va ascoltato per essere esperito.
L'agente Dale Cooper e Laura Palmer si incontrano nell'iconica Loggia Nera in Twin Peaks - The Return (2017)
In questo intersecarsi dei sensi - il pittorico rimanda alla vista, il sonoro ha una dimensione tattile, la materialità degli oggetti riesce a restituirne il gusto, gli spazi hanno una consistenza uditiva, così come le atmosfere possiedono odori - il regista scopre nella sinestesia l’elemento per realizzare un’arte del sensibile che lo avvicina alle avanguardie e a certe cinematografie indipendenti (John Waters su tutti), seppur da un punto di vista strettamente linguistico il suo cinema non abbia mai proposto soluzioni intrinsecamente sperimentali. Lynch non è un regista che cerca geometrie inusuali nelle proprie inquadrature, non utilizza il montaggio per decostruire la grammatica filmica, né tantomeno crea effetti speciali innovativi per dar forma alle sue visioni. La novità del cinema di Lynch - che resta tuttora un mistero, e così dev’essere - non è delle immagini, ma nelle immagini, nella visionarietà con cui, ricorrendo a un linguaggio ampiamente canonicizzato, riesce a innervare suggestioni figurali all’interno del figurativo.
Come giustamente osserva Riccardo Caccia nella sua monografia sul regista, Lynch fa un uso "aberrante" di un linguaggio comune - con tutte le risonanze che tale pratica comporta nei confronti della biografia dell’artista, che ha sempre confessato il suo disagio nell’utilizzo della parola -, così come innesta il non-narrativo nel narrativo, senza destrutturare mai davvero l’ordine simbolico, ma costruendo in esso delle emersioni di senso di potenza significante. In altre parole, Lynch non è Godard: non distrugge l’ordine per ricostruirlo daccapo, ma lo lavora dall’interno per estrarne il potenziale semantico latente, per scoprire connessioni inedite e nuove associazioni di sguardo.
Lynch presenta al Sundance Film Festival Lost Highway (Strade perdute, 1997) con gli attori Patricia Arquette e Bill Pullman
È nella stessa direzione che si orienta il suo gusto figurativo, mai teso a una visione proiettata verso il futuro (tecnologico, artistico, antropologico) ma piuttosto ripiegato verso un passato (delle immagini, dell’uomo) che si fa matrice mitica dell’immaginario. Ne è una spia la ricerca svolta nell’ambito degli effetti speciali, che riconducono il suo cinema a formule arcaiche, primigenie, primitive, improntate a una rudimentalità che anziché diminuirne il fascino lo accresce: le immagini di Lynch non sono mai falsificate; sono semmai sottoposte a un’elaborazione interna in cui convergono forme espressive diverse ma sempre, in qualche modo, analogiche, materiche, “classiche”.
Il ricorso più esplicito al sostrato mitico, tuttavia, è l’utilizzo plurimo e insistito delle atmosfere anni ’50. È ormai divenuto un simbolo l’incipit di Blue Velvet, con le sue staccionate dipinte di bianco, i fiori di un rosso innaturale, i pompieri che salutano felici guardando in camera, il tutto accompagnato dalle note dell’omonimo brano di Bobby Vinton (pubblicato proprio nel 1951), andando a creare l’atmosfera idilliaca - mitizzata più che realmente esperita - degli Stati Uniti in quella decade. Il modo con il quale Lynch rappresenta la provincia americana (la cittadina in cui è ambientato Blue Velvet si chiama Lumberton, nome che rimanda al legname, altro elemento ricorrente nell’opera del regista, ad esempio in Twin Peaks, a sua volta ambientato in una provincia al confine con il Canada) si struttura sullo sguardo con cui lui stesso l’ha vissuta; David Lynch nasce infatti a Missoula, nel 1946, e trascorre i primi anni di vita spostandosi di frequente per le esigenze lavorative del padre, nel nord-ovest degli Usa.
L'inconico intro di Blu Velvet (Velluto Blu, 1986)
La stilizzazione con la quale ritrae gli anni ’50, perciò, gli deriva dal fatto di averli vissuti durante l’infanzia, con gli occhi di un bambino, i quali hanno trasfigurato quell’idea di buon vicinato, pace e tranquillità in un paradiso in terra. Accanto ad esso, tuttavia, complice anche la terribile esperienza della sua permanenza a Philadelphia quando frequentava la Pennsylvania Academy of Fine Arts e girava Eraserhead, emerge dal sottosuolo un mondo gretto, truce, sporco, brutale, finemente rappresentato nell’inquadratura che scova gli scarafaggi nascosti sotto l’erba verdissima del prato, nell’orecchio mozzato - uno dei tanti portali lynchiani verso altri mondi - e nel personaggio di Frank Booth. Si è soliti leggere l’arco narrativo di Blue Velvet come un passaggio dalla purezza giovanile alla corruzione dell’età adulta, ma se guardiamo attentamente alle attitudini comportamentali di Jeffrey ci accorgeremo che il suo personaggio non incarna il polo positivo (il Bene) contrapposto al negativo di Frank (il Male); al contrario, il Male è già in Jeffrey sin dall’inizio.
Ne è sintomo, ad esempio, la brutalità animalesca (elemento sottolineato anche dal suono) con cui possiede Dorothy e il conseguente tradimento ai danni di Sandy, ma anche gli indizi sparsi di un sotteso rapporto padre-figlio che si viene a creare proprio tra lui e Frank. In Lynch non c’è mai dualità né manicheismo: i confini sono sempre sfumati, il buio confina con la luce e il Bene si trova perennemente in prossimità del Male. Pensiamo anche ai personaggi di Twin Peaks, ad un primo impatto sembrano persone semplici e di buon cuore, ma con il progredire della serie ognuno di loro rivela una malcelata crudeltà perversa: neanche Cooper, che nelle prime due stagioni incarnava a tutti gli effetti una figura angelica, si salva, anche lui ha il suo doppelgänger; e anche Laura Palmer, che nella mitologia fornitaci nella terza stagione abita la supposta Loggia Bianca, è un personaggio contraddittorio, corrotto, per certi versi malato. Il fatto stesso che venga posseduta da BOB sin dall’infanzia sembra indicare la necessità di accettare il Male dentro di sé per poterlo conoscere a fondo ed eventualmente sconfiggerlo. Il passato, dunque, possiede certamente un alone mitico che dona quella sensazione di sogno tipica della prima produzione lynchiana, ma al contempo si svela come elemento perturbante (primordiale, ancora una volta, e perciò originario) capace di portare a galla i peggiori incubi.
Il memorabile "urlo" di Laura Palmer in Twin Peaks (1990-1991)
In questa duplice (molteplice) dimensione si colloca anche la figura di Lynch intesa come parte del nostro immaginario culturale. Se da un lato le sue opere hanno riflesso un mondo oscuro, in certi casi dominato dal Male (il che, lo ripetiamo, è una banalizzazione della sua poetica), dall’altro la sua indole (come quella di molti suoi personaggi) di persona solare e sostanzialmente entusiasta della vita sembra cozzare perfettamente con la sua arte. Allo stesso modo è curioso notare come il suo apprezzamento sia a sua volta sempre oscillato tra un massimo riconoscimento e un totale disconoscimento. È comunque raro che un artista del suo calibro, che ha affrontato temi troppo spesso relegati ai margini della cultura senza scendere a compromessi, investendo tutto sé stesso in una visione autenticamente personale e radicale, tanto negli intenti quanto negli esiti, abbia incontrato un tale favore critico (ma ancor più di pubblico).
Quando Twin Peaks approdava sulle televisioni di tutto il mondo, in Italia la serialità a cui si era abituati era quella di Dallas e Dinasty. Ma nel 1991 Mike Bongiorno annunciava che, dopo il suo programma, sarebbe arrivata la prima vera serie evento; e Mediaset mandò in onda l’ultimo episodio di Twin Peaks (che è a tutti gli effetti una soap-opera ibridata con il giallo e il mistery) quasi in contemporanea con gli Stati Uniti, qualcosa che oggi ci sembra ovvio e banale, ma che all’epoca risultò rivoluzionario. Forse non capiremo mai davvero Lynch, ed è questo che lo rende così affasciante. La sua produzione ci ha consegnato un’arte capace di scoperchiare il Reale sotteso alla Realtà, di guardare negli anfratti profondi dell’essere umano, di cercare la Luce nel Buio. Immagini che fanno innamorare di una tazza di caffè e di una fetta di cherry pie e che contemporaneamente portano in luoghi oltremondani che assomigliano così tanto al nostro mondo. Uno specchio in cui (non) riconoscerci. Una scatola che ci riporta a noi stessi. Una pittura del desiderio.
Una volta David Lynch disse "Perdersi è meraviglioso". Sarà banale, ma: grazie.
Mulholland Drive (2001)