NC-140
09.02.2023
Da Wikipedia: «Elefante nella stanza (en. Elephant in the room) è un'espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L'espressione si riferisce, cioè, ad un problema molto noto ma di cui nessuno vuole discutere oppure ad un particolare elemento di tale problema. L'idea di base è che un elefante dentro una stanza sarebbe impossibile da ignorare; quindi, se le persone all'interno della stanza fanno finta che questo non sia presente, la ragione è che, così facendo, sperano di evitare un problema più che palese. Questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabù sociali o di situazioni imbarazzanti».
Gus Van Sant faceva riferimento proprio a questa espressione con il suo film più noto, Elephant: anche se il titolo era stato preso in prestito dall’omonima pellicola del 1989 di Alan Clarke - pensando erroneamente che si riferisse ad un proverbio cinese su cinque uomini ciechi che vengono condotti ciascuno in una parte differente del corpo di un'elefante e ognuno di loro pensa che sia una cosa diversa - entrambi i film raccontano le loro storie mettendo in evidenza il concetto dell’elefante nella stanza. Il film di Clarke illustra i conflitti e le violenze avvenute nell’Irlanda del Nord tra gli anni ’60 e gli anni ’90, riprendendo con pochissimi dialoghi il susseguirsi di diciotto omicidi, tutti basati su eventi reali descritti nei verbali della polizia di quegli anni. Si fa così riferimento ad un clima di indifferenza generale riguardo ad evidenti problemi sociali, gli stessi che portano Alex ed Eric, i protagonisti del film del 2003 di Gus Van Sant, a far esplodere la loro rabbia omicida. La totale libertà in cui i due, nell’ultima scena, compiono il massacro nella loro scuola - nei fatti liberamente ispirato al massacro della Columbine High School del 1999 - è una rappresentazione perfetta dell’espressione sopracitata.
Nel 1916 esce Intolerance di David W. Griffith, il film al quale il padre del cinema narrativo si dedicò dopo le critiche ricevute per il suo precedente lavoro, Nascita di una nazione. In Intolerance vengono narrati, in maniera episodica, quattro momenti chiave per la storia dell’uomo in cui l’intolleranza avrebbe giocato un ruolo determinante nella rovina della società. Il film passò alla storia, tra le altre cose, per il suo imponente impianto scenografico, specialmente quello legato ai mastodontici elefanti del quarto episodio dedicato alla caduta di Babilonia. Griffith fu fortemente influenzato dalle scenografie di un altro importante film di quel periodo: Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, con il suo impressionante tempio di Moloch.
Nel 1987 i fratelli Taviani partono da questo spunto per omaggiare la storia del cinema e parlare della loro carriera, rivisitandola nella vita dei fratelli Nicola e Andrea, con la pellicola Good Morning Babilonia. Nel film i due fratelli sono degli artigiani toscani che emigrano, nel 1911, negli Stati Uniti per tentare la fortuna, trovando lavoro nel padiglione italiano dell’esposizione universale di San Francisco. Da lì la loro bravura e sfrontatezza porterà le loro strade ad incrociarsi con quelle del regista Griffith, che, in quegli anni, stava lavorando proprio ad Intolerance ed era alla ricerca di scenografi italiani. I due finiranno a progettare e costruire proprio il rinominato elefante dell’episodio babilonese del film.
L’elefante nella stanza, in questo caso, non è solo - letteralmente - un importante elemento strutturale che passerà alla storia del cinema in termini scenografici ma anche il simbolo del conflitto tra i due fratelli. Esemplare è, in questo senso, la sequenza iniziale dell’opera dei Taviani, che vede Andrea e Nicola rifinire proprio un elefante in rilievo sulle mura della Chiesa dei Miracoli a Pisa: lì vi lavorano insieme e il talento li unisce, ma sarà proprio a causa dell’elefante da costruire per il set di Griffith che i due ignoreranno problemi più grandi finendo per separarsi. Edna, la moglie di Nicola, muore di parto e il trauma non fa che peggiorare le cose. Scoppia la Prima Guerra Mondiale e i due fratelli si riuniranno soltanto sul campo di battaglia, sempre con la cinepresa al loro fianco, per un’ultima e tragica volta. L’elefante che avevano costruito è ormai andato perduto.
L’elefante diviene un mezzo per esprimere l’importanza e la tragicità del cinema anche in un altro film. Nella sequenza finale di Babylon di Damien Chazelle, Manny Torres (Diego Calva) assiste alla proiezione di un film che gli ricorda i tempi di quando lavorava ad Hollywood. Lui si commuove e noi ci immedesimiamo in un incredibile montaggio che ripercorre, e tenta di riassumere, la storia del cinema passando da Un chien andalou fino a Matrix e Avatar. La Babilonia di Chazelle - l’antica città della Mesopotamia ritorna sempre - è caotica e confusionaria, essa è la rappresentazione dell’industria cinematografica nel passaggio dal muto al sonoro. La babele nella tradizione cristiana indica, infatti, un luogo di perdizione oltre che di gran confusione: qui si muovono Nellie LaRoy (Margot Robbie), Jack Conrad (Brad Pitt) e Manny Torres, tutti alla ricerca di affermazione. Solo Manny, rispetto agli altri, riuscirà a sopravvivere una volta conquistata la vetta del successo. Una meta da raggiungere non così tanto metaforica.
All’inizio di Babylon Manny deve arrivare in alto, su una collina, alla villa di un noto produttore che sta organizzando una festa: gli deve portare proprio un elefante. Le condizioni sono avverse, ha solo un camioncino adibito al trasporto di cavalli per farlo. All’apparenza la missione pare impossibile, ma alla fine ce la fa. L’elefante è arrivato nella stanza e sarà proprio durante quella festa che la vita di Manny cambierà radicalmente. Metaforicamente, un elefante da circo in mezzo ad una saletta con più di cento invitati, può nascondere il pericolo della ricerca smaniosa del successo, Nellie, Jack e Manny lo impareranno a loro spese. Storicamente la città di Babilonia fu rasa al suolo e distrutta fino alle sue fondamenta, succede la stessa cosa alla Babylon di Chazelle, eppure la forza del cinema - come capirà Manny sul finale - aiuterà questa industria imperfetta a ricostruirsi e rinascere sotto nuove forme.
Un’espressione ed un mammifero attraversano realtà e finzione in più di cento anni di storia della settima arte, mettendo in evidenza le criticità di una società che ignora i suoi problemi fino a quando diventano troppo grossi, anche nel cinema.
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09.02.2023
Da Wikipedia: «Elefante nella stanza (en. Elephant in the room) è un'espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità che, per quanto ovvia e appariscente, viene ignorata o minimizzata. L'espressione si riferisce, cioè, ad un problema molto noto ma di cui nessuno vuole discutere oppure ad un particolare elemento di tale problema. L'idea di base è che un elefante dentro una stanza sarebbe impossibile da ignorare; quindi, se le persone all'interno della stanza fanno finta che questo non sia presente, la ragione è che, così facendo, sperano di evitare un problema più che palese. Questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabù sociali o di situazioni imbarazzanti».
Gus Van Sant faceva riferimento proprio a questa espressione con il suo film più noto, Elephant: anche se il titolo era stato preso in prestito dall’omonima pellicola del 1989 di Alan Clarke - pensando erroneamente che si riferisse ad un proverbio cinese su cinque uomini ciechi che vengono condotti ciascuno in una parte differente del corpo di un'elefante e ognuno di loro pensa che sia una cosa diversa - entrambi i film raccontano le loro storie mettendo in evidenza il concetto dell’elefante nella stanza. Il film di Clarke illustra i conflitti e le violenze avvenute nell’Irlanda del Nord tra gli anni ’60 e gli anni ’90, riprendendo con pochissimi dialoghi il susseguirsi di diciotto omicidi, tutti basati su eventi reali descritti nei verbali della polizia di quegli anni. Si fa così riferimento ad un clima di indifferenza generale riguardo ad evidenti problemi sociali, gli stessi che portano Alex ed Eric, i protagonisti del film del 2003 di Gus Van Sant, a far esplodere la loro rabbia omicida. La totale libertà in cui i due, nell’ultima scena, compiono il massacro nella loro scuola - nei fatti liberamente ispirato al massacro della Columbine High School del 1999 - è una rappresentazione perfetta dell’espressione sopracitata.
Nel 1916 esce Intolerance di David W. Griffith, il film al quale il padre del cinema narrativo si dedicò dopo le critiche ricevute per il suo precedente lavoro, Nascita di una nazione. In Intolerance vengono narrati, in maniera episodica, quattro momenti chiave per la storia dell’uomo in cui l’intolleranza avrebbe giocato un ruolo determinante nella rovina della società. Il film passò alla storia, tra le altre cose, per il suo imponente impianto scenografico, specialmente quello legato ai mastodontici elefanti del quarto episodio dedicato alla caduta di Babilonia. Griffith fu fortemente influenzato dalle scenografie di un altro importante film di quel periodo: Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone, con il suo impressionante tempio di Moloch.
Nel 1987 i fratelli Taviani partono da questo spunto per omaggiare la storia del cinema e parlare della loro carriera, rivisitandola nella vita dei fratelli Nicola e Andrea, con la pellicola Good Morning Babilonia. Nel film i due fratelli sono degli artigiani toscani che emigrano, nel 1911, negli Stati Uniti per tentare la fortuna, trovando lavoro nel padiglione italiano dell’esposizione universale di San Francisco. Da lì la loro bravura e sfrontatezza porterà le loro strade ad incrociarsi con quelle del regista Griffith, che, in quegli anni, stava lavorando proprio ad Intolerance ed era alla ricerca di scenografi italiani. I due finiranno a progettare e costruire proprio il rinominato elefante dell’episodio babilonese del film.
L’elefante nella stanza, in questo caso, non è solo - letteralmente - un importante elemento strutturale che passerà alla storia del cinema in termini scenografici ma anche il simbolo del conflitto tra i due fratelli. Esemplare è, in questo senso, la sequenza iniziale dell’opera dei Taviani, che vede Andrea e Nicola rifinire proprio un elefante in rilievo sulle mura della Chiesa dei Miracoli a Pisa: lì vi lavorano insieme e il talento li unisce, ma sarà proprio a causa dell’elefante da costruire per il set di Griffith che i due ignoreranno problemi più grandi finendo per separarsi. Edna, la moglie di Nicola, muore di parto e il trauma non fa che peggiorare le cose. Scoppia la Prima Guerra Mondiale e i due fratelli si riuniranno soltanto sul campo di battaglia, sempre con la cinepresa al loro fianco, per un’ultima e tragica volta. L’elefante che avevano costruito è ormai andato perduto.
L’elefante diviene un mezzo per esprimere l’importanza e la tragicità del cinema anche in un altro film. Nella sequenza finale di Babylon di Damien Chazelle, Manny Torres (Diego Calva) assiste alla proiezione di un film che gli ricorda i tempi di quando lavorava ad Hollywood. Lui si commuove e noi ci immedesimiamo in un incredibile montaggio che ripercorre, e tenta di riassumere, la storia del cinema passando da Un chien andalou fino a Matrix e Avatar. La Babilonia di Chazelle - l’antica città della Mesopotamia ritorna sempre - è caotica e confusionaria, essa è la rappresentazione dell’industria cinematografica nel passaggio dal muto al sonoro. La babele nella tradizione cristiana indica, infatti, un luogo di perdizione oltre che di gran confusione: qui si muovono Nellie LaRoy (Margot Robbie), Jack Conrad (Brad Pitt) e Manny Torres, tutti alla ricerca di affermazione. Solo Manny, rispetto agli altri, riuscirà a sopravvivere una volta conquistata la vetta del successo. Una meta da raggiungere non così tanto metaforica.
All’inizio di Babylon Manny deve arrivare in alto, su una collina, alla villa di un noto produttore che sta organizzando una festa: gli deve portare proprio un elefante. Le condizioni sono avverse, ha solo un camioncino adibito al trasporto di cavalli per farlo. All’apparenza la missione pare impossibile, ma alla fine ce la fa. L’elefante è arrivato nella stanza e sarà proprio durante quella festa che la vita di Manny cambierà radicalmente. Metaforicamente, un elefante da circo in mezzo ad una saletta con più di cento invitati, può nascondere il pericolo della ricerca smaniosa del successo, Nellie, Jack e Manny lo impareranno a loro spese. Storicamente la città di Babilonia fu rasa al suolo e distrutta fino alle sue fondamenta, succede la stessa cosa alla Babylon di Chazelle, eppure la forza del cinema - come capirà Manny sul finale - aiuterà questa industria imperfetta a ricostruirsi e rinascere sotto nuove forme.
Un’espressione ed un mammifero attraversano realtà e finzione in più di cento anni di storia della settima arte, mettendo in evidenza le criticità di una società che ignora i suoi problemi fino a quando diventano troppo grossi, anche nel cinema.