NC-247
27.10.2024
Il nostro rapporto con le tecnologie della memoria è mutato velocemente, tanto che negli ultimi anni ognuno di noi si è trasformato in un archivista più o meno consapevole. Ma il concetto stesso di archivio è un concetto scivoloso, proprio perché molto ampio. Una volta comprese le dinamiche che lo regolano, pressoché ogni cosa può prendervi parte. Una casa, ad esempio, diventa un sistema che raccoglie e preserva un certo numero di oggetti; questi materiali si legano a loro volta alla memoria delle persone che la abitano, raccontando qualcosa di loro, della loro cultura, delle loro esperienze. In fondo, ognuno si rapporta allo spazio abitativo seguendo le due tendenze fondamentali che regolano un archivio: il distruggere (oblio) e il preservare (ricordo). Non solo però le nostre azioni sono assimilabili a quelle di un archivista, ma i nostri stessi corpi costituiscono in un certo senso degli archivi biologici, strutture che preservano una memoria genetica per trasmetterla alle generazioni future.
Seguendo questa deriva teorica, anche un festival cinematografico funziona come un archivio, e così a sua volta ogni film della sua programmazione: aprire l’archivio significa anche aprirsi a una visione archivistica delle cose e iniziare a leggere la contemporaneità nei termini di un continuo conflitto tra conservazione e cancellazione, cioè in fondo tra le pulsioni di sesso e di morte che per Freud regolano il nostro rapporto col mondo. Queste sono riflessioni che si devono appunto a un festival, Archivio Aperto, che nella sua ultima edizione ha raccolto una serie di proiezioni, eventi e incontri particolarmente densi sul piano teorico e decisivi su quello dell’esperienza. Tra i film del concorso - che quest’anno ha presentato 16 opere tra corti e lungometraggi - sono in particolare tre quelli che ci hanno colpito a fondo. Lavori in cui l’organizzazione di immagini del passato permette di accedere a bisogni, urgenze e pulsioni del mondo contemporaneo e di spingere più in là i limiti delle nostre convinzioni sul presente.
24 Cinematic Points of View of a Factory Gate in China di Ho Rui An
Cosa possiamo imparare osservando una fabbrica della Cina contemporanea? Per di più osservandola solo dall’esterno, senza affacciarci alle sale dei macchinari, alla mensa degli operai, alle riunioni dei sindacati: cosa possiamo capire sulla cultura del lavoro e del cinema da un semplice cancello, il cancello di una fabbrica? Molto, a dire il vero. Il regista Ho Rui An organizza l’inquadratura come un display di sorveglianza, focalizzandosi contemporaneamente su ventiquattro punti di vista, differenti per collocazione spaziale o temporale. Il soggetto è principalmente uno: il cancello di una fabbrica che sembra deserta, senza operai, ma che continua misteriosamente la sua produzione. Solo pochi individui che entrano ed escono ogni giorno, senza per questo giustificare l’enormità della produzione registrata. Questa osservazione statica e apparentante inutile permette a Ho Rui An di scatenare una serie di associazioni brillanti sul rapporto tra cinema e lavoro, ripercorrendo più di un secolo di storia delle immagini in movimento. Una fabbrica che apre e chiude il suo cancello: così i Lumiere hanno inaugurato il cinematografo. Ma oltre cento anni dopo, quella folla di lavoratori che avrebbe, in un certo senso, incarnato lo spirito del Novecento, sembra definitivamente scomparsa. 24 Cinematic Points of View è una perfetta congiunzione tra l’osservazione matematica di Harun Farocki e la forma di un video essay colto e insaziabile in fatto di riferimenti. Semplicemente, uno dei film d’archivio più intelligenti degli ultimi tempi.
Alpe-Adria Underground! di Jurij Meden e Matevž Jerman
La storia del cinema non è quella che abbiamo imparato a conoscere, quella dei film in grande formato, delle grandi sale, dei grandi successi. La vera storia del cinema è una storia ai margini. Il cinema familiare e casalingo, quello amatoriale e sperimentale, quello pornografico e clandestino. Come già rintracciava Enzo Ungari negli anni settanta, è proprio a partire da questi territori che nascono e si espandono le immagini che realmente segnano l’immaginario collettivo. Nel seguire una direzione di questo tipo, il documentario di Meden e Jerman permette di accedere a un corpus piuttosto impressionante di immagini (quasi) mai viste, specialmente al di fuori dei confini sloveni. Alpe-Adria Underground! racconta i protagonisti e i film di una stagione cinematografica ricchissima, colorata e squisitamente anarchica, ampliando le nozioni correnti sull’identità del cinema sloveno durante il periodo socialista (1945-1991). Meden e Jerman sono critici attenti e scrupolosi: il loro lavoro non rappresenta un semplice tributo a un cinema tristemente dimenticato, ma un punto cruciale da cui ripartire criticamente. Nonostante qualche nota di eccessivo campanilismo, il loro documentario è un viaggio bellissimo tra le filmografie di registi sperimentali, controcorrente, maledetti. Un sapiente connubio tra interviste e materiali d’archivio, ma anche tra analisi critica e divulgazione.
A Fidai Film di Kamal Aljafari
In questo lungometraggio ibrido tra documentario d’archivio e poema sperimentale, il regista palestinese Kamal Aljafari dà corpo a una memoria sottratta durante l’invasione del Libano nel 1982. I filmati, le fotografie e i testi sequestrati dall’esercito israeliano negli uffici del Palestine Reserch Center di Beirut testimoniavano la vita nei territori palestinesi nei cinquant’anni precedenti e costituivano un riferimento importante per seguire i mutamenti sociali, culturali e antropologici del paese. Perdere questi materiali ha significato perdere una parte importante della propria memoria storica. A Fidai Film è una contro-narrazione che si oppone a tale perdita, dove anziché calcolare la portata di un oblio si mette insieme quanto ancora resiste. Un film al presente, quindi, che nelle sue associazioni di immagini rivela la ciclicità dei soprusi subiti e i bisogni attuali di un popolo: “In ogni campo, quello che noi palestinesi vogliamo è la riappropriazione, della terra e delle immagini” ha dichiarato Aljafari. Il suo è un gesto politico, militante, che ci ricorda che prima dell’archivio come memoria storia, esiste l’archivio come memoria del potere.
NC-247
27.10.2024
Il nostro rapporto con le tecnologie della memoria è mutato velocemente, tanto che negli ultimi anni ognuno di noi si è trasformato in un archivista più o meno consapevole. Ma il concetto stesso di archivio è un concetto scivoloso, proprio perché molto ampio. Una volta comprese le dinamiche che lo regolano, pressoché ogni cosa può prendervi parte. Una casa, ad esempio, diventa un sistema che raccoglie e preserva un certo numero di oggetti; questi materiali si legano a loro volta alla memoria delle persone che la abitano, raccontando qualcosa di loro, della loro cultura, delle loro esperienze. In fondo, ognuno si rapporta allo spazio abitativo seguendo le due tendenze fondamentali che regolano un archivio: il distruggere (oblio) e il preservare (ricordo). Non solo però le nostre azioni sono assimilabili a quelle di un archivista, ma i nostri stessi corpi costituiscono in un certo senso degli archivi biologici, strutture che preservano una memoria genetica per trasmetterla alle generazioni future.
Seguendo questa deriva teorica, anche un festival cinematografico funziona come un archivio, e così a sua volta ogni film della sua programmazione: aprire l’archivio significa anche aprirsi a una visione archivistica delle cose e iniziare a leggere la contemporaneità nei termini di un continuo conflitto tra conservazione e cancellazione, cioè in fondo tra le pulsioni di sesso e di morte che per Freud regolano il nostro rapporto col mondo. Queste sono riflessioni che si devono appunto a un festival, Archivio Aperto, che nella sua ultima edizione ha raccolto una serie di proiezioni, eventi e incontri particolarmente densi sul piano teorico e decisivi su quello dell’esperienza. Tra i film del concorso - che quest’anno ha presentato 16 opere tra corti e lungometraggi - sono in particolare tre quelli che ci hanno colpito a fondo. Lavori in cui l’organizzazione di immagini del passato permette di accedere a bisogni, urgenze e pulsioni del mondo contemporaneo e di spingere più in là i limiti delle nostre convinzioni sul presente.
24 Cinematic Points of View of a Factory Gate in China di Ho Rui An
Cosa possiamo imparare osservando una fabbrica della Cina contemporanea? Per di più osservandola solo dall’esterno, senza affacciarci alle sale dei macchinari, alla mensa degli operai, alle riunioni dei sindacati: cosa possiamo capire sulla cultura del lavoro e del cinema da un semplice cancello, il cancello di una fabbrica? Molto, a dire il vero. Il regista Ho Rui An organizza l’inquadratura come un display di sorveglianza, focalizzandosi contemporaneamente su ventiquattro punti di vista, differenti per collocazione spaziale o temporale. Il soggetto è principalmente uno: il cancello di una fabbrica che sembra deserta, senza operai, ma che continua misteriosamente la sua produzione. Solo pochi individui che entrano ed escono ogni giorno, senza per questo giustificare l’enormità della produzione registrata. Questa osservazione statica e apparentante inutile permette a Ho Rui An di scatenare una serie di associazioni brillanti sul rapporto tra cinema e lavoro, ripercorrendo più di un secolo di storia delle immagini in movimento. Una fabbrica che apre e chiude il suo cancello: così i Lumiere hanno inaugurato il cinematografo. Ma oltre cento anni dopo, quella folla di lavoratori che avrebbe, in un certo senso, incarnato lo spirito del Novecento, sembra definitivamente scomparsa. 24 Cinematic Points of View è una perfetta congiunzione tra l’osservazione matematica di Harun Farocki e la forma di un video essay colto e insaziabile in fatto di riferimenti. Semplicemente, uno dei film d’archivio più intelligenti degli ultimi tempi.
Alpe-Adria Underground! di Jurij Meden e Matevž Jerman
La storia del cinema non è quella che abbiamo imparato a conoscere, quella dei film in grande formato, delle grandi sale, dei grandi successi. La vera storia del cinema è una storia ai margini. Il cinema familiare e casalingo, quello amatoriale e sperimentale, quello pornografico e clandestino. Come già rintracciava Enzo Ungari negli anni settanta, è proprio a partire da questi territori che nascono e si espandono le immagini che realmente segnano l’immaginario collettivo. Nel seguire una direzione di questo tipo, il documentario di Meden e Jerman permette di accedere a un corpus piuttosto impressionante di immagini (quasi) mai viste, specialmente al di fuori dei confini sloveni. Alpe-Adria Underground! racconta i protagonisti e i film di una stagione cinematografica ricchissima, colorata e squisitamente anarchica, ampliando le nozioni correnti sull’identità del cinema sloveno durante il periodo socialista (1945-1991). Meden e Jerman sono critici attenti e scrupolosi: il loro lavoro non rappresenta un semplice tributo a un cinema tristemente dimenticato, ma un punto cruciale da cui ripartire criticamente. Nonostante qualche nota di eccessivo campanilismo, il loro documentario è un viaggio bellissimo tra le filmografie di registi sperimentali, controcorrente, maledetti. Un sapiente connubio tra interviste e materiali d’archivio, ma anche tra analisi critica e divulgazione.
A Fidai Film di Kamal Aljafari
In questo lungometraggio ibrido tra documentario d’archivio e poema sperimentale, il regista palestinese Kamal Aljafari dà corpo a una memoria sottratta durante l’invasione del Libano nel 1982. I filmati, le fotografie e i testi sequestrati dall’esercito israeliano negli uffici del Palestine Reserch Center di Beirut testimoniavano la vita nei territori palestinesi nei cinquant’anni precedenti e costituivano un riferimento importante per seguire i mutamenti sociali, culturali e antropologici del paese. Perdere questi materiali ha significato perdere una parte importante della propria memoria storica. A Fidai Film è una contro-narrazione che si oppone a tale perdita, dove anziché calcolare la portata di un oblio si mette insieme quanto ancora resiste. Un film al presente, quindi, che nelle sue associazioni di immagini rivela la ciclicità dei soprusi subiti e i bisogni attuali di un popolo: “In ogni campo, quello che noi palestinesi vogliamo è la riappropriazione, della terra e delle immagini” ha dichiarato Aljafari. Il suo è un gesto politico, militante, che ci ricorda che prima dell’archivio come memoria storia, esiste l’archivio come memoria del potere.