di Omar Franini
NC-169
05.10.2023
La 71esima edizione del Festival di San Sebastián, evento che riesce sempre a riscuotere un discreto successo, si è conclusa la scorsa settimana. Nonostante la mancanza di grandi premiere internazionali - giustificata dalla vicinanza ai festival di Venezia e Toronto - San Sebastian risulta essere comunque un’ occasione per riproiettare alcuni dei film meglio recepiti dell’annata. Inoltre, nel corso degli anni, la manifestazione ha dimostrato di essere una buonissima vetrina per le opere di giovani registi emergenti e per i lungometraggi di noti autori che vengono “snobbati”, a volte ingiustamente, dai festival più rinomati. Oggi cogliamo l’occasione per raccontarvi di alcune prime visioni che abbiamo recuperato durante il festival, un mix di opere che ci hanno colpito per diverse ragioni.
Batîment 5, di Ladj Ly
Dopo aver stupito con Les Misérables (2019) - opera dirompente che si focalizzava su un gruppo di agenti anti-crimine alle prese con un sobborgo impoverito della capitale francese - c’era molta curiosità di vedere come Ladj Ly avrebbe affrontato delle tematiche simili in Bâtiment 5. Come nel suo lavoro precedente il cineasta analizza le ingiustizie sociali verso i meno privilegiati, ma questa volta lo fa spostando il focus della storia dal mondo della polizia a quello della politica. Il film narra le vicende di Habi, giovane ragazza socialmente impegnata che inizierà ad avere sempre più importanza politica, e Pierre, che, trovandosi a ricoprire l’incarico di sindaco, cercherà di seguire le orme del suo predecessore. Concentrandosi su due punti di vista completamente opposti, Ly vuole proseguire il discorso sulla gentrificazione e la lotta di classe che aveva caratterizzato la sua opera precedente con risultati nettamente inferiori. Se da una parte la sottotrama che riguarda Pierre è troppo convenzionale e si fatica a trovare una certa empatia per la sua condizione, lo stesso non vale per il personaggio di Habi, la cui continua lotta contro l’ingiustizia affascina e convince. Come in Les Misérables, Batîment 5 ha alcune lacune nella parte finale, soprattutto perché il regista si rifiuta di dare una conclusione alla storia e ai suoi personaggi. Ovviamente si potrebbe dire che nella “realtà” le problematiche trattate nel cinema di Ly non hanno una risoluzione, ma concludere, o meglio, “non concludere” per la seconda volta un film risulta piuttosto frustrante.
Great Absence, di Ken Chika-ura
La demenza senile e le devastanti conseguenze che affliggono il malato e chi gli sta attorno sono sempre state tematiche che hanno affascinato registi ed artisti in generale. L’ultimo ad aggiungersi alla lista è Kei Chika-ura che, al festival di San Sebastián, ha presentato Great Absence. Il film adopera un ritmo meditativo per presentare, con umanità e pacatezza, l’acuirsi della malattia di uno dei protagonisti. Ogni scena, infatti, dissotterra alcune verità sulla demenza in maniera onesta, evitando un approccio eccessivamente melodrammatico. Il lungometraggio si concentra su Takashi, uomo che si vede costretto a ritornare nella sua città natale dopo che scopre che il padre Yohji (uno straordinario Tatsuya Fuji, vincitore del premio al miglior attore), che non vede da più di vent’anni, è stato ricoverato in un ospedale per via del deterioramento delle sue condizioni fisiche. Quello che segue è uno struggente racconto sul rimpianto, il rimorso e soprattutto il perdono. Utilizzando una struttura narrativa non lineare - con l’inserimento di continui flashback che ricostruiscono cosa sia successo tra padre e figlio e cercare di portare a galla alcune scomode verità - Kei Chika-ura dirige un’opera unica nel suo genere, emotiva ed arguta. Great Absence è un film imperdibile che mostra il grande estro di uno dei cineasti giapponesi più promettenti del momento.
La Práctica, di Martín Rejtman
Quando si sente la parola yoga spesso la si associa a quel gruppo di discipline fisico-mentali di origine induiste mirate al benessere della persona. Lo scopo è quello di raggiungere una pace interiore che possa affievolire lo stress quotidiano, o almeno questo è quello che dovrebbe succedere. Così non è per il protagonista di La Práctica di Martín Rejtman. Gustavo è un insegnante di yoga argentino che non riesce più a trovare un equilibrio tramite questa pratica, e anzi, dopo la separazione dalla moglie Vanesa, la sua vita inizia a prendere una brutta piega rendendolo vittima di una serie di avvenimenti assurdi. Quello che segue è una serie di incontri fortuiti e amori sfuggevoli che mettono in risalto la stranezza della vita quotidiana e le numerose incomprensioni che la caratterizzano. La comicità di certe situazioni è messa in risalto dall’utilizzo della still camera, da una struttura a vignette - simbolo di quell’equilibrio tanto desiderato e mai ottenuto da Gustavo - e da un deadpan humor (umorismo all’inglese) che, non solo ci ha ricordato il cinema di Aki Kaurismäki e Jim Jarmusch, ma anche il più recente Los Delincuentes di Rodrigo Moreno. Il quinto lungometraggio di Martín Rejtman è una commedia nera esilarante e brillantemente diretta che dimostra, ancora una volta, quanto sia importante inserire nei programmi dei festival cinematografici più commedie. La Práctica è stata una visione piacevole e piena di spasso, consigliamo ampiamente la visione di questo film in un prossimo futuro.
Les rayons gamma, di Henry Bernadet
Les rayons gamma è stato una delle grandi sorprese di questo festival. Il film, ambientato in un paesino del canada, esplora la vita di alcuni adolescenti alle prese con le difficoltà legate alla ricerca del proprio posto nel mondo. Henry Bernadet dirige un’opera complessa ma dal tono leggero, nella quale porta avanti un discorso legato alle aspettative che la società, e il mondo degli adulti, ripongono nelle nuove generazioni. Il regista invita il pubblico a riflettere su importanti tematiche come la multiculturalità e l’inclusività sociale. Il riferimento simbolico ai raggi gamma è piuttosto intelligente in quanto mette in mostra quei legami invisibili che accomunano i personaggi e i percorsi di vita che stanno intraprendendo. Quello che stupisce del film è la naturalezza con cui Bernadet porta sullo schermo i personaggi e la loro connessione “invisibile”. Infatti, le interpretazioni naturali del giovane cast portano quella ventata di autenticità fondamentale per la buona riuscita dell’opera. Les rayons gamma è un film perspicace che riesce a descrivere appieno cosa significhi crescere, mostrando un profondo sguardo sulla vita.
MMXX, di Cristi Puiu
Negli ultimi anni abbiamo assistito a miserabili esperimenti cinematografici che hanno cercato di raccontare “positivamente” l’esperienza della pandemia di Covid-19. La maggior parte di questi provengono dagli Stati Uniti e hanno utilizzato una tragedia mondiale per produrre per lo più ridicole commedie. Era solo una questione di tempo prima che qualche grande autore provasse a mostrare il suo forte punto di vista sui fatti del 2020. A San Sebastián, Cristi Puiu, rinomato cineasta della new wave rumena, ha presentato la sua provocatoria, e cupa, visione della pandemia tramite il film MMXX (2020 in numeri romani). Diviso in quattro capitoli che, in un primo momento, sembrano indipendenti tra loro, Puiu esplora negativamente le conseguenze della pandemia - come l’utilizzo delle mascherine, la falsa attendibilità dei tamponi e, più in generale, le teorie complottiste che hanno caratterizzato quel frangente storico - arrivando perfino a utilizzare il termine “mankurt”, ovvero schiavo privo di volontà propria. Nonostante queste connotazioni negative, a seconda del proprio punto di vista sulla questione , Puiu mostra, con sguardo ostile e privo di umorismo, una società che non si discosta più di tanto da quella reale. Cercando di tralasciare il puntiglioso commento del cineasta, MMXX risulta comunque essere un film ben costruito e recitato. Ogni episodio si discosta stilisticamente dal precedente: se il primo e il terzo vengono girati interamente in piano sequenza, il secondo è caratterizzato da tagli più veloci e dalla camera a mano per esprimere lo stress dei personaggi. MMXX è stata una visione tanto interessante quanto controversa, un film che non lascerà impassibile lo spettatore e che di certo porterà a dei dibattiti sulla pandemia del 2020.
The New Boy, di Warwick Thornton
Ambientato nell’Australia degli anni ‘40, The New Boy racconta la storia di un bambino aborigeno di nove anni che, durante una notte, giunge in un remoto monastero e in poco tempo inizia a perturbare l’equilibrio della comunità religiosa. , Durante la sua carriera, Warwick Thornton ha sempre provato a mettere in luce le diverse problematiche che gli aborigeni hanno dovuto affrontare nel corso della storia. Nel suo nuovo film continua a portare avanti questo discorso intraprendendo una riflessione sulla spiritualità aborigena e l’indottrinamento religioso compiuto dagli occidentali. Il messaggio al centro della storia è importante e merita di essere raccontato, ma la regia di Thornton fatica a trovare il giusto equilibrio tra i diversi elementi della storia. Infatti, il regista spende troppo tempo ad approfondire i dubbi morali del personaggio di Suor Eileen e, anche se Cate Blanchett riesce a fare faville nel ruolo, ci si chiede il perché di questa scelta. Probabilmente focalizzarsi maggiormente sul punto di vista del giovane aborigeno avrebbe più che giovato alla pellicola. Thornton trae ispirazione dalla tradizione del realismo magico non riuscendo, però, a raggiungere l’impatto desiderato. Tecnicamente il film è più che valido, la fotografia dello stesso Thornton è spettacolare, soprattutto nel modo in cui utilizza le luci e gli ampi spazi naturali, e va anche citata la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, la cui solennità si adatta benissimo all’approccio spirituale della storia. The New Boy è un buon film, ma ci si aspettava nettamente di più. Nonostante l’ambizione Thornton fatica a creare una pellicola equilibrata e l’utilizzo spropositato di Cate Blanchett risulta più un demerito che una qualità aggiunta.
Un amor, di Isabel Coixet
Un amor, il nuovo film di Isabel Coixet adattato dall’omonimo romanzo di Sara Mensa, verrà proiettata anche alla Festa del cinema di Roma fra due settimane. Al centro della storia c’è Nat (Laia Costa), che si vede costretta a mollare tutto e cercare di ricominciare una nuova vita in un villaggio remoto a causa della pressione psicologica del proprio lavoro, ovvero quello di traduttrice delle dichiarazioni dei rifugiati politici che chiedono asilo in Europa. Questo nuovo inizio risulterà piuttosto difficoltoso, soprattutto per via delle differenze che intercorrono tra la donna e il resto del villaggio. Nat riuscirà a trovare un barlume di affetto solo nella figura del suo vicino di casa, detto Il Tedesco (Hovik Keuchkerian, vincitore del premio per il miglior interprete non protagonista), uomo arcigno e dall’aspetto burbero con cui inizierà una travolgente relazione carnale. L’opera di Coixet documenta il viaggio emotivo di una donna alla ricerca della propria libertà e pace interiore. É estremamente interessante vedere un character study su un personaggio così austero. Lo stato di frustrazione e prigionia che affligge la protagonista risulta poco empatizzante in un primo momento, ma man mano che la storia prosegue, e si comprendono le ragioni dietro alla disperazione, lo spettatore può iniziare a immedesimarsi più facilmente nella condizione di Nat. La rappresentazione di una relazione tanto carnale quanto tossica è proprio uno degli aspetti che aiuta a capire veramente la protagonista. La brillante interpretazione di Laia Costa è fondamentale, l’attrice è in grado di portare sullo schermo un ruolo piuttosto intricato tramite un approccio minimalista, nel quale sguardi silenziosi raccontano un acuto malessere interiore. Nonostante la parte finale sia penalizzata da un prevedibile e frustrante cambio di formato, Un amor risulta uno dei migliori film di Isabel Coixet degli ultimi anni.
Un silence, di Joachim Lafosse
Il cinema di Joachim Lafosse ha sempre affrontato controverse dinamiche familiari e mostrato come le mura domestiche possano diventare una prigione, un luogo dove non si è più al sicuro infestato da varie forme di violenza. È questa la premessa di Un silence, intenso dramma che mostra la rovina della vita dell’avvocato di successo François (Daniel Auteil) per via di alcuni scabrosi episodi avvenuti in passato. L’uomo se l’è sempre cavata grazie al silenzio della moglie Astrid (Emmanuelle Devos) e di chiunque gli stia attorno. Lafosse mostra l’angoscioso stato d’animo con cui i personaggi devono convivere ogni giorno attraverso una regia più pacata e distaccata rispetto alle sue opere precedenti. Infatti, nella prima ora, il cineasta belga costruisce un’atmosfera angosciante, riprendendo i protagonisti da una certa distanza o di spalle proprio per mettere in mostra la loro costrizione a nascondere l’orribile verità dietro a François. La gestione precisa dei tempi di narrazione funziona appieno nella prima parte, poiché lo spettatore non ha i mezzi per costruire l’intera faccenda familiare. Nonostante il film perda un po’ di ritmo e tensione nella seconda ora, Un silence merita di essere recuperato per la sua affascinante ambiguità - aspetto che ha sempre accomunato i film di Lafosse - e per il modo in cui il regista affronta la tematica dell’abuso e del costante silenzio che protegge certi uomini potenti.
di Omar Franini
NC-169
05.10.2023
La 71esima edizione del Festival di San Sebastián, evento che riesce sempre a riscuotere un discreto successo, si è conclusa la scorsa settimana. Nonostante la mancanza di grandi premiere internazionali - giustificata dalla vicinanza ai festival di Venezia e Toronto - San Sebastian risulta essere comunque un’ occasione per riproiettare alcuni dei film meglio recepiti dell’annata. Inoltre, nel corso degli anni, la manifestazione ha dimostrato di essere una buonissima vetrina per le opere di giovani registi emergenti e per i lungometraggi di noti autori che vengono “snobbati”, a volte ingiustamente, dai festival più rinomati. Oggi cogliamo l’occasione per raccontarvi di alcune prime visioni che abbiamo recuperato durante il festival, un mix di opere che ci hanno colpito per diverse ragioni.
Batîment 5, di Ladj Ly
Dopo aver stupito con Les Misérables (2019) - opera dirompente che si focalizzava su un gruppo di agenti anti-crimine alle prese con un sobborgo impoverito della capitale francese - c’era molta curiosità di vedere come Ladj Ly avrebbe affrontato delle tematiche simili in Bâtiment 5. Come nel suo lavoro precedente il cineasta analizza le ingiustizie sociali verso i meno privilegiati, ma questa volta lo fa spostando il focus della storia dal mondo della polizia a quello della politica. Il film narra le vicende di Habi, giovane ragazza socialmente impegnata che inizierà ad avere sempre più importanza politica, e Pierre, che, trovandosi a ricoprire l’incarico di sindaco, cercherà di seguire le orme del suo predecessore. Concentrandosi su due punti di vista completamente opposti, Ly vuole proseguire il discorso sulla gentrificazione e la lotta di classe che aveva caratterizzato la sua opera precedente con risultati nettamente inferiori. Se da una parte la sottotrama che riguarda Pierre è troppo convenzionale e si fatica a trovare una certa empatia per la sua condizione, lo stesso non vale per il personaggio di Habi, la cui continua lotta contro l’ingiustizia affascina e convince. Come in Les Misérables, Batîment 5 ha alcune lacune nella parte finale, soprattutto perché il regista si rifiuta di dare una conclusione alla storia e ai suoi personaggi. Ovviamente si potrebbe dire che nella “realtà” le problematiche trattate nel cinema di Ly non hanno una risoluzione, ma concludere, o meglio, “non concludere” per la seconda volta un film risulta piuttosto frustrante.
Great Absence, di Ken Chika-ura
La demenza senile e le devastanti conseguenze che affliggono il malato e chi gli sta attorno sono sempre state tematiche che hanno affascinato registi ed artisti in generale. L’ultimo ad aggiungersi alla lista è Kei Chika-ura che, al festival di San Sebastián, ha presentato Great Absence. Il film adopera un ritmo meditativo per presentare, con umanità e pacatezza, l’acuirsi della malattia di uno dei protagonisti. Ogni scena, infatti, dissotterra alcune verità sulla demenza in maniera onesta, evitando un approccio eccessivamente melodrammatico. Il lungometraggio si concentra su Takashi, uomo che si vede costretto a ritornare nella sua città natale dopo che scopre che il padre Yohji (uno straordinario Tatsuya Fuji, vincitore del premio al miglior attore), che non vede da più di vent’anni, è stato ricoverato in un ospedale per via del deterioramento delle sue condizioni fisiche. Quello che segue è uno struggente racconto sul rimpianto, il rimorso e soprattutto il perdono. Utilizzando una struttura narrativa non lineare - con l’inserimento di continui flashback che ricostruiscono cosa sia successo tra padre e figlio e cercare di portare a galla alcune scomode verità - Kei Chika-ura dirige un’opera unica nel suo genere, emotiva ed arguta. Great Absence è un film imperdibile che mostra il grande estro di uno dei cineasti giapponesi più promettenti del momento.
La Práctica, di Martín Rejtman
Quando si sente la parola yoga spesso la si associa a quel gruppo di discipline fisico-mentali di origine induiste mirate al benessere della persona. Lo scopo è quello di raggiungere una pace interiore che possa affievolire lo stress quotidiano, o almeno questo è quello che dovrebbe succedere. Così non è per il protagonista di La Práctica di Martín Rejtman. Gustavo è un insegnante di yoga argentino che non riesce più a trovare un equilibrio tramite questa pratica, e anzi, dopo la separazione dalla moglie Vanesa, la sua vita inizia a prendere una brutta piega rendendolo vittima di una serie di avvenimenti assurdi. Quello che segue è una serie di incontri fortuiti e amori sfuggevoli che mettono in risalto la stranezza della vita quotidiana e le numerose incomprensioni che la caratterizzano. La comicità di certe situazioni è messa in risalto dall’utilizzo della still camera, da una struttura a vignette - simbolo di quell’equilibrio tanto desiderato e mai ottenuto da Gustavo - e da un deadpan humor (umorismo all’inglese) che, non solo ci ha ricordato il cinema di Aki Kaurismäki e Jim Jarmusch, ma anche il più recente Los Delincuentes di Rodrigo Moreno. Il quinto lungometraggio di Martín Rejtman è una commedia nera esilarante e brillantemente diretta che dimostra, ancora una volta, quanto sia importante inserire nei programmi dei festival cinematografici più commedie. La Práctica è stata una visione piacevole e piena di spasso, consigliamo ampiamente la visione di questo film in un prossimo futuro.
Les rayons gamma, di Henry Bernadet
Les rayons gamma è stato una delle grandi sorprese di questo festival. Il film, ambientato in un paesino del canada, esplora la vita di alcuni adolescenti alle prese con le difficoltà legate alla ricerca del proprio posto nel mondo. Henry Bernadet dirige un’opera complessa ma dal tono leggero, nella quale porta avanti un discorso legato alle aspettative che la società, e il mondo degli adulti, ripongono nelle nuove generazioni. Il regista invita il pubblico a riflettere su importanti tematiche come la multiculturalità e l’inclusività sociale. Il riferimento simbolico ai raggi gamma è piuttosto intelligente in quanto mette in mostra quei legami invisibili che accomunano i personaggi e i percorsi di vita che stanno intraprendendo. Quello che stupisce del film è la naturalezza con cui Bernadet porta sullo schermo i personaggi e la loro connessione “invisibile”. Infatti, le interpretazioni naturali del giovane cast portano quella ventata di autenticità fondamentale per la buona riuscita dell’opera. Les rayons gamma è un film perspicace che riesce a descrivere appieno cosa significhi crescere, mostrando un profondo sguardo sulla vita.
MMXX, di Cristi Puiu
Negli ultimi anni abbiamo assistito a miserabili esperimenti cinematografici che hanno cercato di raccontare “positivamente” l’esperienza della pandemia di Covid-19. La maggior parte di questi provengono dagli Stati Uniti e hanno utilizzato una tragedia mondiale per produrre per lo più ridicole commedie. Era solo una questione di tempo prima che qualche grande autore provasse a mostrare il suo forte punto di vista sui fatti del 2020. A San Sebastián, Cristi Puiu, rinomato cineasta della new wave rumena, ha presentato la sua provocatoria, e cupa, visione della pandemia tramite il film MMXX (2020 in numeri romani). Diviso in quattro capitoli che, in un primo momento, sembrano indipendenti tra loro, Puiu esplora negativamente le conseguenze della pandemia - come l’utilizzo delle mascherine, la falsa attendibilità dei tamponi e, più in generale, le teorie complottiste che hanno caratterizzato quel frangente storico - arrivando perfino a utilizzare il termine “mankurt”, ovvero schiavo privo di volontà propria. Nonostante queste connotazioni negative, a seconda del proprio punto di vista sulla questione , Puiu mostra, con sguardo ostile e privo di umorismo, una società che non si discosta più di tanto da quella reale. Cercando di tralasciare il puntiglioso commento del cineasta, MMXX risulta comunque essere un film ben costruito e recitato. Ogni episodio si discosta stilisticamente dal precedente: se il primo e il terzo vengono girati interamente in piano sequenza, il secondo è caratterizzato da tagli più veloci e dalla camera a mano per esprimere lo stress dei personaggi. MMXX è stata una visione tanto interessante quanto controversa, un film che non lascerà impassibile lo spettatore e che di certo porterà a dei dibattiti sulla pandemia del 2020.
The New Boy, di Warwick Thornton
Ambientato nell’Australia degli anni ‘40, The New Boy racconta la storia di un bambino aborigeno di nove anni che, durante una notte, giunge in un remoto monastero e in poco tempo inizia a perturbare l’equilibrio della comunità religiosa. , Durante la sua carriera, Warwick Thornton ha sempre provato a mettere in luce le diverse problematiche che gli aborigeni hanno dovuto affrontare nel corso della storia. Nel suo nuovo film continua a portare avanti questo discorso intraprendendo una riflessione sulla spiritualità aborigena e l’indottrinamento religioso compiuto dagli occidentali. Il messaggio al centro della storia è importante e merita di essere raccontato, ma la regia di Thornton fatica a trovare il giusto equilibrio tra i diversi elementi della storia. Infatti, il regista spende troppo tempo ad approfondire i dubbi morali del personaggio di Suor Eileen e, anche se Cate Blanchett riesce a fare faville nel ruolo, ci si chiede il perché di questa scelta. Probabilmente focalizzarsi maggiormente sul punto di vista del giovane aborigeno avrebbe più che giovato alla pellicola. Thornton trae ispirazione dalla tradizione del realismo magico non riuscendo, però, a raggiungere l’impatto desiderato. Tecnicamente il film è più che valido, la fotografia dello stesso Thornton è spettacolare, soprattutto nel modo in cui utilizza le luci e gli ampi spazi naturali, e va anche citata la colonna sonora di Nick Cave e Warren Ellis, la cui solennità si adatta benissimo all’approccio spirituale della storia. The New Boy è un buon film, ma ci si aspettava nettamente di più. Nonostante l’ambizione Thornton fatica a creare una pellicola equilibrata e l’utilizzo spropositato di Cate Blanchett risulta più un demerito che una qualità aggiunta.
Un amor, di Isabel Coixet
Un amor, il nuovo film di Isabel Coixet adattato dall’omonimo romanzo di Sara Mensa, verrà proiettata anche alla Festa del cinema di Roma fra due settimane. Al centro della storia c’è Nat (Laia Costa), che si vede costretta a mollare tutto e cercare di ricominciare una nuova vita in un villaggio remoto a causa della pressione psicologica del proprio lavoro, ovvero quello di traduttrice delle dichiarazioni dei rifugiati politici che chiedono asilo in Europa. Questo nuovo inizio risulterà piuttosto difficoltoso, soprattutto per via delle differenze che intercorrono tra la donna e il resto del villaggio. Nat riuscirà a trovare un barlume di affetto solo nella figura del suo vicino di casa, detto Il Tedesco (Hovik Keuchkerian, vincitore del premio per il miglior interprete non protagonista), uomo arcigno e dall’aspetto burbero con cui inizierà una travolgente relazione carnale. L’opera di Coixet documenta il viaggio emotivo di una donna alla ricerca della propria libertà e pace interiore. É estremamente interessante vedere un character study su un personaggio così austero. Lo stato di frustrazione e prigionia che affligge la protagonista risulta poco empatizzante in un primo momento, ma man mano che la storia prosegue, e si comprendono le ragioni dietro alla disperazione, lo spettatore può iniziare a immedesimarsi più facilmente nella condizione di Nat. La rappresentazione di una relazione tanto carnale quanto tossica è proprio uno degli aspetti che aiuta a capire veramente la protagonista. La brillante interpretazione di Laia Costa è fondamentale, l’attrice è in grado di portare sullo schermo un ruolo piuttosto intricato tramite un approccio minimalista, nel quale sguardi silenziosi raccontano un acuto malessere interiore. Nonostante la parte finale sia penalizzata da un prevedibile e frustrante cambio di formato, Un amor risulta uno dei migliori film di Isabel Coixet degli ultimi anni.
Un silence, di Joachim Lafosse
Il cinema di Joachim Lafosse ha sempre affrontato controverse dinamiche familiari e mostrato come le mura domestiche possano diventare una prigione, un luogo dove non si è più al sicuro infestato da varie forme di violenza. È questa la premessa di Un silence, intenso dramma che mostra la rovina della vita dell’avvocato di successo François (Daniel Auteil) per via di alcuni scabrosi episodi avvenuti in passato. L’uomo se l’è sempre cavata grazie al silenzio della moglie Astrid (Emmanuelle Devos) e di chiunque gli stia attorno. Lafosse mostra l’angoscioso stato d’animo con cui i personaggi devono convivere ogni giorno attraverso una regia più pacata e distaccata rispetto alle sue opere precedenti. Infatti, nella prima ora, il cineasta belga costruisce un’atmosfera angosciante, riprendendo i protagonisti da una certa distanza o di spalle proprio per mettere in mostra la loro costrizione a nascondere l’orribile verità dietro a François. La gestione precisa dei tempi di narrazione funziona appieno nella prima parte, poiché lo spettatore non ha i mezzi per costruire l’intera faccenda familiare. Nonostante il film perda un po’ di ritmo e tensione nella seconda ora, Un silence merita di essere recuperato per la sua affascinante ambiguità - aspetto che ha sempre accomunato i film di Lafosse - e per il modo in cui il regista affronta la tematica dell’abuso e del costante silenzio che protegge certi uomini potenti.