NC-34
20.10.2020
Poco più di un mese fa l'Academy ha annunciato il nuovo regolamento per concorrere agli Oscar dal 2024 in avanti. I film dovranno soddisfare almeno alcuni di questi requisiti “inclusivi”, secondo un preciso sistema di percentuali: ad esempio, tra i personaggi e nel cast dovrà figurare almeno un gruppo etnico minoritario, o almeno il 30% dei ruoli secondari dovrà essere affidato a donne, LGBTQ+ o disabili. L’annuncio ha suscitato polemiche di ogni sorta, soprattutto da chi ritiene questi criteri una forma di ingerenza che c’entra poco con la libertà di espressione che una forma d’arte come il cinema dovrebbe avere.
Non è certo la prima volta, però, che il cinema statunitense ha a che fare con imposizioni esterne dettate dalla politica, dalla società, dalle dinamiche del proprio tempo. Alla fine degli anni ‘40, per esempio, chi lavorava a Hollywood si sarebbe presto o tardi trovato davanti a questa domanda: “Sei o sei mai stato membro del partito comunista?”, e dalla risposta sarebbero dipese le sorti della sua carriera.
Il 20 ottobre 1947, 73 anni fa, il Comitato della Camera per le attività antiamericane dava inizio alle investigazioni sull’infiltrazione comunista a Hollywood. Siamo agli inizi della guerra fredda, e più precisamente nei primi mesi del maccartismo, quel periodo a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50 in cui gli USA furono pervasi dalla “paura rossa”. La caccia alle streghe del senatore McCarthy e dell’FBI di J. Edgar Hoover investì ogni ambito della vita americana e naturalmente anche il cinema: la capacità che Hollywood aveva di influenzare le masse era nota a tutti, e un’intrusione comunista nell’industria cinematografica sarebbe stata, ai loro occhi, disastrosa. Temendo che i film potessero portare gli spettatori sulla cattiva strada, iniziarono a girare opuscoli di propaganda con una serie di elementi “da evitare” in fase di scrittura e produzione: “non macchiare il sistema di libero scambio, non macchiare gli industriali, non macchiare la ricchezza, non macchiare il profitto, non divinizzare l'uomo comune, non glorificare il collettivo”.
Nella logica maccartista questo era un timore fondato, visto che Hollywood a quei tempi era popolata di registi, attori e sceneggiatori di origine europea e dal passato “oscuro”, che il cinema statunitense aveva iniziato a importare già dagli anni ‘20 in virtù del loro eccezionale talento. È ad esempio il caso di Fritz Lang, che era fuggito dalla Germania nazista nel 1933, dopo un colloquio in cui Goebbels gli aveva comunicato che il Führer avrebbe voluto farne il volto del nuovo cinema tedesco. Aveva quindi trovato rifugio negli Stati Uniti, dove sarebbe diventato ben presto uno dei registi più richiesti del suo tempo. Lui stesso racconterà che, quando nel 1943 scrisse insieme all’amico Bertolt Brecht (anch’egli scappato dai nazisti) il film Anche i boia muoiono, splendida storia di resistenza partigiana a Praga che per molti versi anticipa Roma città aperta, l’industria hollywoodiana non la prese bene: Brecht, di cui tutti conoscevano le inclinazioni politiche, non comparirà nemmeno nei titoli di testa, pur avendo scritto gran parte della storia, e non riuscirà più a lavorare nel cinema per tutto il periodo della sua permanenza americana.
Il 25 novembre 1947, appena un mese dopo l’inizio ufficiale delle indagini, fu stilata una prima “lista nera” di dieci nomi, rei di essersi rifiutati di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Il sistema era tanto semplice quanto spietato: chiunque fosse sospettato di simpatizzare con i comunisti doveva riuscire a scagionarsi davanti alla commissione o, ancora meglio, fornire i nomi di altri sospetti. Grandi attori come Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Sterling Hayden e Katharine Hepburn furono coinvolti ma riuscirono a uscirne illesi; altri, come Walt Disney, accusarono a loro volta diversi colleghi.
Della prima lista nera di dieci persone, destinata ben presto a espandersi, si ricordano soprattutto tre nomi. Il primo è quello del regista Edward Dmytryk, di origine ucraina, uno dei grandi registi di mestiere di Hollywood, autore di classici del cinema di genere come il noir L’ombra del passato e il western Ultima notte a Warlock. Incarcerato nel 1950 per essere stato affiliato al Partito Comunista, fu rilasciato solo dopo aver fatto i nomi di diversi altri iscritti al partito.
C’è poi il celebre caso di Dalton Trumbo, scrittore e sceneggiatore di successo ma colpevole di essere stato membro del Partito tra il ‘43 e il ‘48: dopo la prigionia si rifugiò in Messico, dove continuò a lavorare sotto pseudonimo, firmando tra gli altri il classico Vacanze Romane. Parzialmente riabilitato alla fine degli anni ‘50, nel 1971 adattò per il cinema un suo libro, E Johnny prese il fucile, in uno straziante e originalissimo film sull’orrore della guerra, narrato attraverso le visioni di un soldato gravemente mutilato, ormai nient’altro che “un pezzo di carne che vive”.
Infine, certamente meno noto è il nome di Herbert Biberman, sceneggiatore di cinema e teatro, antinazista e antifranchista, da tempo sotto osservazione a causa dei suoi lavori “troppo politicizzati”. Anche lui interrogato e condannato a sei mesi di prigione, fu in seguito uno dei più colpiti dall’ostracismo delle grandi major, che di fatto gli impedirono di lavorare di nuovo a Hollywood. Fu quindi anche per un senso di rivalsa che nel 1954 girò, da indipendente, Sfida a Silver City, un film senza precedenti e coraggiosissimo per l’epoca, che venne infatti osteggiato dalla censura e boicottato in quasi tutto il paese. Sebbene il titolo italiano faccia pensare ad un western (l’originale Salt of the Earth rende molto meglio l’idea), il film racconta con inedito realismo la ribellione e lo sciopero di un gruppo di minatori messicani e delle loro mogli: non solo una delle pochissime rappresentazioni della lotta di classe nel cinema statunitense, quindi, ma anche una delle prime apologie della dignità delle donne lavoratrici e dei loro diritti.
Questi furono solo i primi di una lunga serie di artisti che, a causa del loro credo politico (o presunto tale), si videro negata la possibilità di continuare a lavorare a Hollywood. In occasione della morte di Jules Dassin, maestro del noir e altra vittima della caccia alle streghe, costretto a trasferirsi in Francia per poter girare nuovi film, il giornalista David Walsh riassunse così questo periodo buio del cinema americano: “La frenesia anti-comunista degli anni ‘50 bloccò la vita artistica e intellettuale negli USA per decenni. L’industria del cinema soffre ancora per le epurazioni dell’ala sinistra e degli spiriti critici”.
NC-34
20.10.2020
Poco più di un mese fa l'Academy ha annunciato il nuovo regolamento per concorrere agli Oscar dal 2024 in avanti. I film dovranno soddisfare almeno alcuni di questi requisiti “inclusivi”, secondo un preciso sistema di percentuali: ad esempio, tra i personaggi e nel cast dovrà figurare almeno un gruppo etnico minoritario, o almeno il 30% dei ruoli secondari dovrà essere affidato a donne, LGBTQ+ o disabili. L’annuncio ha suscitato polemiche di ogni sorta, soprattutto da chi ritiene questi criteri una forma di ingerenza che c’entra poco con la libertà di espressione che una forma d’arte come il cinema dovrebbe avere.
Non è certo la prima volta, però, che il cinema statunitense ha a che fare con imposizioni esterne dettate dalla politica, dalla società, dalle dinamiche del proprio tempo. Alla fine degli anni ‘40, per esempio, chi lavorava a Hollywood si sarebbe presto o tardi trovato davanti a questa domanda: “Sei o sei mai stato membro del partito comunista?”, e dalla risposta sarebbero dipese le sorti della sua carriera.
Il 20 ottobre 1947, 73 anni fa, il Comitato della Camera per le attività antiamericane dava inizio alle investigazioni sull’infiltrazione comunista a Hollywood. Siamo agli inizi della guerra fredda, e più precisamente nei primi mesi del maccartismo, quel periodo a cavallo tra gli anni ‘40 e ‘50 in cui gli USA furono pervasi dalla “paura rossa”. La caccia alle streghe del senatore McCarthy e dell’FBI di J. Edgar Hoover investì ogni ambito della vita americana e naturalmente anche il cinema: la capacità che Hollywood aveva di influenzare le masse era nota a tutti, e un’intrusione comunista nell’industria cinematografica sarebbe stata, ai loro occhi, disastrosa. Temendo che i film potessero portare gli spettatori sulla cattiva strada, iniziarono a girare opuscoli di propaganda con una serie di elementi “da evitare” in fase di scrittura e produzione: “non macchiare il sistema di libero scambio, non macchiare gli industriali, non macchiare la ricchezza, non macchiare il profitto, non divinizzare l'uomo comune, non glorificare il collettivo”.
Nella logica maccartista questo era un timore fondato, visto che Hollywood a quei tempi era popolata di registi, attori e sceneggiatori di origine europea e dal passato “oscuro”, che il cinema statunitense aveva iniziato a importare già dagli anni ‘20 in virtù del loro eccezionale talento. È ad esempio il caso di Fritz Lang, che era fuggito dalla Germania nazista nel 1933, dopo un colloquio in cui Goebbels gli aveva comunicato che il Führer avrebbe voluto farne il volto del nuovo cinema tedesco. Aveva quindi trovato rifugio negli Stati Uniti, dove sarebbe diventato ben presto uno dei registi più richiesti del suo tempo. Lui stesso racconterà che, quando nel 1943 scrisse insieme all’amico Bertolt Brecht (anch’egli scappato dai nazisti) il film Anche i boia muoiono, splendida storia di resistenza partigiana a Praga che per molti versi anticipa Roma città aperta, l’industria hollywoodiana non la prese bene: Brecht, di cui tutti conoscevano le inclinazioni politiche, non comparirà nemmeno nei titoli di testa, pur avendo scritto gran parte della storia, e non riuscirà più a lavorare nel cinema per tutto il periodo della sua permanenza americana.
Il 25 novembre 1947, appena un mese dopo l’inizio ufficiale delle indagini, fu stilata una prima “lista nera” di dieci nomi, rei di essersi rifiutati di testimoniare davanti alla Commissione per le attività antiamericane. Il sistema era tanto semplice quanto spietato: chiunque fosse sospettato di simpatizzare con i comunisti doveva riuscire a scagionarsi davanti alla commissione o, ancora meglio, fornire i nomi di altri sospetti. Grandi attori come Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Sterling Hayden e Katharine Hepburn furono coinvolti ma riuscirono a uscirne illesi; altri, come Walt Disney, accusarono a loro volta diversi colleghi.
Della prima lista nera di dieci persone, destinata ben presto a espandersi, si ricordano soprattutto tre nomi. Il primo è quello del regista Edward Dmytryk, di origine ucraina, uno dei grandi registi di mestiere di Hollywood, autore di classici del cinema di genere come il noir L’ombra del passato e il western Ultima notte a Warlock. Incarcerato nel 1950 per essere stato affiliato al Partito Comunista, fu rilasciato solo dopo aver fatto i nomi di diversi altri iscritti al partito.
C’è poi il celebre caso di Dalton Trumbo, scrittore e sceneggiatore di successo ma colpevole di essere stato membro del Partito tra il ‘43 e il ‘48: dopo la prigionia si rifugiò in Messico, dove continuò a lavorare sotto pseudonimo, firmando tra gli altri il classico Vacanze Romane. Parzialmente riabilitato alla fine degli anni ‘50, nel 1971 adattò per il cinema un suo libro, E Johnny prese il fucile, in uno straziante e originalissimo film sull’orrore della guerra, narrato attraverso le visioni di un soldato gravemente mutilato, ormai nient’altro che “un pezzo di carne che vive”.
Infine, certamente meno noto è il nome di Herbert Biberman, sceneggiatore di cinema e teatro, antinazista e antifranchista, da tempo sotto osservazione a causa dei suoi lavori “troppo politicizzati”. Anche lui interrogato e condannato a sei mesi di prigione, fu in seguito uno dei più colpiti dall’ostracismo delle grandi major, che di fatto gli impedirono di lavorare di nuovo a Hollywood. Fu quindi anche per un senso di rivalsa che nel 1954 girò, da indipendente, Sfida a Silver City, un film senza precedenti e coraggiosissimo per l’epoca, che venne infatti osteggiato dalla censura e boicottato in quasi tutto il paese. Sebbene il titolo italiano faccia pensare ad un western (l’originale Salt of the Earth rende molto meglio l’idea), il film racconta con inedito realismo la ribellione e lo sciopero di un gruppo di minatori messicani e delle loro mogli: non solo una delle pochissime rappresentazioni della lotta di classe nel cinema statunitense, quindi, ma anche una delle prime apologie della dignità delle donne lavoratrici e dei loro diritti.
Questi furono solo i primi di una lunga serie di artisti che, a causa del loro credo politico (o presunto tale), si videro negata la possibilità di continuare a lavorare a Hollywood. In occasione della morte di Jules Dassin, maestro del noir e altra vittima della caccia alle streghe, costretto a trasferirsi in Francia per poter girare nuovi film, il giornalista David Walsh riassunse così questo periodo buio del cinema americano: “La frenesia anti-comunista degli anni ‘50 bloccò la vita artistica e intellettuale negli USA per decenni. L’industria del cinema soffre ancora per le epurazioni dell’ala sinistra e degli spiriti critici”.