di Mario Vannoni
NC-241
05.10.2024
Dall’11 settembre è disponibile nelle sale italiane Speak No Evil (Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti) di James Watkins, remake dell’omonimo film (Gæsterne) del 2022 di Christian Tafdrup. L’operazione ha in sé un che di insolito. In primis per la brevissima distanza temporale che separa l’originale dal rifacimento e che apre – e prosegue – tutto un capitolo del dibattito critico-cinefilo legato alla scarsa circolazione di idee nel mercato odierno (soprattutto americano), che preferisce rimasticare storie, contesti e saghe di un immaginario passato eleggendo la nostalgia a filtro ideale della contemporaneità. Gli esempi, in tal senso, si sprecano: dal capostipite Stranger Things, al ritorno di Star Wars e, recentemente, di Alien, passando per la nostalgia più “laterale”, come nel caso di Wonka (2023), fino ai vari remake di Halloween, a quello di The Crow (Il corvo, 2024), ai sequel di Scream e così via.
Ci sono poi le operazioni “nostalgiche” più raffinate, capaci di costruire un discorso indipendente e di creare senso all’interno di un mondo preesistente - penso in particolare alla trilogia di Ti West (X, 2022; Pearl, 2022; MaXXXine, 2024) e a Beetlejuice Beetlejuice (2024) di Tim Burton – che usano sì la nostalgia come filtro, ma solo per richiamare un mood che funga da “tappeto” sul quale sviluppare una visione originale. Nel caso di Speak No Evil (2024) il ricorso alla nostalgia è quanto meno improbabile, proprio in virtù del breve tempo trascorso dall’uscita dell’originale. In secondo luogo la versione originale di Speak No Evil (2022) è diventata un piccolo instant-cult locale ma di certo non tale da produrre un’affezione che stimoli un suo rifacimento - per intenderci: non è Get Out (Scappa - Get Out, 2017) di Jordan Peele - tenendo anche conto del fatto che è un film di produzione olandese-danese, una cinematografia che, negli ultimi anni, ci ha regalato delle autentiche perle nascoste - Vanskabte land (Godland - Nella terra di Dio, Hlynur Pálmason, 2022), solo per citarne uno - ma che, almeno al momento, non gode di un’ampia diffusione commerciale fuori dai propri confini; e infatti la maggior parte delle persone che sono andate a vedere Speak No Evil (2024) lo hanno fatto senza aver visto l’originale, magari riscoprendolo successivamente. Lo stesso James McAvoy, protagonista del remake, ha dichiarato di aver visto il film di Tafdrup solo dopo aver concluso le riprese, per non esserne influenzato.
Il senso di questo remake, allora, sta forse nel tentativo di capitalizzare il potenziale di un film con degli ottimi spunti, dandolo in pasto al grande pubblico e portandolo al successo, un po’ come capitato con Insomnia (2002) di Christopher Nolan, che a sua volta era un remake dell'omonimo film norvegese diretto da Erik Skjoldbjærg nel 1997. Al netto degli incassi, sembra una strategia funzionante. Ma ora addentriamoci nel come.
Un’altra peculiarità - o forse a questo punto potremmo anche definirla stranezza - di questo remake sta nel come l’originale è stato adattato. Il film di Watkins è una fotocopia di quello di Tafdrup, una riproduzione 1:1 del modello, sulla scia di quanto fatto da Zack Snyder in Watchmen (2009), che ha di fatto inquadrato ciò che Moore e Gibbons avevano messo in vignetta, ma con una sostanziale differenza: Snyder portava su schermo una graphic novel e perciò il suo adattamento prevedeva il passaggio da un medium a un altro; Watkins, al contrario, ri-adatta il cinema nel cinema, opera all’interno dello stesso medium che quella storia l’ha già raccontata. E lui sceglie di raccontarla - al netto di una decisiva differenza nel finale, ma ci torneremo - esattamente come era già stata raccontata. Anzi no, non esattamente allo stesso modo. Soffermiamoci su quello che può sembrare un dato accessorio (e solitamente lo è): la durata.
Il film del 2022 dura 98 minuti, quello del 2024 110. Apparentemente, quindi, il secondo aggiunge qualcosa al primo, se non prettamente in termini di eventi, perlomeno in termini di tempo: sequenze dilatate, inquadrature più lunghe, ecc. La risposta, a dire il vero, è negativa, e paradossalmente il film di Watkins viaggia molto più rapido dell’originale, sconvolgendo gli equilibri narrativi e demolendo del tutto la tensione.
Se da un lato Speak No Evil (2024) ricalca una ad una le inquadrature e i dialoghi di Tafdrup, dall’altro altera la durata interna delle scene e sovraccarica la narrazione con espedienti di indubbia efficacia che sottolineano costantemente che qualcosa non torna, che la situazione è strana, che c’è qualcosa che non va. Non che nel film del 2022 non accadesse la medesima cosa, ma l’effetto straniante, quell’essere costantemente sul chi va là era diluito negli eventi, ottenuto per mezzo di una sapiente gestione della tensione e ricercando il perturbante, più che il disturbante.
Quello di Tafdrup era un lavoro in sottrazione, mentre Watkins aggiunge e aggiunge fino a ottenere un film che sembra sempre di fretta, in rincorsa. Less is more. Facciamo un paio di esempi. James McAvoy esegue una buona performance, catalizza l’attenzione e regge l’intera durata praticamente da solo; ciononostante la sua recitazione è in perenne overacting: sin dal primo momento in cui entra in scena è immediatamente evidente che il suo personaggio rappresenta un pericolo, è in qualche modo molesto, e ciò è messo in rilievo da una serie di gesti nervosi, eseguiti con veemenza, esagerati da una presenza fisica già debordante (vedi all’inizio quando prende in prestito la sdraio: la trascina via come fosse un serial killer che si trascina dietro un’ascia). Anche il suo alter ego nel film di Tafdrup, interpretato da Fedja van Huêt, è un individuo pericoloso, ma il suo atteggiamento pacato, lusinghiero, volto ad adescare la coppia danese con maniere gentili e quasi adulatorie solo progressivamente si ribalta in una confidenza eccessiva fino a sfociare nell’invadenza e nel sequestro di persona. McAvoy è troppo da troppo presto, persino per un personaggio sopra le righe come il suo.
Ma prendiamo anche la scena in cui il figlio della coppia ospitante - olandesi nell’originale, inglesi nel remake - svela al padre della coppia ospite che gli è stata tagliata la lingua. Tafdrup gioca con la dilatazione delle inquadrature, allungandone i tempi e sospendendole tramite l’assenza di suono, eccezion fatta per quello che emette il bambino nello sforzo di aprire più che può la bocca. Il buio, lo spaesamento, la centralità della natura circostante e aliena per l’uomo, già insicuro, creano una vera e propria sequenza horror che altera una situazione che fino a quel momento, tutto sommato, era parsa tranquilla. Watkins invece accumula inquadrature, non si fida della tenuta scenica e perciò la incalza con una musica inquietante, non sfrutta la scarsità di luce e ritrae il bambino con un esito abbastanza goffo e impacciato. È questa la differenza cruciale tra i due film: da un lato c’è un’elaborazione sottile del materiale narrativo, che viene distillato e incasellato a suggerire la paura; dall’altro c’è un affastellamento di elementi, un sovrappiù di messa in scena che incalza un ritmo già troppo frenetico allo scopo di mostrare la paura.
Tafdrup è asciutto e inquietante, Watkins è precipitoso, piatto, banale. Mettere a confronto le due opere, in questo senso, è una vera e propria lezione di regia, una dimostrazione di come, partendo dallo stesso soggetto, si possa sviluppare un discorso sull’accrescimento delle paure del quotidiano oppure una dozzinale esibizione di sociologia spicciola.
Lo svolgersi narrativo dei due film non fa che sancire la definitiva biforcazione degli stessi su territori narrativi e di genere agli antipodi. Il finale è l’unico elemento che, almeno esteriormente, stabilisce una differenza tra le opere in esame, l’una che va a imbarcarsi in un’improbabile svolta action-thriller, l’altra che prosegue coerentemente il percorso tracciato andando a scavare negli abissi dell’umano. Poniamola in termini concreti: Tafdrup fa morire i suoi protagonisti. Non solo: li trucida, sottrae loro la figlia dopo che le è stata tagliata la lingua davanti ai genitori, li fa spogliare nudi per poi lapidarli a morte.
Watkins salva i suoi protagonisti e fa morire gli antagonisti. Con meno violenza, meno spietatezza e maggior condiscendenza nei confronti dello spettatore. Non voglio generalizzare, ma: una cosa tipicamente americana, almeno nelle produzioni commerciali mainstream. Watkins ha paura di far paura. Tafdrup, invece, vuole terrorizzare. Al di là dei gusti personali e degli esiti artistici, si tratta di coerenza. Joseph Campbell, in L’eroe dai mille volti scriveva che «per poter sopravvivere, deve verificarsi nell’anima, nel corpo sociale, una “nascita continua” (palingenesi) che annulli l’incessante opera della morte». Credo che questo sia vero anche per l’arte. Forse lo strumento per rinascere non è il remake. Di sicuro non questo.
di Mario Vannoni
NC-241
05.10.2024
Dall’11 settembre è disponibile nelle sale italiane Speak No Evil (Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti) di James Watkins, remake dell’omonimo film (Gæsterne) del 2022 di Christian Tafdrup. L’operazione ha in sé un che di insolito. In primis per la brevissima distanza temporale che separa l’originale dal rifacimento e che apre – e prosegue – tutto un capitolo del dibattito critico-cinefilo legato alla scarsa circolazione di idee nel mercato odierno (soprattutto americano), che preferisce rimasticare storie, contesti e saghe di un immaginario passato eleggendo la nostalgia a filtro ideale della contemporaneità. Gli esempi, in tal senso, si sprecano: dal capostipite Stranger Things, al ritorno di Star Wars e, recentemente, di Alien, passando per la nostalgia più “laterale”, come nel caso di Wonka (2023), fino ai vari remake di Halloween, a quello di The Crow (Il corvo, 2024), ai sequel di Scream e così via.
Ci sono poi le operazioni “nostalgiche” più raffinate, capaci di costruire un discorso indipendente e di creare senso all’interno di un mondo preesistente - penso in particolare alla trilogia di Ti West (X, 2022; Pearl, 2022; MaXXXine, 2024) e a Beetlejuice Beetlejuice (2024) di Tim Burton – che usano sì la nostalgia come filtro, ma solo per richiamare un mood che funga da “tappeto” sul quale sviluppare una visione originale. Nel caso di Speak No Evil (2024) il ricorso alla nostalgia è quanto meno improbabile, proprio in virtù del breve tempo trascorso dall’uscita dell’originale. In secondo luogo la versione originale di Speak No Evil (2022) è diventata un piccolo instant-cult locale ma di certo non tale da produrre un’affezione che stimoli un suo rifacimento - per intenderci: non è Get Out (Scappa - Get Out, 2017) di Jordan Peele - tenendo anche conto del fatto che è un film di produzione olandese-danese, una cinematografia che, negli ultimi anni, ci ha regalato delle autentiche perle nascoste - Vanskabte land (Godland - Nella terra di Dio, Hlynur Pálmason, 2022), solo per citarne uno - ma che, almeno al momento, non gode di un’ampia diffusione commerciale fuori dai propri confini; e infatti la maggior parte delle persone che sono andate a vedere Speak No Evil (2024) lo hanno fatto senza aver visto l’originale, magari riscoprendolo successivamente. Lo stesso James McAvoy, protagonista del remake, ha dichiarato di aver visto il film di Tafdrup solo dopo aver concluso le riprese, per non esserne influenzato.
Il senso di questo remake, allora, sta forse nel tentativo di capitalizzare il potenziale di un film con degli ottimi spunti, dandolo in pasto al grande pubblico e portandolo al successo, un po’ come capitato con Insomnia (2002) di Christopher Nolan, che a sua volta era un remake dell'omonimo film norvegese diretto da Erik Skjoldbjærg nel 1997. Al netto degli incassi, sembra una strategia funzionante. Ma ora addentriamoci nel come.
Un’altra peculiarità - o forse a questo punto potremmo anche definirla stranezza - di questo remake sta nel come l’originale è stato adattato. Il film di Watkins è una fotocopia di quello di Tafdrup, una riproduzione 1:1 del modello, sulla scia di quanto fatto da Zack Snyder in Watchmen (2009), che ha di fatto inquadrato ciò che Moore e Gibbons avevano messo in vignetta, ma con una sostanziale differenza: Snyder portava su schermo una graphic novel e perciò il suo adattamento prevedeva il passaggio da un medium a un altro; Watkins, al contrario, ri-adatta il cinema nel cinema, opera all’interno dello stesso medium che quella storia l’ha già raccontata. E lui sceglie di raccontarla - al netto di una decisiva differenza nel finale, ma ci torneremo - esattamente come era già stata raccontata. Anzi no, non esattamente allo stesso modo. Soffermiamoci su quello che può sembrare un dato accessorio (e solitamente lo è): la durata.
Il film del 2022 dura 98 minuti, quello del 2024 110. Apparentemente, quindi, il secondo aggiunge qualcosa al primo, se non prettamente in termini di eventi, perlomeno in termini di tempo: sequenze dilatate, inquadrature più lunghe, ecc. La risposta, a dire il vero, è negativa, e paradossalmente il film di Watkins viaggia molto più rapido dell’originale, sconvolgendo gli equilibri narrativi e demolendo del tutto la tensione.
Se da un lato Speak No Evil (2024) ricalca una ad una le inquadrature e i dialoghi di Tafdrup, dall’altro altera la durata interna delle scene e sovraccarica la narrazione con espedienti di indubbia efficacia che sottolineano costantemente che qualcosa non torna, che la situazione è strana, che c’è qualcosa che non va. Non che nel film del 2022 non accadesse la medesima cosa, ma l’effetto straniante, quell’essere costantemente sul chi va là era diluito negli eventi, ottenuto per mezzo di una sapiente gestione della tensione e ricercando il perturbante, più che il disturbante.
Quello di Tafdrup era un lavoro in sottrazione, mentre Watkins aggiunge e aggiunge fino a ottenere un film che sembra sempre di fretta, in rincorsa. Less is more. Facciamo un paio di esempi. James McAvoy esegue una buona performance, catalizza l’attenzione e regge l’intera durata praticamente da solo; ciononostante la sua recitazione è in perenne overacting: sin dal primo momento in cui entra in scena è immediatamente evidente che il suo personaggio rappresenta un pericolo, è in qualche modo molesto, e ciò è messo in rilievo da una serie di gesti nervosi, eseguiti con veemenza, esagerati da una presenza fisica già debordante (vedi all’inizio quando prende in prestito la sdraio: la trascina via come fosse un serial killer che si trascina dietro un’ascia). Anche il suo alter ego nel film di Tafdrup, interpretato da Fedja van Huêt, è un individuo pericoloso, ma il suo atteggiamento pacato, lusinghiero, volto ad adescare la coppia danese con maniere gentili e quasi adulatorie solo progressivamente si ribalta in una confidenza eccessiva fino a sfociare nell’invadenza e nel sequestro di persona. McAvoy è troppo da troppo presto, persino per un personaggio sopra le righe come il suo.
Ma prendiamo anche la scena in cui il figlio della coppia ospitante - olandesi nell’originale, inglesi nel remake - svela al padre della coppia ospite che gli è stata tagliata la lingua. Tafdrup gioca con la dilatazione delle inquadrature, allungandone i tempi e sospendendole tramite l’assenza di suono, eccezion fatta per quello che emette il bambino nello sforzo di aprire più che può la bocca. Il buio, lo spaesamento, la centralità della natura circostante e aliena per l’uomo, già insicuro, creano una vera e propria sequenza horror che altera una situazione che fino a quel momento, tutto sommato, era parsa tranquilla. Watkins invece accumula inquadrature, non si fida della tenuta scenica e perciò la incalza con una musica inquietante, non sfrutta la scarsità di luce e ritrae il bambino con un esito abbastanza goffo e impacciato. È questa la differenza cruciale tra i due film: da un lato c’è un’elaborazione sottile del materiale narrativo, che viene distillato e incasellato a suggerire la paura; dall’altro c’è un affastellamento di elementi, un sovrappiù di messa in scena che incalza un ritmo già troppo frenetico allo scopo di mostrare la paura.
Tafdrup è asciutto e inquietante, Watkins è precipitoso, piatto, banale. Mettere a confronto le due opere, in questo senso, è una vera e propria lezione di regia, una dimostrazione di come, partendo dallo stesso soggetto, si possa sviluppare un discorso sull’accrescimento delle paure del quotidiano oppure una dozzinale esibizione di sociologia spicciola.
Lo svolgersi narrativo dei due film non fa che sancire la definitiva biforcazione degli stessi su territori narrativi e di genere agli antipodi. Il finale è l’unico elemento che, almeno esteriormente, stabilisce una differenza tra le opere in esame, l’una che va a imbarcarsi in un’improbabile svolta action-thriller, l’altra che prosegue coerentemente il percorso tracciato andando a scavare negli abissi dell’umano. Poniamola in termini concreti: Tafdrup fa morire i suoi protagonisti. Non solo: li trucida, sottrae loro la figlia dopo che le è stata tagliata la lingua davanti ai genitori, li fa spogliare nudi per poi lapidarli a morte.
Watkins salva i suoi protagonisti e fa morire gli antagonisti. Con meno violenza, meno spietatezza e maggior condiscendenza nei confronti dello spettatore. Non voglio generalizzare, ma: una cosa tipicamente americana, almeno nelle produzioni commerciali mainstream. Watkins ha paura di far paura. Tafdrup, invece, vuole terrorizzare. Al di là dei gusti personali e degli esiti artistici, si tratta di coerenza. Joseph Campbell, in L’eroe dai mille volti scriveva che «per poter sopravvivere, deve verificarsi nell’anima, nel corpo sociale, una “nascita continua” (palingenesi) che annulli l’incessante opera della morte». Credo che questo sia vero anche per l’arte. Forse lo strumento per rinascere non è il remake. Di sicuro non questo.