A cura di Omar Franini
INT-32
04.05.2023
Uno dei film che ci ha entusiasmato e colpito di più allo scorso Festival di Berlino è stato 20,000 especies de abejas, opera prima di Estibaliz Urresola Solaguren, una delle voci più interessanti del panorama cinematografico spagnolo. Dopo aver trovato successo con vari cortometraggi, tra cui Cuerdas (2022) e Polvo Somos (2020), la regista di origini basche ha deciso di concentrarsi sulla realizzazione del suo primo lungometraggio, un progetto molto delicato, la cui lavorazione è cominciata nel 2018. 20,000 especies de abejas è un toccante ritratto sull’identità di genere raccontato attraverso la storia di una bambina di otto anni. Passando l’estate nella casa di campagna della zia, la piccola Lucia cercherà di capire la propria identità con l’aiuto delle donne della famiglia. L’opera non rappresenta soltanto un interessante sguardo su una bambina transgender, Estibaliz Urresola parte da questo concetto per rappresentare le diverse dinamiche di accettazione all’interno della famiglia, seguendo anche il punto di vista della madre di Lucia, l’unica persona che supporta la bambina sin dall’inizio. Sfruttando il paesaggio naturalistico basco e una reinterpretazione del concetto di matriarcato, la regista gestisce con mano delicata un’importante tematica, evitando sapientemente di cadere in un eccesso di melodramma.
Dopo aver conquistato pubblico e critica alla Berlinale - dove la piccola Sofia Otero si è aggiudicata l’ambito premio alla miglior interpretazione da protagonista - 20,000 especies de abejas arriverà nelle nostre sale il 14 Dicembre da Arthouse - la label di I Wonder Pictures dedicata al cinema d'autore più innovativo - in collaborazione con Unipol Biografilm Collection. Prima della sua uscita nei cinema il film verrà ripresentato durante la 16esima edizione del Festival del cine español y latinoamericano, che si svolgerà a Roma dal 5 al 12 novembre.
Abbiamo avuto l’immenso piacere di incontrare la regista, con la quale abbiamo conversato delle tematiche principali della pellicola, il casting di Sofia Otero e molto altro.
Per cominciare, vorrei chiederti quale fosse stato il punto di partenza di 20.000 especies de abejas e come mai hai deciso di parlare di una tematica così delicata.
Sono sempre stata interessata alla tematica dell’identità e come il corpo, o meglio, la conoscenza del proprio corpo giochi un ruolo nella costruzione del nostro io. Volevo esplorare anche quest’ultimo aspetto all’interno di un nucleo familiare o amichevole, come avevo fatto nei miei ultimi cortometraggi. L’idea principale di questo topic è arrivata quando ho letto la tragica notizia di un’adolescente che si è suicidata, nel 2018, nella regione basca. Aveva solo quattordici anni e non penso che all’epoca ci fosse un dibattito o una consapevolezza nella nostra società sull’identità transgender negli adolescenti. Questo tragico evento ha avuto un forte impatto nella società basca e anche su di me. Ho cercato di intervistare famiglie con componenti transgender nella regione basca, e ho iniziato a realizzare che ci sono sempre più ragazzi, davvero giovani, che non si identificano con il proprio genere di nascita. Continuavo sempre a farmi le stesse domande, ma ogni volta con una concezione diversa, come ad esempio “quanta importanza ha l’identità, come personalità, all’interno della percezione di noi stessi?” oppure “quanta importanza ha la percezione altrui, come quella della società, nei nostri confronti? Come possiamo reagire?”. Analizzando il personaggio della madre nel film, mi ha permesso di analizzare queste tematiche in una maniera ancora più complessa.
La nostra identità è spesso condizionata dalla visione altrui, ma tu hai deciso di mostrare soltanto la percezione all’interno del nucleo familiare. Ho notato inoltre che è un nucleo per lo più femminile, che forma, in qualche modo, una sorta di “società”. Come mai questa scelta?
Esatto, questo nucleo familiare è uno spaccato della società. È una famiglia numerosa, come vediamo, e Lucia/Coco sta cercando il suo posto all’interno di questa “società”. Inoltre, scegliendo come protagonista un personaggio femminile transgender, ho potuto analizzare il concetto stesso di “femminilità” e come questo cambi attraverso diverse generazioni.
E avevi bisogno di identificarti con queste donne per raccontare questa storia?
Si, attraverso il film, volevo mostrare diversi lati di cosa significa essere donna. Volevo trovare una connessione tra tutti i personaggi femminili del film e l’ho trovata nella “vergogna”. Martha C.Nusbaum, una filosofa statunitense, disse che la vergogna, per esempio, era un meccanismo per avere il controllo della donna nel patriarcato, così queste non posso andare oltre i propri limiti, esplorare la propria sessualità e i propri desideri. Quindi, se c’è qualcosa che le donne nel film hanno in comune, è questa sensazione di vergogna che è stata ereditata di generazione in generazione. Questo aspetto è messo in risalto anche nel workshop di Ane e tutte le opere che le ha lasciato il padre. Rappresentano corpi maschili e femminili, ma mostrati in una maniera tradizionale e binaria. E queste sculture rappresentano la “vergogna” e il pudore di questa famiglia, ma Coco, con l’aiuto del fratello “rompe” questa tradizione (la regista ride, n.d.r.).
Volevo chiederti del casting del personaggio di Lucia/Coco. Hai visto molti bambini prima di scegliere Sofia Otero? È così raro trovare una grande interpretazione come la sua e volevo anche sapere quale fosse stato il tuo approccio di regia con lei.
È stata una benedizione aver trovato la piccola Sofia. È vero, qualcosa di speciale è successo. È simpatico che i nomi Sofia e Lucia siano simili, comunque, lei si era presentata alla prima sessione di casting e ha mostrato una tale esuberanza, luminosità che non rispecchiava il carattere riflessivo e introverso che mostra il personaggio di Lucia. E quindi, le assegnai sin da subito il ruolo di una delle bambine presenti nella scena della piscina. Ho continuato il processo di casting, ho visto quasi cinquecento bambine, ma non riuscivo a trovare qualcuno che soddisfacesse i requisiti del personaggio, soprattutto qualcuno in grado di affrontare i cambi di mood che il personaggio doveva affrontare. Avevo poco tempo, dovevo ripensare a quello che avevo visto, e ho notato che Sofia si era presentata, non solo al primo casting, ma anche al secondo, al terzo e al quarto. In lei, ho visto questo desiderio di essere una parte sostanziale del film. Abbiamo passato del tempo assieme, riuscivo a comunicare con lei facilmente e ho visto la sua voglia di mettersi in gioco e capire l’intento del film in modo profondo ed emotivo. Sofia era presente sin dall’inizio, ma “non riuscivo a vederla” e questo capita anche al personaggio della madre nel film. Le avevo assegnato un ruolo che non mi aveva permesso di vedere realmente quello che Sofia poteva offrirmi.
E avete parlato molto in modo che lei potesse capire questo ruolo?
Prima delle riprese, ho passato tre mesi a cercare di creare questo “universo famigliare” con tutti i personaggi. Facevo improvvisare agli attori delle scene o delle situazioni, che non erano esattamente nella sceneggiatura, ma che richiamavano quelle sensazioni di conflitto che cercavo. Con Sofia ho passato molto tempo insieme, non volevo darle in mano la sceneggiatura, volevo parlarle e farle capire tutte le varie sfaccettature del personaggio. Per esempio, le ho spiegato il rapporto con la madre e come si sarebbe evoluto, e lei nel frattempo disegnava queste “situazioni” che le raccontavo. E lo stesso con il personaggio della nonna. In poche parole, lei si era creata la propria sceneggiatura attraverso questi disegni. Inoltre, nella sua scuola, aveva già conosciuto bambini come Coco/Lucia e questo ha aiutato molto .
Ed era importante avere dei bambini consapevoli di questa realtà?
Si certamente, ha reso tutto più facile. Infatti, ho cercato dei bambini che fossero a conoscenza di questa realtà, così sarebbero stati in grado di formare quella connessione con i propri personaggi. E in qualche modo, è stato più facile lavorare con loro rispetto agli adulti, più che altro perché questi mi chiedevano sempre dell’aspetto drammatico e traumatico dietro alla storia.
Come mai “20.000 especies de abejas”? C’è qualche significato dietro a questo titolo?
Beh, ho cercato su google quante specie di api esistessero, e la risposta era… ventimila (la regista ride, n.d.r.). Mi piaceva quel numero tondo. Ma non ero interessata al numero specifico, volevo mostrare come le api garantiscono una certa biodiversità nella natura. E il film tratta proprio di questo, la “diversità”, intesa come il modo in cui ci sentiamo con noi stessi e con chi ci sta attorno. L’alveare ha avuto una particolare rilevanza per me, perché mostra l’importanza dell’individuo nella collettività. Ogni ape ha il proprio compito, il proprio “posto” e importanza all’interno dell'alveare, e tutte insieme fanno funzionare questo sistema. E ciò richiama la struttura di una famiglia. Inoltre, nella cultura basca, le api sono considerate degli animali sacri. Ma non solo, prendi ad esempio la recente scomparsa della Regina Elisabetta II, l’apicoltore della famiglia reale, appena saputa la morte, ha bussato sulle case dove erano presenti le api, “avvertendole” della notizia. È una tradizione presente anche nella cultura antica basca. Quando c’è un evento importante, la famiglia lo “comunica” alle api. Volevo giocare con questo aspetto, questo rapporto tra uomo/ape, all’interno del film. All’inizio Coco/Lucia è terrorizzata dalle api, ma pian piano, grazie anche all’aiuto della nonna, riesce a costruire un rapporto speciale, e alla fine comunica a queste il grande “annuncio”.
In passato non ci sono stati molti film che approfondissero questa importante tematica. Sembra che al giorno d’oggi ci sia un’apertura mentale più ampia verso questo tipo di storie. Cosa ne pensi di questo?
Credo che il movimento transessuale stia facendo progressi e mettendo in dubbio le basi, le fondamenta, di quello che è il sistema patriarcale nella società moderna. È un movimento, ma anche una rivoluzione, e sta diventando sempre più forte. Cambiare o mettere in discussione le “basi” di questo sistema significa che nuove domande sorgeranno. Ho iniziato a scrivere il film nel 2018 e non era un argomento tanto discusso, mentre qualche giorno prima della premiere a Berlino è stata approvata la “legge trans” (legge approvata il 16 febbraio 2023 che consente il libero cambio di genere a partire dai sedici anni, n.d.r.). È come se fosse stato un processo parallelo; da una parte hai lo sviluppo del progetto cinematografico e dall’altra l’evoluzione e lo sviluppo di un dialogo sociale, di un dibattito su questa tematica. E il tutto è culminato allo stesso punto. Credo che la società ora sia più consapevole di questa “nuova realtà”.
Per raccontare questa storia hai utilizzato un approccio intimo, poetico, senza mai scadere nel melodrammatico. Sei riuscita a trovare un equilibrio da un punto di vista emotivo che mi ha colpito molto e volevo chiederti quale fosse stata la più grande sfida/difficoltà nel raggiungere questo.
Credo che tutto sia nato con la decisione di fare un film corale, dove ogni personaggio ha una propria evoluzione. Non volevo fare un film solamente su un personaggio transgender e sono riuscita a trovare un certo equilibrio nel film aggiungendo, ed esplorando, i conflitti tra gli altri personaggi. Quando parlavo con le famiglie in preparazione del film, c’è stata una cosa che mi ha colpito, l’esperienza di “transizione” non riguardava i ragazzi, ma loro, e il modo in cui dovevano abituarsi a “vedere” questo cambiamento. I ragazzi in questione sono sempre stati così, sono i genitori che devono cambiare e riflettere sulla propria esperienza personale, il proprio genere e la propria eredità. Ero interessata in questo, volevo mostrare come l’esperienza della transessualità dei ragazzi possa far riflettere i componenti di una famiglia sulla propria vita e sulla possibilità di vivere un’esistenza più “autentica”.
Quindi, non definiresti il film solo su una bambina transgender.
No. L’aspetto della transessualità della protagonista mi ha permesso di fare un discorso più ampio sull’identità di genere.
Parlando invece di come la famiglia vede la transizione di Lucia/Coco nel film, sei riuscita a creare un interessante contrasto su come le donna della famiglia vivono questa situazione.
Esatto, per esempio, ho trovato interessante analizzare il punto di vista della nonna, la persona che sembra meno propensa a questo cambiamento, soprattutto per la sua fede religiosa. Ma allo stesso tempo, questo background religioso, aiuta Lucia a trovare la propria identità. La nonna le spiega cos'è la fede e che il “credere in qualcosa” è un sentimento autentico ed inspiegabile, è qualcosa all’interno di noi stessi che sappiamo essere vero. Ha un’influenza positiva sulla bambina e questa inizia a credere in se stessa. I bambini hanno un'apertura mentale più ampia e non vivono in un mondo ristretto o limitato. Lucia ama la nonna e vede che questo ambiente religioso e di fede, in qualche modo, non impone dei limiti nella sua vita. Lei può credere in ciò che prova e sa dentro di sé che è qualcosa di vero. Anche il nome Lucia, viene dalla Chiesa ed è come se questa gli avesse dato uno strumento per capire la propria identità. C’è questa interazione dove la bambina chiede alla nonna se c’è qualcosa che non va bene in lei e come mai si sente così, e questa le risponde «Dios nos ha hecho perfecto. Somos perfectos.» (Dio ci ha fatti perfetti. Noi siamo perfetti, n.d.r.). E questo è un momento chiave nella vita della piccola Lucia. Però quando la verità viene a galla e la nonna capisce che la nipote non è un ragazzo ma una ragazza, questa ha comunque difficoltà nell’accettare questo. Ci vorrà del tempo, forse qualche anno, per capire e abituarsi, ma nonostante ciò, la nonna le da comunque un senso di tranquillità e positività. Volevo creare dei personaggi complessi, perché anche in un personaggio “contrariato” come quello della nonna, possono esserci degli aspetti positivi. Anche il personaggio della madre, lei sta cercando di essere un modello “moderno” per la figlia. Le sta dando spazio e libertà di esplorare la propria identità. Ma allo tempo, lei non riesce a vedere cosa stia succedendo alla figlia.
C’è qualche regista che ti ha ispirato nel corso della tua carriera?
Sono molto affascinata dal “poor cinema” che caratterizza i film latino americani. Si riesce a trovare una certa “verità” in questo e i personaggi diventano il punto focale della storia. Lucrecia Martel è stata una grande ispirazione per me, i suoi film si concentrano su rapporti all’interno di nuclei famigliari. Anche il cinema di Alice Rohrwacher è stata una fonte d’ispirazione, soprattutto nel modo in cui combina naturalismo e fantasia. Ogni cosa è possibile nei suoi film. Inoltre, lei spesso lavora con attori non professionisti, un aspetto a cui sono molto interessata.
È un periodo piuttosto prolifico per le registe donne in Spagna. C’è questa nuova generazione di cineaste che sta avendo successo a livello internazionale. Come spieghi questo recente successo?
In Spagna è successo qualcosa, ma non è stato un processo immediato. Ci sono stati dei cambiamenti nel modo in cui i film vengono finanziati e c’è una volontà di aiutare registe donne. E credo sia giusto darci più aiuto economicamente perché per anni l’industria è stata dominata da uomini. E anche se è un bel momento, stiamo comunque parlando di percentuali basse di donne che riescono a fare film in modo costante o regolare. C’era un grande discrepanza tra la quantità di film diretti da donne rispetto a quelli degli uomini e ciò non aveva nulla a che fare con il talento o la bravura. Inoltre, le scuola di cinema assicurano che le registe donna abbiano un futuro e un aiuto nei loro progetti. La fiducia nelle cineaste sta crescendo, ma ci sono degli ulteriori però. L’età con cui le donne fanno il primo lungometraggio è maggiore rispetto alla controparte maschile. E poi, bisogna vedere quante di queste riescono ad avere una carriera costante e dirigere un terzo o un quarto film. C’è anche una questione di stile, ovviamente, e bisogna supportare una cineasta quando dirige un film che si discosta dalle tematiche “intime” e delicate. Una donna deve essere libera di dirigere anche film horror o di fantascienza.
Prima ho utilizzato quegli aggettivi per fare un complimento al film.
Si l’avevo capito (la regista sorride, n.d.r.), però spesso certe parole vengono utilizzate per etichettare il cinema al femminile. Noi donne dobbiamo sempre fare film intimi, sensibili e… con un basso budget (la regista ride, n.d.r.)! Ma in questo periodo, bisogna pur sempre festeggiare alcune “vittorie”: sempre più donne sono presenti nei circuiti festivalieri o sono alle redini di grandi produzioni e blockbuster. Le donne ci sono e sono in grado di dirigere ogni cosa. Dovrebbe essere una cosa normale e non un’attrazione speciale.
A cura di Omar Franini
INT-32
04.05.2023
Uno dei film che ci ha entusiasmato e colpito di più allo scorso Festival di Berlino è stato 20,000 especies de abejas, opera prima di Estibaliz Urresola Solaguren, una delle voci più interessanti del panorama cinematografico spagnolo. Dopo aver trovato successo con vari cortometraggi, tra cui Cuerdas (2022) e Polvo Somos (2020), la regista di origini basche ha deciso di concentrarsi sulla realizzazione del suo primo lungometraggio, un progetto molto delicato, la cui lavorazione è cominciata nel 2018. 20,000 especies de abejas è un toccante ritratto sull’identità di genere raccontato attraverso la storia di una bambina di otto anni. Passando l’estate nella casa di campagna della zia, la piccola Lucia cercherà di capire la propria identità con l’aiuto delle donne della famiglia. L’opera non rappresenta soltanto un interessante sguardo su una bambina transgender, Estibaliz Urresola parte da questo concetto per rappresentare le diverse dinamiche di accettazione all’interno della famiglia, seguendo anche il punto di vista della madre di Lucia, l’unica persona che supporta la bambina sin dall’inizio. Sfruttando il paesaggio naturalistico basco e una reinterpretazione del concetto di matriarcato, la regista gestisce con mano delicata un’importante tematica, evitando sapientemente di cadere in un eccesso di melodramma.
Dopo aver conquistato pubblico e critica alla Berlinale - dove la piccola Sofia Otero si è aggiudicata l’ambito premio alla miglior interpretazione da protagonista - 20,000 especies de abejas arriverà nelle nostre sale il 14 Dicembre da Arthouse - la label di I Wonder Pictures dedicata al cinema d'autore più innovativo - in collaborazione con Unipol Biografilm Collection. Prima della sua uscita nei cinema il film verrà ripresentato durante la 16esima edizione del Festival del cine español y latinoamericano, che si svolgerà a Roma dal 5 al 12 novembre.
Abbiamo avuto l’immenso piacere di incontrare la regista, con la quale abbiamo conversato delle tematiche principali della pellicola, il casting di Sofia Otero e molto altro.
Per cominciare, vorrei chiederti quale fosse stato il punto di partenza di 20.000 especies de abejas e come mai hai deciso di parlare di una tematica così delicata.
Sono sempre stata interessata alla tematica dell’identità e come il corpo, o meglio, la conoscenza del proprio corpo giochi un ruolo nella costruzione del nostro io. Volevo esplorare anche quest’ultimo aspetto all’interno di un nucleo familiare o amichevole, come avevo fatto nei miei ultimi cortometraggi. L’idea principale di questo topic è arrivata quando ho letto la tragica notizia di un’adolescente che si è suicidata, nel 2018, nella regione basca. Aveva solo quattordici anni e non penso che all’epoca ci fosse un dibattito o una consapevolezza nella nostra società sull’identità transgender negli adolescenti. Questo tragico evento ha avuto un forte impatto nella società basca e anche su di me. Ho cercato di intervistare famiglie con componenti transgender nella regione basca, e ho iniziato a realizzare che ci sono sempre più ragazzi, davvero giovani, che non si identificano con il proprio genere di nascita. Continuavo sempre a farmi le stesse domande, ma ogni volta con una concezione diversa, come ad esempio “quanta importanza ha l’identità, come personalità, all’interno della percezione di noi stessi?” oppure “quanta importanza ha la percezione altrui, come quella della società, nei nostri confronti? Come possiamo reagire?”. Analizzando il personaggio della madre nel film, mi ha permesso di analizzare queste tematiche in una maniera ancora più complessa.
La nostra identità è spesso condizionata dalla visione altrui, ma tu hai deciso di mostrare soltanto la percezione all’interno del nucleo familiare. Ho notato inoltre che è un nucleo per lo più femminile, che forma, in qualche modo, una sorta di “società”. Come mai questa scelta?
Esatto, questo nucleo familiare è uno spaccato della società. È una famiglia numerosa, come vediamo, e Lucia/Coco sta cercando il suo posto all’interno di questa “società”. Inoltre, scegliendo come protagonista un personaggio femminile transgender, ho potuto analizzare il concetto stesso di “femminilità” e come questo cambi attraverso diverse generazioni.
E avevi bisogno di identificarti con queste donne per raccontare questa storia?
Si, attraverso il film, volevo mostrare diversi lati di cosa significa essere donna. Volevo trovare una connessione tra tutti i personaggi femminili del film e l’ho trovata nella “vergogna”. Martha C.Nusbaum, una filosofa statunitense, disse che la vergogna, per esempio, era un meccanismo per avere il controllo della donna nel patriarcato, così queste non posso andare oltre i propri limiti, esplorare la propria sessualità e i propri desideri. Quindi, se c’è qualcosa che le donne nel film hanno in comune, è questa sensazione di vergogna che è stata ereditata di generazione in generazione. Questo aspetto è messo in risalto anche nel workshop di Ane e tutte le opere che le ha lasciato il padre. Rappresentano corpi maschili e femminili, ma mostrati in una maniera tradizionale e binaria. E queste sculture rappresentano la “vergogna” e il pudore di questa famiglia, ma Coco, con l’aiuto del fratello “rompe” questa tradizione (la regista ride, n.d.r.).
Volevo chiederti del casting del personaggio di Lucia/Coco. Hai visto molti bambini prima di scegliere Sofia Otero? È così raro trovare una grande interpretazione come la sua e volevo anche sapere quale fosse stato il tuo approccio di regia con lei.
È stata una benedizione aver trovato la piccola Sofia. È vero, qualcosa di speciale è successo. È simpatico che i nomi Sofia e Lucia siano simili, comunque, lei si era presentata alla prima sessione di casting e ha mostrato una tale esuberanza, luminosità che non rispecchiava il carattere riflessivo e introverso che mostra il personaggio di Lucia. E quindi, le assegnai sin da subito il ruolo di una delle bambine presenti nella scena della piscina. Ho continuato il processo di casting, ho visto quasi cinquecento bambine, ma non riuscivo a trovare qualcuno che soddisfacesse i requisiti del personaggio, soprattutto qualcuno in grado di affrontare i cambi di mood che il personaggio doveva affrontare. Avevo poco tempo, dovevo ripensare a quello che avevo visto, e ho notato che Sofia si era presentata, non solo al primo casting, ma anche al secondo, al terzo e al quarto. In lei, ho visto questo desiderio di essere una parte sostanziale del film. Abbiamo passato del tempo assieme, riuscivo a comunicare con lei facilmente e ho visto la sua voglia di mettersi in gioco e capire l’intento del film in modo profondo ed emotivo. Sofia era presente sin dall’inizio, ma “non riuscivo a vederla” e questo capita anche al personaggio della madre nel film. Le avevo assegnato un ruolo che non mi aveva permesso di vedere realmente quello che Sofia poteva offrirmi.
E avete parlato molto in modo che lei potesse capire questo ruolo?
Prima delle riprese, ho passato tre mesi a cercare di creare questo “universo famigliare” con tutti i personaggi. Facevo improvvisare agli attori delle scene o delle situazioni, che non erano esattamente nella sceneggiatura, ma che richiamavano quelle sensazioni di conflitto che cercavo. Con Sofia ho passato molto tempo insieme, non volevo darle in mano la sceneggiatura, volevo parlarle e farle capire tutte le varie sfaccettature del personaggio. Per esempio, le ho spiegato il rapporto con la madre e come si sarebbe evoluto, e lei nel frattempo disegnava queste “situazioni” che le raccontavo. E lo stesso con il personaggio della nonna. In poche parole, lei si era creata la propria sceneggiatura attraverso questi disegni. Inoltre, nella sua scuola, aveva già conosciuto bambini come Coco/Lucia e questo ha aiutato molto .
Ed era importante avere dei bambini consapevoli di questa realtà?
Si certamente, ha reso tutto più facile. Infatti, ho cercato dei bambini che fossero a conoscenza di questa realtà, così sarebbero stati in grado di formare quella connessione con i propri personaggi. E in qualche modo, è stato più facile lavorare con loro rispetto agli adulti, più che altro perché questi mi chiedevano sempre dell’aspetto drammatico e traumatico dietro alla storia.
Come mai “20.000 especies de abejas”? C’è qualche significato dietro a questo titolo?
Beh, ho cercato su google quante specie di api esistessero, e la risposta era… ventimila (la regista ride, n.d.r.). Mi piaceva quel numero tondo. Ma non ero interessata al numero specifico, volevo mostrare come le api garantiscono una certa biodiversità nella natura. E il film tratta proprio di questo, la “diversità”, intesa come il modo in cui ci sentiamo con noi stessi e con chi ci sta attorno. L’alveare ha avuto una particolare rilevanza per me, perché mostra l’importanza dell’individuo nella collettività. Ogni ape ha il proprio compito, il proprio “posto” e importanza all’interno dell'alveare, e tutte insieme fanno funzionare questo sistema. E ciò richiama la struttura di una famiglia. Inoltre, nella cultura basca, le api sono considerate degli animali sacri. Ma non solo, prendi ad esempio la recente scomparsa della Regina Elisabetta II, l’apicoltore della famiglia reale, appena saputa la morte, ha bussato sulle case dove erano presenti le api, “avvertendole” della notizia. È una tradizione presente anche nella cultura antica basca. Quando c’è un evento importante, la famiglia lo “comunica” alle api. Volevo giocare con questo aspetto, questo rapporto tra uomo/ape, all’interno del film. All’inizio Coco/Lucia è terrorizzata dalle api, ma pian piano, grazie anche all’aiuto della nonna, riesce a costruire un rapporto speciale, e alla fine comunica a queste il grande “annuncio”.
In passato non ci sono stati molti film che approfondissero questa importante tematica. Sembra che al giorno d’oggi ci sia un’apertura mentale più ampia verso questo tipo di storie. Cosa ne pensi di questo?
Credo che il movimento transessuale stia facendo progressi e mettendo in dubbio le basi, le fondamenta, di quello che è il sistema patriarcale nella società moderna. È un movimento, ma anche una rivoluzione, e sta diventando sempre più forte. Cambiare o mettere in discussione le “basi” di questo sistema significa che nuove domande sorgeranno. Ho iniziato a scrivere il film nel 2018 e non era un argomento tanto discusso, mentre qualche giorno prima della premiere a Berlino è stata approvata la “legge trans” (legge approvata il 16 febbraio 2023 che consente il libero cambio di genere a partire dai sedici anni, n.d.r.). È come se fosse stato un processo parallelo; da una parte hai lo sviluppo del progetto cinematografico e dall’altra l’evoluzione e lo sviluppo di un dialogo sociale, di un dibattito su questa tematica. E il tutto è culminato allo stesso punto. Credo che la società ora sia più consapevole di questa “nuova realtà”.
Per raccontare questa storia hai utilizzato un approccio intimo, poetico, senza mai scadere nel melodrammatico. Sei riuscita a trovare un equilibrio da un punto di vista emotivo che mi ha colpito molto e volevo chiederti quale fosse stata la più grande sfida/difficoltà nel raggiungere questo.
Credo che tutto sia nato con la decisione di fare un film corale, dove ogni personaggio ha una propria evoluzione. Non volevo fare un film solamente su un personaggio transgender e sono riuscita a trovare un certo equilibrio nel film aggiungendo, ed esplorando, i conflitti tra gli altri personaggi. Quando parlavo con le famiglie in preparazione del film, c’è stata una cosa che mi ha colpito, l’esperienza di “transizione” non riguardava i ragazzi, ma loro, e il modo in cui dovevano abituarsi a “vedere” questo cambiamento. I ragazzi in questione sono sempre stati così, sono i genitori che devono cambiare e riflettere sulla propria esperienza personale, il proprio genere e la propria eredità. Ero interessata in questo, volevo mostrare come l’esperienza della transessualità dei ragazzi possa far riflettere i componenti di una famiglia sulla propria vita e sulla possibilità di vivere un’esistenza più “autentica”.
Quindi, non definiresti il film solo su una bambina transgender.
No. L’aspetto della transessualità della protagonista mi ha permesso di fare un discorso più ampio sull’identità di genere.
Parlando invece di come la famiglia vede la transizione di Lucia/Coco nel film, sei riuscita a creare un interessante contrasto su come le donna della famiglia vivono questa situazione.
Esatto, per esempio, ho trovato interessante analizzare il punto di vista della nonna, la persona che sembra meno propensa a questo cambiamento, soprattutto per la sua fede religiosa. Ma allo stesso tempo, questo background religioso, aiuta Lucia a trovare la propria identità. La nonna le spiega cos'è la fede e che il “credere in qualcosa” è un sentimento autentico ed inspiegabile, è qualcosa all’interno di noi stessi che sappiamo essere vero. Ha un’influenza positiva sulla bambina e questa inizia a credere in se stessa. I bambini hanno un'apertura mentale più ampia e non vivono in un mondo ristretto o limitato. Lucia ama la nonna e vede che questo ambiente religioso e di fede, in qualche modo, non impone dei limiti nella sua vita. Lei può credere in ciò che prova e sa dentro di sé che è qualcosa di vero. Anche il nome Lucia, viene dalla Chiesa ed è come se questa gli avesse dato uno strumento per capire la propria identità. C’è questa interazione dove la bambina chiede alla nonna se c’è qualcosa che non va bene in lei e come mai si sente così, e questa le risponde «Dios nos ha hecho perfecto. Somos perfectos.» (Dio ci ha fatti perfetti. Noi siamo perfetti, n.d.r.). E questo è un momento chiave nella vita della piccola Lucia. Però quando la verità viene a galla e la nonna capisce che la nipote non è un ragazzo ma una ragazza, questa ha comunque difficoltà nell’accettare questo. Ci vorrà del tempo, forse qualche anno, per capire e abituarsi, ma nonostante ciò, la nonna le da comunque un senso di tranquillità e positività. Volevo creare dei personaggi complessi, perché anche in un personaggio “contrariato” come quello della nonna, possono esserci degli aspetti positivi. Anche il personaggio della madre, lei sta cercando di essere un modello “moderno” per la figlia. Le sta dando spazio e libertà di esplorare la propria identità. Ma allo tempo, lei non riesce a vedere cosa stia succedendo alla figlia.
C’è qualche regista che ti ha ispirato nel corso della tua carriera?
Sono molto affascinata dal “poor cinema” che caratterizza i film latino americani. Si riesce a trovare una certa “verità” in questo e i personaggi diventano il punto focale della storia. Lucrecia Martel è stata una grande ispirazione per me, i suoi film si concentrano su rapporti all’interno di nuclei famigliari. Anche il cinema di Alice Rohrwacher è stata una fonte d’ispirazione, soprattutto nel modo in cui combina naturalismo e fantasia. Ogni cosa è possibile nei suoi film. Inoltre, lei spesso lavora con attori non professionisti, un aspetto a cui sono molto interessata.
È un periodo piuttosto prolifico per le registe donne in Spagna. C’è questa nuova generazione di cineaste che sta avendo successo a livello internazionale. Come spieghi questo recente successo?
In Spagna è successo qualcosa, ma non è stato un processo immediato. Ci sono stati dei cambiamenti nel modo in cui i film vengono finanziati e c’è una volontà di aiutare registe donne. E credo sia giusto darci più aiuto economicamente perché per anni l’industria è stata dominata da uomini. E anche se è un bel momento, stiamo comunque parlando di percentuali basse di donne che riescono a fare film in modo costante o regolare. C’era un grande discrepanza tra la quantità di film diretti da donne rispetto a quelli degli uomini e ciò non aveva nulla a che fare con il talento o la bravura. Inoltre, le scuola di cinema assicurano che le registe donna abbiano un futuro e un aiuto nei loro progetti. La fiducia nelle cineaste sta crescendo, ma ci sono degli ulteriori però. L’età con cui le donne fanno il primo lungometraggio è maggiore rispetto alla controparte maschile. E poi, bisogna vedere quante di queste riescono ad avere una carriera costante e dirigere un terzo o un quarto film. C’è anche una questione di stile, ovviamente, e bisogna supportare una cineasta quando dirige un film che si discosta dalle tematiche “intime” e delicate. Una donna deve essere libera di dirigere anche film horror o di fantascienza.
Prima ho utilizzato quegli aggettivi per fare un complimento al film.
Si l’avevo capito (la regista sorride, n.d.r.), però spesso certe parole vengono utilizzate per etichettare il cinema al femminile. Noi donne dobbiamo sempre fare film intimi, sensibili e… con un basso budget (la regista ride, n.d.r.)! Ma in questo periodo, bisogna pur sempre festeggiare alcune “vittorie”: sempre più donne sono presenti nei circuiti festivalieri o sono alle redini di grandi produzioni e blockbuster. Le donne ci sono e sono in grado di dirigere ogni cosa. Dovrebbe essere una cosa normale e non un’attrazione speciale.