INT-70
23.04.2024
Nello scenario del cinema ucraino, spesso molto legato alla tecnica di Valentyn Vasjanovyč, cineasta che predilige una narrazione “fredda” e a campo lungo, Roman Bondarchuk rappresenta una “voce” molto particolare. Vulkan (2018), il primo lungometraggio di finzione del regista, trasformava il Kherson, la sua regione natale, in una dimensione da western-surreale. Il suo secondo film, The Editorial Office (2024), presentato in anteprima alla Berlinale di quest’anno nella sezione Forum, aggiunge a questo impianto di cinema dell’assurdo una critica sociale, raccontando la corruzione mediatica ed il caos dell’Ucraina provinciale attraverso le vicende di un giovane ragazzo che entra nella redazione di un giornale, diventando sempre più disilluso riguardo la realtà. Già in Vulkan l’occupazione della Crimea ricopriva un ruolo centrale, ma in The Editorial Office, le cui riprese sono avvenute poco prima della guerra, si percepisce in modo quasi profetico l’ombra dell’invasione in arrivo.
Abbiamo incontrato Roman Bondarchuk, e parlato con lui della sua ultima opera.
Il film è stato prodotto prima dell’invasione. Visto che nell’opera ne si percepisce l’arrivo imminente, mi sono chiesto se era qualcosa che sentivate in maniera chiara durante le riprese.
La sceneggiatura era pronta più di quattro anni fa. Abbiamo iniziato le riprese nell’autunno del 2021, l’ultimo autunno pacifico dell’Ucraina. All’epoca tutti percepivano la tensione di una minaccia imminente ma preferivano evitare certi argomenti. È nella natura umana non riuscire a rimanere perennemente stressati. Al contempo c’erano i volontari che lavoravano di supporto all’esercito, per esempio il signore sulla sedia a rotelle con la bandiera della nazione presente nel film è riuscito, nella realtà, a raccogliere milioni di Grivnia (valuta ucraina n.d.r) per l’esercito, ed è rimasto nel Kherson durante l’invasione.
Sia in Vulkan che in The Editorial Office c’è questo velo di assurdità che ricopre un po’ tutti gli eventi, che importanza ha l’assurdo nel suo modo di fare cinema?
Non cerco mai l’assurdo di proposito. È un po’ come se fosse la mia calligrafia, noto certe cose che mi attraggono e faccio ulteriori ricerche Se si analizza il luogo stesso dove il film è ambientato, con le sue credenze e il suo “pensiero mitico”, naturalmente diviene tutto assurdo. Al contempo fa cinema (it’s cinematic n.d.r).
All’assurdo si accompagna un velo di misticismo, per esempio nel personaggio del nomade.
La maggior parte delle storie e degli episodi che confluiscono nel film vengono dalla mia ricerca documentaristica, abbiamo incontrato questo personaggio mentre cercavamo una location nel deserto, e lui è saltato sulla nostra jeep e ci ha indicato la strada – come avviene nel film. Ci ha raccontato che prima lavorava nell’informatica e, ad un certo punto, ha iniziato a sentire delle voci che lo hanno portato a trasferirsi nella foresta. Lontano dalla tecnologia. Io ho pensato che forse queste voci erano legate all’"overdose" di misinformazione e manipolazione a cui era stato esposto, per cui l’ho “aggiunto” nella trama rendendolo un personaggio un pochino più “presente” di come lo fosse lui nella realtà.
Per la dimensione più mistica del film ha attinto anche dal romanzo di Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Lvingstone, perché questa scelta?
È uno dei primi libri che è comparso sul mercato dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ed è diventato una specie di “bibbia” per nuovi imprenditori, forse perché è breve e semplice, si può leggere in un’ora. Leggendolo, questa generazione si è resa conto che tutto è possibile, non ci sono limiti. Per la generazione di Ruslan, il personaggio che si candida alle elezioni, è un libro-culto, quindi ho pensato, quale altro romanzo potrei usare se non il “manuale” del businessman?
Ovviamente il tema centrale del film è il mondo dell’informazione e delle fake news, qual è la sua opinione a riguardo?
Penso sia un fenomeno universale, che io ho potuto studiare attraverso l’osservazione di una redazione dell'Ucraina meridionale. Se vediamo su una scala più larga, avvengono procedimenti simili o anche peggiori. Questo è solo un piccolo scorcio su come i media mercifichino gli avvenimenti e su come le fake news vengano generate. Abbiamo incontrato un uomo che lavorava come inviato per un giornale di Kyiv e doveva trattare di cronaca nera. Si è fatto amici presso la questura, la polizia, le pompe funebri, ma il giornale voleva più crimini, ed ha iniziato quindi ad inventarne. Questo ha portato, in seguito, ad un'immagine dell’Ucraina meridionale come un posto pericoloso, ma metà dei casi non erano mai avvenuti.
Per il protagonista, ha scelto Dmytro Bahnenko, un vero giornalista. Qual è il valore aggiunto che ha apportato al film?
Sono un po’ “assuefatto” agli attori non professionisti, perché per il mio film di diploma, che non aveva un budget, ero tornato da Kyiv, nella mia regione di origine, e insieme ad un paio di collaboratori ho iniziato a raccogliere storie e ad incontrare persone, e alla fine ho chiesto a loro di interpretare sé stessi. Mi sono reso conto che gli attori non professionisti possono portare molti colori, hanno delle capacità di verosimiglianza che i professionisti non hanno. Così con The Editorial Office, dopo aver fatto molti casting, alla fine ho scelto Dmytro Bahnenko. Lui era un giornalista investigativo che ha scritto vari articoli sugli incendi dolosi e condotto inchieste sui casi di corruzione in provincia, ha avuto problemi con questa “mafia” politica che domina il territorio, era famoso pur essendo molto giovane. Ho pensato che lui conoscesse bene l’argomento, meglio di me. Lo abbiamo mandato a delle lezioni di recitazione per un mese. Ha deciso anche di non continuare con il giornalismo, attualmente è nell’esercito. Quando il film è stato presentato alla Berlinale è arrivato direttamente da Adiivka, una delle posizioni più violente del fronte. (Il 17 Febbraio, mentre Bahnenko era al Festival, i russi hanno conquistato la città, se lui non si fosse trovato a Berlino sarebbe stato probabilmente catturato o ucciso dall’esercito n.d.r).
Oltre a lui, ci sono anche altri membri della troupe al fronte?
È una troupe grossa, molti di loro si trovano nell'esercito. Il nostro montatore, Viktor Onysko, è stato ucciso al fronte, l’attore che interpretava il nomade è morto per una ferita inflittagli durante un attacco. Quasi tutti gli uomini della troupe sono dislocati sul fronte. Una ventina di persone è riuscita a venire a Berlino per l’anteprima, molti di loro non li vedevo da più di due anni e non potevo credere ai miei occhi.
Il finale del film fa riferimento alla guerra in corso, com’è cambiato rispetto al finale originale?
In realtà era molto simile a quello che vedi, abbiamo solo ampliato la dimensione di questa delegazione di governi. L’Ucraina è una destinazione popolare per politici internazionali, star, musicisti rock, Bansky, eccetera, che scattano foto per dimostrare il loro “supporto”. Io penso sia un epilogo ottimista, che spinge verso un’Ucraina che ha vinto la guerra in un futuro prossimo. La scena implica anche la necessità di evolversi ed accettare le nuove regole di una società moderna, per esempio vediamo i giornalisti che prima minimizzavano la questione dei pronomi di genere ed adesso li utilizzano correttamente, e volevamo sottolineare che c’è sempre un “gruppo” che ha bisogno di più tempo per raggiungere il progresso.
Secondo lei, l’invasione ha alterato il significato originale di The Editorial Office?
Penso che prima era un film più divertente. Abbiamo scelto di specificare che gli eventi avvengono sei mesi prima dell’invasione su larga scala, e quindi il lungometraggio è diventato più pesante per via dell’ombra della guerra. Per me resta commovente vedere nel film luoghi ed edifici che non esistono più. Le location sono nel territorio occupato, le foreste completamente distrutte e bruciate, trasformate in fortezze russe. The Editorial Office è materiale storico adesso.
INT-70
23.04.2024
Nello scenario del cinema ucraino, spesso molto legato alla tecnica di Valentyn Vasjanovyč, cineasta che predilige una narrazione “fredda” e a campo lungo, Roman Bondarchuk rappresenta una “voce” molto particolare. Vulkan (2018), il primo lungometraggio di finzione del regista, trasformava il Kherson, la sua regione natale, in una dimensione da western-surreale. Il suo secondo film, The Editorial Office (2024), presentato in anteprima alla Berlinale di quest’anno nella sezione Forum, aggiunge a questo impianto di cinema dell’assurdo una critica sociale, raccontando la corruzione mediatica ed il caos dell’Ucraina provinciale attraverso le vicende di un giovane ragazzo che entra nella redazione di un giornale, diventando sempre più disilluso riguardo la realtà. Già in Vulkan l’occupazione della Crimea ricopriva un ruolo centrale, ma in The Editorial Office, le cui riprese sono avvenute poco prima della guerra, si percepisce in modo quasi profetico l’ombra dell’invasione in arrivo.
Abbiamo incontrato Roman Bondarchuk, e parlato con lui della sua ultima opera.
Il film è stato prodotto prima dell’invasione. Visto che nell’opera ne si percepisce l’arrivo imminente, mi sono chiesto se era qualcosa che sentivate in maniera chiara durante le riprese.
La sceneggiatura era pronta più di quattro anni fa. Abbiamo iniziato le riprese nell’autunno del 2021, l’ultimo autunno pacifico dell’Ucraina. All’epoca tutti percepivano la tensione di una minaccia imminente ma preferivano evitare certi argomenti. È nella natura umana non riuscire a rimanere perennemente stressati. Al contempo c’erano i volontari che lavoravano di supporto all’esercito, per esempio il signore sulla sedia a rotelle con la bandiera della nazione presente nel film è riuscito, nella realtà, a raccogliere milioni di Grivnia (valuta ucraina n.d.r) per l’esercito, ed è rimasto nel Kherson durante l’invasione.
Sia in Vulkan che in The Editorial Office c’è questo velo di assurdità che ricopre un po’ tutti gli eventi, che importanza ha l’assurdo nel suo modo di fare cinema?
Non cerco mai l’assurdo di proposito. È un po’ come se fosse la mia calligrafia, noto certe cose che mi attraggono e faccio ulteriori ricerche Se si analizza il luogo stesso dove il film è ambientato, con le sue credenze e il suo “pensiero mitico”, naturalmente diviene tutto assurdo. Al contempo fa cinema (it’s cinematic n.d.r).
All’assurdo si accompagna un velo di misticismo, per esempio nel personaggio del nomade.
La maggior parte delle storie e degli episodi che confluiscono nel film vengono dalla mia ricerca documentaristica, abbiamo incontrato questo personaggio mentre cercavamo una location nel deserto, e lui è saltato sulla nostra jeep e ci ha indicato la strada – come avviene nel film. Ci ha raccontato che prima lavorava nell’informatica e, ad un certo punto, ha iniziato a sentire delle voci che lo hanno portato a trasferirsi nella foresta. Lontano dalla tecnologia. Io ho pensato che forse queste voci erano legate all’"overdose" di misinformazione e manipolazione a cui era stato esposto, per cui l’ho “aggiunto” nella trama rendendolo un personaggio un pochino più “presente” di come lo fosse lui nella realtà.
Per la dimensione più mistica del film ha attinto anche dal romanzo di Richard Bach, Il gabbiano Jonathan Lvingstone, perché questa scelta?
È uno dei primi libri che è comparso sul mercato dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ed è diventato una specie di “bibbia” per nuovi imprenditori, forse perché è breve e semplice, si può leggere in un’ora. Leggendolo, questa generazione si è resa conto che tutto è possibile, non ci sono limiti. Per la generazione di Ruslan, il personaggio che si candida alle elezioni, è un libro-culto, quindi ho pensato, quale altro romanzo potrei usare se non il “manuale” del businessman?
Ovviamente il tema centrale del film è il mondo dell’informazione e delle fake news, qual è la sua opinione a riguardo?
Penso sia un fenomeno universale, che io ho potuto studiare attraverso l’osservazione di una redazione dell'Ucraina meridionale. Se vediamo su una scala più larga, avvengono procedimenti simili o anche peggiori. Questo è solo un piccolo scorcio su come i media mercifichino gli avvenimenti e su come le fake news vengano generate. Abbiamo incontrato un uomo che lavorava come inviato per un giornale di Kyiv e doveva trattare di cronaca nera. Si è fatto amici presso la questura, la polizia, le pompe funebri, ma il giornale voleva più crimini, ed ha iniziato quindi ad inventarne. Questo ha portato, in seguito, ad un'immagine dell’Ucraina meridionale come un posto pericoloso, ma metà dei casi non erano mai avvenuti.
Per il protagonista, ha scelto Dmytro Bahnenko, un vero giornalista. Qual è il valore aggiunto che ha apportato al film?
Sono un po’ “assuefatto” agli attori non professionisti, perché per il mio film di diploma, che non aveva un budget, ero tornato da Kyiv, nella mia regione di origine, e insieme ad un paio di collaboratori ho iniziato a raccogliere storie e ad incontrare persone, e alla fine ho chiesto a loro di interpretare sé stessi. Mi sono reso conto che gli attori non professionisti possono portare molti colori, hanno delle capacità di verosimiglianza che i professionisti non hanno. Così con The Editorial Office, dopo aver fatto molti casting, alla fine ho scelto Dmytro Bahnenko. Lui era un giornalista investigativo che ha scritto vari articoli sugli incendi dolosi e condotto inchieste sui casi di corruzione in provincia, ha avuto problemi con questa “mafia” politica che domina il territorio, era famoso pur essendo molto giovane. Ho pensato che lui conoscesse bene l’argomento, meglio di me. Lo abbiamo mandato a delle lezioni di recitazione per un mese. Ha deciso anche di non continuare con il giornalismo, attualmente è nell’esercito. Quando il film è stato presentato alla Berlinale è arrivato direttamente da Adiivka, una delle posizioni più violente del fronte. (Il 17 Febbraio, mentre Bahnenko era al Festival, i russi hanno conquistato la città, se lui non si fosse trovato a Berlino sarebbe stato probabilmente catturato o ucciso dall’esercito n.d.r).
Oltre a lui, ci sono anche altri membri della troupe al fronte?
È una troupe grossa, molti di loro si trovano nell'esercito. Il nostro montatore, Viktor Onysko, è stato ucciso al fronte, l’attore che interpretava il nomade è morto per una ferita inflittagli durante un attacco. Quasi tutti gli uomini della troupe sono dislocati sul fronte. Una ventina di persone è riuscita a venire a Berlino per l’anteprima, molti di loro non li vedevo da più di due anni e non potevo credere ai miei occhi.
Il finale del film fa riferimento alla guerra in corso, com’è cambiato rispetto al finale originale?
In realtà era molto simile a quello che vedi, abbiamo solo ampliato la dimensione di questa delegazione di governi. L’Ucraina è una destinazione popolare per politici internazionali, star, musicisti rock, Bansky, eccetera, che scattano foto per dimostrare il loro “supporto”. Io penso sia un epilogo ottimista, che spinge verso un’Ucraina che ha vinto la guerra in un futuro prossimo. La scena implica anche la necessità di evolversi ed accettare le nuove regole di una società moderna, per esempio vediamo i giornalisti che prima minimizzavano la questione dei pronomi di genere ed adesso li utilizzano correttamente, e volevamo sottolineare che c’è sempre un “gruppo” che ha bisogno di più tempo per raggiungere il progresso.
Secondo lei, l’invasione ha alterato il significato originale di The Editorial Office?
Penso che prima era un film più divertente. Abbiamo scelto di specificare che gli eventi avvengono sei mesi prima dell’invasione su larga scala, e quindi il lungometraggio è diventato più pesante per via dell’ombra della guerra. Per me resta commovente vedere nel film luoghi ed edifici che non esistono più. Le location sono nel territorio occupato, le foreste completamente distrutte e bruciate, trasformate in fortezze russe. The Editorial Office è materiale storico adesso.