di Viktor Tóth
NC-133
20.12.2022
Con Kaymak, la sua nuova pellicola, Milcho Manchevski si avvicina ad un cinema più leggero senza rinnegare i principi del suo cinema più impegnato. Premiato nel 1994 con il Leone d’Oro per Prima della pioggia, il suo primo lungometraggio, il cineasta macedone ha preferito cimentarsi in un ambiente cinematografico più libero sebbene gli fossero state aperte le porte di Hollywood. Nonostante le sue opere successive siano meno note, non hanno nulla da invidiare al suo film di debutto. Se si vuole descrivere la filmografia di Manchevski, bisogna identificare due tangenti che, pur essendo chiaramente distinte, sono interconnesse. Da un lato, lo studio della relazione tra la realtà e la sua rappresentazione - che avviene in Bikini Moon (2017) ed in Majki (2010) - e quindi delle alterazioni che il cinema, incluso quello documentario, compie nel descrivere una realtà, dall’altro, il racconto non-lineare e la struttura narrativa basata su molteplici storie parallele o interconnesse.
Così Prima della Pioggia racconta tre episodi distinti inerenti alla guerra in Bosnia, mentre in Dust (2001) si seguono tre vicende storicamente distanti ma in qualche modo legate, e in Willow (2019) si assiste a storie di donne che cercano di emanciparsi in epoche diverse fra loro. Anche Kaymak segue questa seconda direzione, inscenando le storie parallele di due coppie, di differenti età ed estrazioni sociali, che vivono in abitazioni adiacenti. L'ubicazione dei due appartamenti è molto evocativa: la coppia giovane e facoltosa abita in un moderno loft collocato ai piani alti, mentre la coppia di mezza età, di ceto inferiore, in un appartamento logoro situato in basso, una scelta che a molti potrebbe ricordare il Parasite (2019) di Bong Joon-ho. Come in altri film di Manchevski, il luogo ha una sua centralità. In Prima della Pioggia era il monastero sulla costa, o, come nel capitolo intermedio, la città di Londra, e veniva rappresentato con intersezioni molto strette e dettagli brevi. In Kaymak è Skopje, che viene mostrata come una metropoli caotica, disorganizzata e caratterizzata da cantieri onnipresenti. Per Manchevski c’è un intento di denuncia nel rappresentare la capitale macedone, il suo affollamento eccessivo causato dall’edilizia intensiva e il malessere che ne scaturisce per chi ci abita. Non a caso, in una delle scene iniziali, il primo contatto tra le due coppie avviene proprio per un litigio tra vicini. Pur avendo un ruolo importante nello svolgimento della storia, non è la lotta tra classi ad essere centrale nel film. Manchevski lo descrive come «una storia d’amore per adulti».
Nello specifico, Kaymak esplora le dinamiche erotiche dei suoi protagonisti, che si ritrovano a rompere alcuni tabù ed a trovare un nuovo equilibrio relazionale. Non c’è l’audacia di Love (2015) di Gaspar Noè o di Ecco l’impero dei sensi (1976) di Nagisa Oshima, poiché Kaymak si interessa più alle conseguenze interrelazionali che alla morbosità dell’attività erotica. Curiosamente, il lungometraggio riesce a distinguersi anche per l’imprevedibilità della trama, che si distoglie dagli esiti, spesso banali, dei film con questa tematica. Chiaramente alla sessualità si accompagna una riscoperta dell’identificazione di genere ed il distacco dal sistema familiare tradizionale, ma non nel senso a cui siamo abituati ad assistere nel cinema queer.
Il Kaymak, che da nome alla pellicola, è un tipo di crema diffusa in Medio Oriente e nei Balcani. Il titolo, non a caso, si riferisce ad una specifica scena del film nella quale Caramba spiega a Doshta - la coppia di ceto basso, interpretata da Aleksandar Mikic e Simina Spirovska - che, pur conscio che non gli faccia bene alla salute e che non possano permetterselo, lui intende mangiare il Kaymak perchè gli piace. Se è vero che c’è una motivazione narrativa a cui si lega - a prepararlo e venderlo è Eva, con cui Caramba ha un rapporto extraconiugale - la scena evoca il concetto che Manchevski vuole trasmettere: come per il danno procurato dal Kaymak, se ciò che avviene tra le mura domestiche trapelasse, ne uscirebbe lesa l’immagine dei protagonisti. Al contempo, però, loro stessi ne traggono piacere. L’opposizione così è tra la bienséance pubblica ed il benessere psicofisico-relazionale privato.
Manchevski non apprezza i ragionamenti in termini di genere, e così Kaymak non dovrebbe essere considerato una commedia - pur avendo un’esplicita vena comica - ma nemmeno una dramedy, come potrebbe far pensare dal suo scioccante ed amaro finale. Il lungometraggio potrebbe essere paragonato a Deset u Pola (Una storia di vicinato non proprio amichevole, 2021), del bosniaco Danis Tanovic, che, similmente al lungometraggio di Manchevski, si distacca dalla drammaticità della filmografia precedente del suo autore. In Kaymak vi è però uno sviluppo più raffinato, una scelta tematica più caratterizzante, e la presenza di una voce registica distinta, che lo rende un lungometraggio maggiormente complesso rispetto ad una semplice commedia. Il film ha inoltre il coraggio di osare, esplorando un argomento che può risultare ancora più controverso nell’ambiente balcanico. Non si tratta di una pellicola che raggiunge gli apici di Prima della Pioggia o Willow, ma ciò non la rende necessariamente inferiore o non riuscita. Il tentativo di Manchevski di prendere una direzione nuova, più irriverente, e meno seria, dimostra come il cineasta sia ancora in grado di scegliere argomenti sorprendenti per le sue opere.
di Viktor Tóth
NC-133
20.12.2022
Con Kaymak, la sua nuova pellicola, Milcho Manchevski si avvicina ad un cinema più leggero senza rinnegare i principi del suo cinema più impegnato. Premiato nel 1994 con il Leone d’Oro per Prima della pioggia, il suo primo lungometraggio, il cineasta macedone ha preferito cimentarsi in un ambiente cinematografico più libero sebbene gli fossero state aperte le porte di Hollywood. Nonostante le sue opere successive siano meno note, non hanno nulla da invidiare al suo film di debutto. Se si vuole descrivere la filmografia di Manchevski, bisogna identificare due tangenti che, pur essendo chiaramente distinte, sono interconnesse. Da un lato, lo studio della relazione tra la realtà e la sua rappresentazione - che avviene in Bikini Moon (2017) ed in Majki (2010) - e quindi delle alterazioni che il cinema, incluso quello documentario, compie nel descrivere una realtà, dall’altro, il racconto non-lineare e la struttura narrativa basata su molteplici storie parallele o interconnesse.
Così Prima della Pioggia racconta tre episodi distinti inerenti alla guerra in Bosnia, mentre in Dust (2001) si seguono tre vicende storicamente distanti ma in qualche modo legate, e in Willow (2019) si assiste a storie di donne che cercano di emanciparsi in epoche diverse fra loro. Anche Kaymak segue questa seconda direzione, inscenando le storie parallele di due coppie, di differenti età ed estrazioni sociali, che vivono in abitazioni adiacenti. L'ubicazione dei due appartamenti è molto evocativa: la coppia giovane e facoltosa abita in un moderno loft collocato ai piani alti, mentre la coppia di mezza età, di ceto inferiore, in un appartamento logoro situato in basso, una scelta che a molti potrebbe ricordare il Parasite (2019) di Bong Joon-ho. Come in altri film di Manchevski, il luogo ha una sua centralità. In Prima della Pioggia era il monastero sulla costa, o, come nel capitolo intermedio, la città di Londra, e veniva rappresentato con intersezioni molto strette e dettagli brevi. In Kaymak è Skopje, che viene mostrata come una metropoli caotica, disorganizzata e caratterizzata da cantieri onnipresenti. Per Manchevski c’è un intento di denuncia nel rappresentare la capitale macedone, il suo affollamento eccessivo causato dall’edilizia intensiva e il malessere che ne scaturisce per chi ci abita. Non a caso, in una delle scene iniziali, il primo contatto tra le due coppie avviene proprio per un litigio tra vicini. Pur avendo un ruolo importante nello svolgimento della storia, non è la lotta tra classi ad essere centrale nel film. Manchevski lo descrive come «una storia d’amore per adulti».
Nello specifico, Kaymak esplora le dinamiche erotiche dei suoi protagonisti, che si ritrovano a rompere alcuni tabù ed a trovare un nuovo equilibrio relazionale. Non c’è l’audacia di Love (2015) di Gaspar Noè o di Ecco l’impero dei sensi (1976) di Nagisa Oshima, poiché Kaymak si interessa più alle conseguenze interrelazionali che alla morbosità dell’attività erotica. Curiosamente, il lungometraggio riesce a distinguersi anche per l’imprevedibilità della trama, che si distoglie dagli esiti, spesso banali, dei film con questa tematica. Chiaramente alla sessualità si accompagna una riscoperta dell’identificazione di genere ed il distacco dal sistema familiare tradizionale, ma non nel senso a cui siamo abituati ad assistere nel cinema queer.
Il Kaymak, che da nome alla pellicola, è un tipo di crema diffusa in Medio Oriente e nei Balcani. Il titolo, non a caso, si riferisce ad una specifica scena del film nella quale Caramba spiega a Doshta - la coppia di ceto basso, interpretata da Aleksandar Mikic e Simina Spirovska - che, pur conscio che non gli faccia bene alla salute e che non possano permetterselo, lui intende mangiare il Kaymak perchè gli piace. Se è vero che c’è una motivazione narrativa a cui si lega - a prepararlo e venderlo è Eva, con cui Caramba ha un rapporto extraconiugale - la scena evoca il concetto che Manchevski vuole trasmettere: come per il danno procurato dal Kaymak, se ciò che avviene tra le mura domestiche trapelasse, ne uscirebbe lesa l’immagine dei protagonisti. Al contempo, però, loro stessi ne traggono piacere. L’opposizione così è tra la bienséance pubblica ed il benessere psicofisico-relazionale privato.
Manchevski non apprezza i ragionamenti in termini di genere, e così Kaymak non dovrebbe essere considerato una commedia - pur avendo un’esplicita vena comica - ma nemmeno una dramedy, come potrebbe far pensare dal suo scioccante ed amaro finale. Il lungometraggio potrebbe essere paragonato a Deset u Pola (Una storia di vicinato non proprio amichevole, 2021), del bosniaco Danis Tanovic, che, similmente al lungometraggio di Manchevski, si distacca dalla drammaticità della filmografia precedente del suo autore. In Kaymak vi è però uno sviluppo più raffinato, una scelta tematica più caratterizzante, e la presenza di una voce registica distinta, che lo rende un lungometraggio maggiormente complesso rispetto ad una semplice commedia. Il film ha inoltre il coraggio di osare, esplorando un argomento che può risultare ancora più controverso nell’ambiente balcanico. Non si tratta di una pellicola che raggiunge gli apici di Prima della Pioggia o Willow, ma ciò non la rende necessariamente inferiore o non riuscita. Il tentativo di Manchevski di prendere una direzione nuova, più irriverente, e meno seria, dimostra come il cineasta sia ancora in grado di scegliere argomenti sorprendenti per le sue opere.