NC-242
09.10.2024
Nel 2023 era già uscito per minimumfax Per i soldi o per la gloria. Storie e leggende dei produttori italiani dal dopoguerra alle tv private, volume a cura di Domenico Monetti e Luca Pallanch che segnava la prima collaborazione editoriale tra minimumfax e il Centro Sperimentale di Cinematografia. Per proseguire la collana, intitolata suggestivamente Storia orale del cinema italiano, il duo di Monetti e Pallanch prosegue la sua indagine nel mondo e nelle famiglie dei produttori italiani con Champagne e cambiali. Nuove storie e leggende dei produttori italiani da Cinecittà a Hollywood.
Questo racconto del cinema italiano a partire dalla prospettiva e dalla viva voce dei produttori rappresenta a tutti gli effetti una controstoria e una benefica rilettura critica. È vero che, come ricorda Alberto Anile nella sua prefazione, “il cinema non è per nulla quello che lo spettatore medio conosce o immagina”, che “dietro ogni fotogramma ci sono storie complicate e inverosimili” e che “la babilonia del cinema” è fatta di “storie improbabili ed emozioni forti, intuizioni geniali e un pubblico da accontentare, scommesse esistenziali prima ancora che narrative”. Ed è altrettanto vero che, come scrive Luca Pallanch nelle prime pagine, “un tratto distintivo del cinema italiano contemporaneo è rappresentato dal superamento dei ruoli, con attori che fanno i registi o i produttori, se non i musicisti, registi che recitano, produttori che ci provano, montatori che scrivono, cantanti e scrittori che dirigono, così da estendere per ognuno le classificazioni di Wikipedia”. Ed è proprio per questo motivo che raccontare il cinema dal punto di vista dei produttori rappresenta un fruttuoso cambiamento di paradigma, che certo non fa luce su chissà quali segreti del mestiere, ma comunque illumina sulle logiche industriali e commerciali a cui la cosiddetta Settima Arte sin dai suoi albori ha dovuto sottostare.
Per i soldi o per la gloria raccontava l’età dell’oro del cinema italiano sia da un punto di vista artistico che da quello industriale - è più indicativa della buona salute del mercato tra anni sessanta e settanta la quantità di western girati, magari in coproduzione con la Spagna, che la presenza sincronica di un Antonioni, di un Fellini e di un Visconti - per arrivare fino al momento in cui, con l’avvento delle tv private e dei loro nuovi modelli di business nella produzione delle nuove opere così come nelle acquisizioni delle vecchie libraries, vengono completamente stravolte le regole del gioco.
Champagne o cambiali non riparte dagli anni ottanta, ma dà comunque voce alle successive generazioni di produttori, affacciatisi al mestiere dalla fine degli anni sessanta in poi, vari dei quali ancora vivi: il libro, che mette assieme interviste raccolte nell’arco di almeno due decenni da Pallanch e Monetti, si apre nel ricordo di Marina Cicogna, scomparsa il 4 novembre 2023, e la prima intervista in essa contenuta è a Manolo Bolognini, e prosegue interloquendo con nomi come Amedeo Pagani, tuttora attivo, Valerio De Paolis, che dopo aver venduto la storica BIM si è mantenuto nel mercato con la Cinema srl, Roberto Ciccutto, fino a poco tempo fa direttore della Fondazione Biennale di Venezia, Renzo Rossellini e Pietro Innocenzi, che a inizio carriera si era trovato a fare bottega tra i due fuochi di Federico Fellini e del suo produttore storico Angelo Rizzoli.
Il risultato della nuova indagine di Monetti e Pallanch è una mappatura di dinamiche, sodalizi e rivalità del cinema italiano degli ultimi quattro decenni del Novecento. In alcuni casi specifici, il libro recupera la “memoria storica” di figure di cui raramente i critici e i giornalisti del tempo si occupavano in maniera organica, intervistando i celebri figli di non meno importanti produttori: Dario Argento sul padre Salvatore, che lo seguì in tutta la prima parte della carriera; Eleonora Giorgi sul padre Francesco, che alternava b-movies a qualche film di Liliana Cavani; Fabio Frizzi, compositore fratello di Fabrizio, sul padre Fulvio, produttore e distributore che ha rivestito negli anni ruoli apicali in società come la Euro International Film e la Cineriz.
Particolarmente sorprendente è l’intervista al grande montatore Eugenio Alabiso, tra i principali collaboratori di Sergio Leone, sulla fumosa figura di Salvatore Alabiso, l’“innominabile attuale” del cinema italiano del Novecento, alla base del successo di Terrence Hill, Bud Spencer e Giuliano Gemma, coinvolto anche in titoli d’autore come La piscina di Jacques Deray, con la duplice, curiosa abitudine di non essere mai legale rappresentante delle società che gestiva, e di non figurare quasi mai nei titoli di testa o di coda. Non meno sorprendente una delle interviste conclusive del volume, quella a Tony G. Brandt, al secolo Anton Giulio, figura indefinibile, approssimabile a un organizzatore generale, che collaborò a vario titolo con tutti i grandi nomi che attraversarono il cinema italiano tra gli anni cinquanta e settanta: Blasetti, Leone, Fellini, De Sica, Monicelli, ma anche Frank Sinatra e Francis Ford Coppola, definito da Brandt “un essere umano gagliardo” nonostante la lite che, dopo la realizzazione dei primi due capitoli di The Godfather (Il padrino, 1972-1974) e il suo impegno per ottenere il coinvolgimento di Vittorio Storaro nell’epopea di guerra, troncò i rapporti tra i due sui set di Apocalypse Now (1979).
L’aspetto più straordinario di Champagne e cambiali è la pacifica assenza di idealizzazione. Dalle parole di tutti traspare la consapevolezza di aver fatto parte di una grande epica, con più o meno soddisfazioni e rimpianti, ma nessuno dei produttori intervistati fa anche solo il benché minimo sforzo di travestire il proprio lavoro di una qualche forma di nobiltà o anche solo di serenità. Non è il cinema dei critici, questo, men che meno il cinema dei cinefili: Champagne e cambiali si mette dalla parte degli impresari, nel senso neutro del termine, che, più o meno mossi da una passione per l’immagine, o da una calcolata ambizione di prestigio e guadagno, hanno permesso all’intera struttura di esistere.
Nel mondo della pubblicistica di critica cinematografica, il dittico formato da Per i soldi o per la gloria e da Champagne e cambiali opera una vera e propria rivoluzione copernicana, abbandonando a piè pari i normali canoni con cui si racconta o si giudica un film e dando voce a chi permette ai film di essere fatti e visti svolgendo una funzione non meno importante del talento del singolo regista o attore, e spesso attraversando una porzione di cinema ben più vasta a livello di generi e toni. Nel raccontare il cinema con una consapevolezza industriale ed economica, solo il critico americano David Thomson con il testo La formula perfetta ha saputo fare meglio, raccontando nella sua disamina della realizzazione di Chinatown l’intera storia di Hollywood in un continuo sovrapporsi di aneddotica, critica, analisi economica, affondi socio-economici che facevano luce sull’America tutta. Proprio la variegata pluralità di voci contenuta nei due volumi di Monetti e Pallanch rappresenta la sua maggiore forza, e restituisce in maniera convincente l’ambizione di tracciare una “storia orale” del cinema nostrano: e se è auspicabile la realizzazione di un terzo volume che arrivi fino ai giorni nostri, con i dibattiti e le rivoluzioni dovute allo streaming, alle film commission, e al tax credit, lo è ancora di più una graduale immissione della “consapevolezza produttiva” nel linguaggio dei critici, dei sedicenti cinefili e degli spettatori pubblici.
Le recenti polemiche tra governo e addetti ai lavori sull’utilizzo dei fondi pubblici e degli sgravi fiscali da parte di produttori e talent paradossalmente potrebbe aiutare a rendere più famigliare se non il pubblico medio almeno la stampa specializzata sui meccanismi - e le criticità di sistema - che al momento sorreggono il cinema italiano, ma i due libri di Pallanch e Monetti dimostrano proprio che, al netto di ogni retorica e al di là di ogni dibattito partitico, costruire finanziariamente, organizzativamente e commercialmente un film è un’esperienza non meno affascinante e competitiva della presunta "arte registica".
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09.10.2024
Nel 2023 era già uscito per minimumfax Per i soldi o per la gloria. Storie e leggende dei produttori italiani dal dopoguerra alle tv private, volume a cura di Domenico Monetti e Luca Pallanch che segnava la prima collaborazione editoriale tra minimumfax e il Centro Sperimentale di Cinematografia. Per proseguire la collana, intitolata suggestivamente Storia orale del cinema italiano, il duo di Monetti e Pallanch prosegue la sua indagine nel mondo e nelle famiglie dei produttori italiani con Champagne e cambiali. Nuove storie e leggende dei produttori italiani da Cinecittà a Hollywood.
Questo racconto del cinema italiano a partire dalla prospettiva e dalla viva voce dei produttori rappresenta a tutti gli effetti una controstoria e una benefica rilettura critica. È vero che, come ricorda Alberto Anile nella sua prefazione, “il cinema non è per nulla quello che lo spettatore medio conosce o immagina”, che “dietro ogni fotogramma ci sono storie complicate e inverosimili” e che “la babilonia del cinema” è fatta di “storie improbabili ed emozioni forti, intuizioni geniali e un pubblico da accontentare, scommesse esistenziali prima ancora che narrative”. Ed è altrettanto vero che, come scrive Luca Pallanch nelle prime pagine, “un tratto distintivo del cinema italiano contemporaneo è rappresentato dal superamento dei ruoli, con attori che fanno i registi o i produttori, se non i musicisti, registi che recitano, produttori che ci provano, montatori che scrivono, cantanti e scrittori che dirigono, così da estendere per ognuno le classificazioni di Wikipedia”. Ed è proprio per questo motivo che raccontare il cinema dal punto di vista dei produttori rappresenta un fruttuoso cambiamento di paradigma, che certo non fa luce su chissà quali segreti del mestiere, ma comunque illumina sulle logiche industriali e commerciali a cui la cosiddetta Settima Arte sin dai suoi albori ha dovuto sottostare.
Per i soldi o per la gloria raccontava l’età dell’oro del cinema italiano sia da un punto di vista artistico che da quello industriale - è più indicativa della buona salute del mercato tra anni sessanta e settanta la quantità di western girati, magari in coproduzione con la Spagna, che la presenza sincronica di un Antonioni, di un Fellini e di un Visconti - per arrivare fino al momento in cui, con l’avvento delle tv private e dei loro nuovi modelli di business nella produzione delle nuove opere così come nelle acquisizioni delle vecchie libraries, vengono completamente stravolte le regole del gioco.
Champagne o cambiali non riparte dagli anni ottanta, ma dà comunque voce alle successive generazioni di produttori, affacciatisi al mestiere dalla fine degli anni sessanta in poi, vari dei quali ancora vivi: il libro, che mette assieme interviste raccolte nell’arco di almeno due decenni da Pallanch e Monetti, si apre nel ricordo di Marina Cicogna, scomparsa il 4 novembre 2023, e la prima intervista in essa contenuta è a Manolo Bolognini, e prosegue interloquendo con nomi come Amedeo Pagani, tuttora attivo, Valerio De Paolis, che dopo aver venduto la storica BIM si è mantenuto nel mercato con la Cinema srl, Roberto Ciccutto, fino a poco tempo fa direttore della Fondazione Biennale di Venezia, Renzo Rossellini e Pietro Innocenzi, che a inizio carriera si era trovato a fare bottega tra i due fuochi di Federico Fellini e del suo produttore storico Angelo Rizzoli.
Il risultato della nuova indagine di Monetti e Pallanch è una mappatura di dinamiche, sodalizi e rivalità del cinema italiano degli ultimi quattro decenni del Novecento. In alcuni casi specifici, il libro recupera la “memoria storica” di figure di cui raramente i critici e i giornalisti del tempo si occupavano in maniera organica, intervistando i celebri figli di non meno importanti produttori: Dario Argento sul padre Salvatore, che lo seguì in tutta la prima parte della carriera; Eleonora Giorgi sul padre Francesco, che alternava b-movies a qualche film di Liliana Cavani; Fabio Frizzi, compositore fratello di Fabrizio, sul padre Fulvio, produttore e distributore che ha rivestito negli anni ruoli apicali in società come la Euro International Film e la Cineriz.
Particolarmente sorprendente è l’intervista al grande montatore Eugenio Alabiso, tra i principali collaboratori di Sergio Leone, sulla fumosa figura di Salvatore Alabiso, l’“innominabile attuale” del cinema italiano del Novecento, alla base del successo di Terrence Hill, Bud Spencer e Giuliano Gemma, coinvolto anche in titoli d’autore come La piscina di Jacques Deray, con la duplice, curiosa abitudine di non essere mai legale rappresentante delle società che gestiva, e di non figurare quasi mai nei titoli di testa o di coda. Non meno sorprendente una delle interviste conclusive del volume, quella a Tony G. Brandt, al secolo Anton Giulio, figura indefinibile, approssimabile a un organizzatore generale, che collaborò a vario titolo con tutti i grandi nomi che attraversarono il cinema italiano tra gli anni cinquanta e settanta: Blasetti, Leone, Fellini, De Sica, Monicelli, ma anche Frank Sinatra e Francis Ford Coppola, definito da Brandt “un essere umano gagliardo” nonostante la lite che, dopo la realizzazione dei primi due capitoli di The Godfather (Il padrino, 1972-1974) e il suo impegno per ottenere il coinvolgimento di Vittorio Storaro nell’epopea di guerra, troncò i rapporti tra i due sui set di Apocalypse Now (1979).
L’aspetto più straordinario di Champagne e cambiali è la pacifica assenza di idealizzazione. Dalle parole di tutti traspare la consapevolezza di aver fatto parte di una grande epica, con più o meno soddisfazioni e rimpianti, ma nessuno dei produttori intervistati fa anche solo il benché minimo sforzo di travestire il proprio lavoro di una qualche forma di nobiltà o anche solo di serenità. Non è il cinema dei critici, questo, men che meno il cinema dei cinefili: Champagne e cambiali si mette dalla parte degli impresari, nel senso neutro del termine, che, più o meno mossi da una passione per l’immagine, o da una calcolata ambizione di prestigio e guadagno, hanno permesso all’intera struttura di esistere.
Nel mondo della pubblicistica di critica cinematografica, il dittico formato da Per i soldi o per la gloria e da Champagne e cambiali opera una vera e propria rivoluzione copernicana, abbandonando a piè pari i normali canoni con cui si racconta o si giudica un film e dando voce a chi permette ai film di essere fatti e visti svolgendo una funzione non meno importante del talento del singolo regista o attore, e spesso attraversando una porzione di cinema ben più vasta a livello di generi e toni. Nel raccontare il cinema con una consapevolezza industriale ed economica, solo il critico americano David Thomson con il testo La formula perfetta ha saputo fare meglio, raccontando nella sua disamina della realizzazione di Chinatown l’intera storia di Hollywood in un continuo sovrapporsi di aneddotica, critica, analisi economica, affondi socio-economici che facevano luce sull’America tutta. Proprio la variegata pluralità di voci contenuta nei due volumi di Monetti e Pallanch rappresenta la sua maggiore forza, e restituisce in maniera convincente l’ambizione di tracciare una “storia orale” del cinema nostrano: e se è auspicabile la realizzazione di un terzo volume che arrivi fino ai giorni nostri, con i dibattiti e le rivoluzioni dovute allo streaming, alle film commission, e al tax credit, lo è ancora di più una graduale immissione della “consapevolezza produttiva” nel linguaggio dei critici, dei sedicenti cinefili e degli spettatori pubblici.
Le recenti polemiche tra governo e addetti ai lavori sull’utilizzo dei fondi pubblici e degli sgravi fiscali da parte di produttori e talent paradossalmente potrebbe aiutare a rendere più famigliare se non il pubblico medio almeno la stampa specializzata sui meccanismi - e le criticità di sistema - che al momento sorreggono il cinema italiano, ma i due libri di Pallanch e Monetti dimostrano proprio che, al netto di ogni retorica e al di là di ogni dibattito partitico, costruire finanziariamente, organizzativamente e commercialmente un film è un’esperienza non meno affascinante e competitiva della presunta "arte registica".