TR-101
31.05.2024
Mentre ci si immerge nelle rocambolesche vicende di un capolavoro come À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), è inevitabile che baleni nella nostra mente una suggestione che difficilmente ci abbandonerà: come sarebbero state quelle immagini se fossero state a colori? E soprattutto, quelle immagini, in realtà, erano a colori. Jean-Paul Belmondo aveva una carnagione rosea, non in scala di grigi. Eppure sembra inconcepibile immaginare quelle scene in maniera differente, quasi quanto non riusciamo a figurarci le statue greche decorate con i colori dalle tinte estremamente vivaci che le ricoprivano nell’antichità, ben lontane dal bianco marmoreo a cui siamo abituati oggi.
Il cinema dal bianco e nero al colore
Il viaggio del bianco e nero verso il colore è stato un’ascesa vertiginosa: nel giro di pochi anni la pellicola, come tutte le tecnologie cinematografiche, ha fatto passi da giganti e in meno di sessant’anni si è passati dalla prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière - l’uscita di operai e operaie di una fabbrica del 1895, senza suono e con poca fluidità - all’aggiunta del sonoro - alla fine degli anni 20 del nuovo millennio - fino ad arrivare, finalmente, al primo film girato in technicolor - l’azienda che è diventata ormai il nome per antonomasia della pellicola a colori.
Ma nel mezzo di queste tre grandi tappe sono stati fatti tanti piccoli passi, ognuno di loro affascinante e importantissimo per l’apporto dato al progresso del cinema e per i prodotti artistici che ha regalato e che forse devono parte del loro fascino proprio a questa aura di antico.
Lo spirito dell’uomo, si sa, è insaziabile, e se tante volte questo è stato causa della sua tristezza, di quella che Orazio chiamava “l’insoddisfatta condizione umana”, altrettante volte è stato anche la ragione per cui tante conquiste sono state portate a termine. Infatti, appena inventato il magico strumento del cinema, fatto di pellicole e proiettori, l’umanità poteva scegliere di essere soddisfatta e crogiolarsi nella magia di questo prodigio appena conquistato. E invece no! Il progresso, anziché far impigrire gli animi, ha la magnifica tendenza di stimolare sempre nuove invenzioni, nuove conquiste, nuove sfide. E così, trovandosi di fronte ai film muti e in bianco e nero, gli spiriti dei cinefili del primo novecento hanno deciso che non bastava, che non si sarebbero accontentati di un risultato già di per sé straordinario e stupefacente, ma che si sarebbero adoperati per avvicinare sempre più la fantasia alla realtà.
Si iniziò con l’adottare nel cinema le stesse soluzioni che si erano trovate per la fotografia, facendo procedere queste due discipline di pari passo. Ossia, la prima soluzione fu quella di lavorare su ogni singolo fotogramma per colorarlo, ma anche tagliare e incollare tra loro pezzi di pellicola in modo da dare ai film i primi “effetti speciali”. Il più famoso di questi “scienziati della pellicola” è sicuramente George Melies, il leggendario autore de Le voyage dans la lune (Viaggio nella luna, 1902), la cui fantasia e ingegno creativo sono raccontati anche nel più recente Hugo Cabret (2011), una commedia di Martin Scorsese in cui il regista esprime il suo amore e la sua fascinazione per il mondo del cinema, svelando anche al pubblico i trucchi del mestiere dei primi cineasti.
Di questi processi il più evidente, e anche il più diffuso, era quello della colorizzazione, che avveniva già prima dello scoccare del nuovo secolo. Il primo film di George Méliès che è stato colorato dalla sua collaboratrice Elisabeth Thuillier, che ne dipinse a mano i singoli fotogrammi, è stato Le manoir du diable nel lontano 1896. Nello stesso anno nasce la Pathé Frères, l’azienda che si è occupata per anni della colorazione dei film, prima avvalendosi della mano d’opera di centinaia di operai e poi con l’uso di macchinari appositi. Il fatto che si investisse tempo e denaro nella creazione di tecnologie mirate a questa pratica ci dà una chiara prospettiva sull’importanza che il colore ricopriva già agli albori del cinema. Sembra infatti che il colore avesse molta più importanza per la resa della verosimiglianza, visto che per lo sviluppo del sonoro bisognerà invece aspettare ancora qualche anno. Infatti, il primo film parlato con un audio che non fosse solo una colonna sonora riprodotta dall’orchestra live in sala, arriverà solo alla fine degli anni ’20 grazie al vitaphone, una speciale tecnologia che permetteva di riprodurre insieme la pellicola e il vinile su cui era registrata la traccia audio.
Lo sviluppo di tutte queste invenzioni portò la colorazione alla sua forma digitale, e già negli ultimi decenni del ‘900 si assistì al tentativo di dare colore ai grandi classici del bianco e nero. Un’azione che generò non poche controversie: ci si interrogava, allora come oggi, se il colore di un’immagine fosse parte di una scelta artistica piuttosto che una semplice specificità tecnica.
Anche la pellicola in bianco e nero infatti, come quella a colori e il digitale poi, presenta delle precise caratteristiche che possono essere riassunte, a grandi linee, nella qualità del contrasto, nel bilanciamento del bianco tarato sulla sensibilità a uno specifico tipo di luce, nelle gradazioni tonali e nei filtri caldi o freddi usati durante lo sviluppo della pellicola. Chi scatta fotografie o registra video dovrà essere inevitabilmente consapevole che anche le scelte compositive cambieranno se si pensa in bianco e nero piuttosto che a colori. Nel primo caso si lavora sui contrasti, sulle linee e sui volumi, nel secondo cercando anche un bilanciamento cromatico, un’estetica dei colori. Quindi è normale pensare che nel momento in cui alcuni capolavori del passato sono stati rimaneggiati e gli è stata data una nuova “veste a colori”, molti registi e parte della critica e del pubblico abbiano storto il naso.
Ma per arrivare a quel punto, le tecnologie cinematografiche ne hanno dovuta fare di strada. Torniamo quindi alla nostra pellicola, ancora in bianco e nero, e, lasciando per ora da parte il digitale, cerchiamo di capire quelli che sono stati i passi che hanno permesso di arrivare alla pellicola a colori. E per farlo, abbiamo bisogno di capire, anche se solo superficialmente, come è fatta materialmente una pellicola. In questa occasione non ci interessa tanto il processo chimico che la rende sensibile alla luce, quanto la “stratificazione” vera e propria di essa, perché è su questo aspetto che si è andati ad agire per arrivare alla tanto agognata pellicola a colori.
In questo, come in molti altri aspetti della cinematografia, la fotografia ha fatto da apripista. Le prime fotografie a colori, infatti, sono almeno di qualche decennio precedenti al cinema a colori e sono state in realtà la conseguenza di una importantissima e rivoluzionaria scoperta in campo fisico. Non è un caso infatti che al matematico James Clark Maxwell si deva sia la scoperta della natura a onda della luce, sia l’ideazione del principio di fotografia a colori con il sistema additivo RGB. Senza entrare nei meandri della fisica, basti sapere che ogni colore percepito dall’occhio umano è il risultato della luce riflessa dall’oggetto a cui questo colore appartiene, ed è quindi identificato da una certa lunghezza d’onda. La correlazione diretta tra luce, lunghezza d’onda e colore è quello che ha permesso a Maxwell prima, e a tutta la cinematografia analogica poi, di acquisire immagini a colori.
Il primo tentativo che fu fatto per trasferire questo procedimento anche al cinema fu quello di riprodurre i fotogrammi passandoli attraverso un filtro verde alternato a un filtro rosso, in modo da dare allo spettatore una combinazione dei due colori grazie al rapido susseguirsi dei fotogrammi. Ma si trattava di un procedimento dispendioso e altamente tecnico da maneggiare, e per questo non resistette all’avvento del technicolor.
La Technicolor, che già dal 1916 faceva esperimenti per registrare direttamente le immagini a colori, trasferì quello che era un processo di post produzione direttamente nella pellicola, inserendo nello strato dell’emulsione un livello sensibile al colore. Inizialmente, il processo prevedeva l’uso di tre diverse pellicole, ognuna delle quali sensibile a una diversa frequenza di colore. Un sistema sicuramente costoso e complicato che verrà poi perfezionato negli anni fino ad arrivare a unire i tre strati sensibili al rosso, al verde e al blu in un’unica pellicola. Ma il passo era fatto, erano gli anni ’30 ed era ufficialmente iniziata l’epoca del cinema a colori. Con questa nuova tecnologia vennero girati grandi classici come Gone with the Wind (Via col vento, 1939) e The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939).
Per decenni la novità del colore ha riempito gli schermi, grandi e piccoli. Il bianco e nero era considerato un residuo di un’epoca superata, legato sì a grandi titoli ma anche a un preciso momento della Settima Arte, a un modo di fare cinema ormai conclusosi. La ventata di nuovo portata dal colore era troppo grande per esaurirsi nel corso di pochi anni, e la corsa verso il digitale ha soddisfatto l’animo inquieto dell’uomo che anela sempre a raggiungere un nuovo obbiettivo, conquistare una nuova vetta.
Ma, come è successo per la pellicola, una volta esplorate tutte le possibilità del colore, si è cominciato a riscoprire le potenzialità espressive di quello che prima era visto solo come un limite tecnico. È così che, a partire più o meno dalla fine del vecchio millennio, molti registi hanno scelto di girare nuovamente in bianco e nero. Ogni caso e ogni scelta ha avuto una storia a sé stante, una motivazione che spesso si lega con il significato più intrinseco del film oppure che ha alla base delle ragioni puramente estetiche.
Prima però è bene soffermarsi ad esaminare le potenzialità espressive del bianco e nero rispetto al colore, tenendo però ben presente che anche quelle che sembrano ormai costatazioni oggettive e sempre valide possono in realtà mutare di significato e di risultato se utilizzate con un determinato scopo, in una determinata ottica e per un determinato film.
Ad esempio, una delle prime caratteristiche che vengono in mente pensando al bianco e nero è che il suo utilizzo conferisce un’aura più poetica e melanconica alla storia narrata. Questo spesso avviene perché il bianco e nero ci rimanda appunto a epoche passate, e tutto ciò che è lontano, come ci insegna Leopardi, è sempre fonte di quella nostalgia che ci fa apparire tutto più bello e desiderabile. Ma ovviamente ogni verità prevede il suo contrario, e la sensazione veicolata dal bianco e nero, spesso, è anche quella di una storia senza tempo, in cui è possibile evocare contemporaneamente passato e futuro.
E inoltre la gamma di stati d’animo che la pellicola in bianco e nero può trasmettere non si esaurisce alla malinconica nostalgia. Possiamo pensare alla pellicola come alla tastiera di un pianoforte, alle cui sonorità si associa spesso un sentimento da “chiaro di luna”, pensoso e malinconico. In realtà, la potenzialità che ha reso questo strumento tanto caro ai romantici è proprio la sua capacità di esprimere una vasta gamma di sentimenti intensi, grazie appunto alla possibilità di dosare il “piano” e il “forte”. Il bianco e nero ha appunto questa capacità, di bilanciare i contrasti e comunicare tante sfumature di emozioni differenti.
Quello a cui non si pensa spesso infatti è che la pellicola in bianco e nero non ha solo questi due colori, che rappresentano l’estremo della presenza o assenza di luce. Quella che vediamo sullo schermo è una scala di grigi, più o meno contrastata, con tonalità più o meno forti. Sicuramente gli elementi che più risaltano in questo contesto sono la forma e i contorni dei soggetti, e quindi l’occhio del fotografo/DOP si focalizza sui pattern e sui volumi della scena per creare una composizione interessante e significativa, dal momento che manca il colore a creare rimandi o armonie all’interno dell’immagine.
Proprio quest’assenza del colore permette ai soggetti e alle loro azioni di diventare i soli protagonisti della scena, eliminando quindi qualsiasi possibile fonte di distrazione che distolga lo spettatore da quelli che non siano i movimenti e le vicende che costituiscono la vera essenza della storia. Per questo il bianco e nero è stato per molto tempo il formato prediletto per realizzare documentari, soprattutto di stampo sociale e storico, e delle forme cinematografiche che si avvicinassero a questo scopo.
Con la sua capacità di distanziarsi dalla realtà, l’assenza del colore permette di non creare quell’empatia che spesso si genera (anzi che è ricercata) durante la visione di un film, e quindi di seguire le vicende in modo più analitico e probabilmente con meno possibilità di interpretazione rispetto al messaggio che il regista vuole veicolare. Il bianco e nero permette infatti di muoversi in un quadro visivo in cui gli elementi da controllare sono decisamente inferiori rispetto a una scena a colori che, mancando dispensano il regista dal dover gestire, e di conseguenza scegliere, i possibili significati che potrebbero evocare.
Ma di nuovo, è vero tutto e il suo contrario, perché se da una parte il bianco e nero permette un distacco documentaristico, è anche vero che adoperarlo oggi significa scegliere di rimanere distaccati dalla realtà, di aggiungere alle immagini un certo livello di astrazione, di vaghezza che apre le porte a disparati significati filosofici.
Per tornare al dilemma che ha suscitato questa riflessione, ossia come sarebbero stati i grandi opere del passato se anziché in bianco e nero fossero stati a colori, il punto di arrivo di questo percorso sembra suggerirci che no, questi film non sarebbero stati gli stessi. Non avrebbero avuto le stesse inquadrature, le stesse immagini, la stessa atmosfera. Come ogni fotografo in fondo sa, la scelta del supporto cambia drasticamente l’approccio al lavoro, e pensare un film in bianco e nero non è lo stesso che pensare un film a colori, tanto meno realizzarlo.
Ora però andiamo a vedere come queste informazioni si sono declinate nei grandi film del passato e come sono state tradotte e riutilizzate per i grandi film del presente che hanno scelto di optare per il bianco e nero.
Un salto nel passato
Parlando di documentari, uno dei più suggestivi per scenari e lontananza nel tempo e nello spazio è Nanook of the North (Nanook l’eschimese, 1922), che segue la quotidiana fatica della famiglia eschimese di Nanook. Nelle remote e ovviamente freddissime regioni dell’artico canadese, il cineasta Robert J. Flaherty racconta, con interesse quasi antropologico e etnografico, le abitudini di Nanook, della moglie e dei loro figli: come si costruiscono un rifugio per la notte, come si spostano tra le acque dei freddi mari del nord, come si costruiscono una canoa di pelli di foca, come i bambini riescono a giocare nelle immense distese di ghiaccio.
Si tratta di uno dei primi documentari cinematografici, e possiamo solo immaginare le difficoltà tecniche del girare una pellicola in condizioni così estreme, difficoltà che aggiungono fascino e ammirazione per questa testimonianza straordinaria. Si potrebbe forse pensare che sia un peccato che un tale attestato sia privo dei colori originali di quelle terre, ma in realtà il vero protagonista di questo documentario non è il paesaggio quanto l’uomo che interagisce con esso, e la contrapposizione tra le distese immense di bianco dei ghiacci e queste sparute figure nere che vi si muovono attraverso risalta proprio grazie all’uso del bianco e nero.
Del tutto opposto è il caso di Frankenstein, altro grande classico del 1931, in cui a essere rappresentato non è un documento di realtà ma la trasposizione di un romanzo gotico. E proprio grazie al bianco e nero, che ha esasperato i contrasti, che è stato possibile ricreare l’atmosfera di uno degli emblemi fondamentali del romanzo gotico e horror di cui questo personaggio è simbolo. Il gotico trova il suo significato più profondo proprio nel contrasto tra luci e ombre, tra le parti migliori e quelle peggiori dell’animo umano. Le immagini del Frankenstein di James Whale incarnano perfettamente questa doppia natura che abita il mondo e la mente, e se forse il colore avrebbe potenziato l’elemento horror, il bianco e nero fa sicuramente guadagnare in suggestione, permettendo a queste immagini di infestare, ancora oggi, la memoria collettiva.
Ancora diverso è il caso di Quarto potere (1941), il capolavoro che sancì il definitivo ingresso di Orson Welles nell’Olimpo del cinema. Il titolo nella sua traduzione in italiano, a differenza di tante altre occasioni, è ancora più efficace di quello originale, Citizen Kane. Il “quarto potere” fa infatti riferimento alla stampa e ai media, alla loro capacità di influenzare enormemente la vita individuale e collettiva. Un film quasi di denuncia, quanto meno di testimonianza, per l’epoca e un importante documento storico per il mondo di oggi in cui i giornali e la carta stampata sembrano non avere più la capacità - pericolosa sì, ma anche potente strumento di democrazia - di direzionare la società. In quest’ottica, il valore del bianco e nero aggiunge un livello in più al film, in quanto è in grado di evocare l’immagine delle pagine dei quotidiani che tutt’ora sono stampati esclusivamente in bianco e nero. La saturazione del nero e il forte contrasto delle immagini della pellicola di Quarto Potere richiamano perfettamente la densità dell’inchiostro sulla sottile carta di giornale.
Oltre il Technicolor
Già nel periodo in cui il bianco e nero era l’unica scelta il suo utilizzo ha permesso, più o meno volontariamente, di aggiungere delle potenzialità espressive ai film. Ad oggi girare in bianco e nero è diventata una volontà del regista, e quindi è praticamente obbligatorio per lo spettatore chiedersi il “perché” di questa decisione e che cosa questo elemento aggiunga alla narrazione.
Due casi emblematici che tornano subito alla mente sono La haine (L’odio, 1995) di Mathieu Kassovitz e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg. Se Schindler’s List ha regalato alla Storia del cinema l’ormai conclamata sequenza della bambina con il cappottino rosso, La Haine si è invece inserito, e ha in parte coniato, l’immaginario del linguaggio urban di cui il bianco e nero è la gamma cromatica prediletta. A quanto pare, però, la scelta di eliminare il colore venne presa da Kassovitz solo per “camuffare” la bruttezza dei palazzi di Chanteloup-les-Vignes, piccola cittadina francese dove il film venne girato. Si tratterebbe quindi di una motivazione legata ad un puro bisogno estetico, che si è rivelata però vincente, forse e soprattutto perché così fortemente in sintonia con i temi trattati.
In Schindler’s list, invece, l’assenza del colore rappresenta una scelta simbolica, in cui il rosso evoca l’unica macchia di colore e speranza in un’opera che si avvale del bianco e nero per riprodurre il grigiore dei tempi descritti.
In questi due lungometraggi si possono riassumere le ragioni dietro alla scelta di optatare per una fotografia in bianco e nero piuttosto che a colori anche dopo l’avvento del technicolor, ma come dicevamo prima e come gli esempi precedentamente citati hanno già suggerito, ogni film è un caso a sé e merita un’attenzione specifica che possa aggiungere sfumature di significato tra una decisione puramente pratica ed estetica e un’intenzione più simbolica.
Lo dimostra l’ultimo esempio in ordine temporale: il celebratissimo C’è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi. Qua il bianco e nero porta con sé un chiaro richiamo al cinema neorealista, genere e momento storico in cui le donne avevano poca o nessuna voce. Richiamo che viene superato dall’astrattezza di alcune scene metaforiche - come quella della violenza/lotta tra marito e moglie - che vanno a creare un nuovo spazio, un nuovo tipo di cinema che non sia solo nostalgica rievocazione, ma che veicoli un messaggio di rivalsa, la possibilità di dire qualcosa in modo nuovo e da una voce nuova, quella di una donna.
Ancora, un discorso a parte lo meritano i film di animazione e quelli in stop motion. Esemplari sono i casi di Frankenweenie (2012), capolavoro in stop motion che porta la firma inconfondibile di Tim Burton, e Persepolis (2007), un film d’animazione, tratto dall’omonima graphic novel autobiografica dell’autrice e regista Marjane Satrapi, che racconta di una giovane donna che vive le vicende della rivoluzione iraniana del 1978. Entrambi i lavori sono realizzati interamente in bianco e nero, con la peculiarità che in questo caso le immagini nascono già così, non c’è nessuno strato di colore “reale” che viene filtrato dalla macchina.
Le statuette di Frankenweenie infatti sono già realizzate in bianco e nero, in modo da ispirarsi il più direttamente possibile sia all’omonimo cortometraggio che racconta la medesima storia, sia ovviamente al primo Frankenstein. I disegni di Persepolis, invece, attingono direttamente dalle tavole del graphic novel, che sono anch’esse in bianco e nero, forse per lo stesso discorso che riguarda i documentari: ossia per mantenere un’allure più affidabile possibile e non distrarre lo spettatore con i colori.
Una fusione tra colore e bianco e nero
Un caso più particolare sono invece quei film in cui le scene a colori e quelle in bianco e nero si alternano. In questi casi, l’intento simbolico è indubbio e quindi l’utilizzo di un supporto piuttosto che l’altro implica un significato su cui lo spettatore è naturalmente portato a interrogarsi.
Prendiamo il caso di Memento (2000), cult della filmografia di Christopher Nolan, dove si mostrano due piani temporali diversi il cui scorrimento è mantenuto parallelo durante tutta la durata del film proprio grazie all’alternarsi del bianco e nero e del colore.
Un altro esempio nostrano è la docufiction Cesare deve morire (2012) dei fratelli Taviani, che racconta la messa in scena in un carcere italiano del Giulio Cesare shakespeariano. Qui il bianco e nero viene utilizzato per tutta la parte della narrazione in cui la vita dei carcerati si trasforma grazie allo studio del copione, in cui le giornate si spostano su un piano di unione tra realtà e finzione, contrapposto invece alle scene iniziali e finali in cui dalla finzione scenica si torna alla normale quotidianità, senza la magia del teatro in grando di abbattere le mura del carcere e della personalità per creare una nuova esistenza in cui attore e personaggio si fondono.
I grandi titoli di film in bianco e nero del presente e del passato ovviamente non si esauriscono con questa breve rassegna - mancano infatti all’appello film come Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo,1957), Otto e ½ (1963), The Elephant Man (1980), e molti altri - e ogni esempio porta con sé un nuovo punto di vista, una nuova possibile interpretazione di quello che il bianco e nero ha rappresentato e rappresenta ad oggi per il mondo del cinema. Farne un elenco completo sarebbe impossibile e forse neanche particolarmente utile, non quanto solleticare semplicemente in ognuno le proprie personalissime riflessioni sull’utilizzo e il significato di questo particolare “strumento artistico” nelle mani dei cineasti.
TR-101
31.05.2024
Mentre ci si immerge nelle rocambolesche vicende di un capolavoro come À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro, 1960), è inevitabile che baleni nella nostra testa una suggestione che difficilmente ci abbandonerà: come sarebbero state quelle immagini se fossero state a colori? E soprattutto, quelle immagini, in realtà, erano a colori. Jean-Paul Belmondo aveva una carnagione rosea, non in scala di grigi. Eppure sembra inconcepibile immaginare quelle scene in maniera differente, quasi quanto non riusciamo a figurarci le statue greche decorate con i colori dalle tinte estremamente vivaci che le ricoprivano nell’antichità, ben lontane dal bianco marmoreo a cui siamo abituati oggi.
Il cinema dal bianco e nero al colore
Il viaggio del bianco e nero verso il colore è stato un’ascesa vertiginosa: nel giro di pochi anni la pellicola, come tutte le tecnologie cinematografiche, ha fatto passi da giganti e in meno di sessant’anni si è passati dalla prima proiezione cinematografica dei fratelli Lumière - l’uscita di operai e operaie di una fabbrica del 1895, senza suono e con poca fluidità - all’aggiunta del sonoro - alla fine degli anni 20 del nuovo millennio - fino ad arrivare, finalmente, al primo film girato in technicolor - l’azienda che è diventata ormai il nome per antonomasia della pellicola a colori.
Ma nel mezzo di queste tre grandi tappe sono stati fatti tanti piccoli passi, ognuno di loro affascinante e importantissimo per l’apporto dato al progresso del cinema e per i prodotti artistici che ha regalato e che forse devono parte del loro fascino proprio a questa aura di antico.
Lo spirito dell’uomo, si sa, è insaziabile, e se tante volte questo è stato causa della sua tristezza, di quella che Orazio chiamava “l’insoddisfatta condizione umana”, altrettante volte è stato anche la ragione per cui tante conquiste sono state portate a termine. Infatti, appena inventato il magico strumento del cinema, fatto di pellicole e proiettori, l’umanità poteva scegliere di essere soddisfatta e crogiolarsi nella magia di questo prodigio appena conquistato. E invece no! Il progresso, anziché far impigrire gli animi, ha la magnifica tendenza di stimolare sempre nuove invenzioni, nuove conquiste, nuove sfide. E così, trovandosi di fronte ai film muti e in bianco e nero, gli spiriti dei cinefili del primo novecento hanno deciso che non bastava, che non si sarebbero accontentati di un risultato già di per sé straordinario e stupefacente, ma che si sarebbero adoperati per avvicinare sempre più la fantasia alla realtà.
Si iniziò con l’adottare nel cinema le stesse soluzioni che si erano trovate per la fotografia, facendo procedere queste due discipline di pari passo. Ossia, la prima soluzione fu quella di lavorare su ogni singolo fotogramma per colorarlo, ma anche tagliare e incollare tra loro pezzi di pellicola in modo da dare ai film i primi “effetti speciali”. Il più famoso di questi “scienziati della pellicola” è sicuramente George Melies, il leggendario autore de Le voyage dans la lune (Viaggio nella luna, 1902), la cui fantasia e ingegno creativo sono raccontati anche nel più recente Hugo Cabret (2011), una commedia di Martin Scorsese in cui il regista esprime il suo amore e la sua fascinazione per il mondo del cinema, svelando anche al pubblico i trucchi del mestiere dei primi cineasti.
Di questi processi il più evidente, e anche il più diffuso, era quello della colorizzazione, che avveniva già prima dello scoccare del nuovo secolo. Il primo film di George Méliès che è stato colorato dalla sua collaboratrice Elisabeth Thuillier, che ne dipinse a mano i singoli fotogrammi, è stato Le manoir du diable nel lontano 1896. Nello stesso anno nasce la Pathé Frères, l’azienda che si è occupata per anni della colorazione dei film, prima avvalendosi della mano d’opera di centinaia di operai e poi con l’uso di macchinari appositi. Il fatto che si investisse tempo e denaro nella creazione di tecnologie mirate a questa pratica ci dà una chiara prospettiva sull’importanza che il colore ricopriva già agli albori del cinema. Sembra infatti che il colore avesse molta più importanza per la resa della verosimiglianza, visto che per lo sviluppo del sonoro bisognerà invece aspettare ancora qualche anno. Infatti, il primo film parlato con un audio che non fosse solo una colonna sonora riprodotta dall’orchestra live in sala, arriverà solo alla fine degli anni ’20 grazie al vitaphone, una speciale tecnologia che permetteva di riprodurre insieme la pellicola e il vinile su cui era registrata la traccia audio.
Lo sviluppo di tutte queste invenzioni portò la colorazione alla sua forma digitale, e già negli ultimi decenni del ‘900 si assistì al tentativo di dare colore ai grandi classici del bianco e nero. Un’azione che generò non poche controversie: ci si interrogava, allora come oggi, se il colore di un’immagine fosse parte di una scelta artistica piuttosto che una semplice specificità tecnica.
Anche la pellicola in bianco e nero infatti, come quella a colori e il digitale poi, presenta delle precise caratteristiche che possono essere riassunte, a grandi linee, nella qualità del contrasto, nel bilanciamento del bianco tarato sulla sensibilità a uno specifico tipo di luce, nelle gradazioni tonali e nei filtri caldi o freddi usati durante lo sviluppo della pellicola. Chi scatta fotografie o registra video dovrà essere inevitabilmente consapevole che anche le scelte compositive cambieranno se si pensa in bianco e nero piuttosto che a colori. Nel primo caso si lavora sui contrasti, sulle linee e sui volumi, nel secondo cercando anche un bilanciamento cromatico, un’estetica dei colori. Quindi è normale pensare che nel momento in cui alcuni capolavori del passato sono stati rimaneggiati e gli è stata data una nuova “veste a colori”, molti registi e parte della critica e del pubblico abbiano storto il naso.
Ma per arrivare a quel punto, le tecnologie cinematografiche ne hanno dovuta fare di strada. Torniamo quindi alla nostra pellicola, ancora in bianco e nero, e, lasciando per ora da parte il digitale, cerchiamo di capire quelli che sono stati i passi che hanno permesso di arrivare alla pellicola a colori. E per farlo, abbiamo bisogno di capire, anche se solo superficialmente, come è fatta materialmente una pellicola. In questa occasione non ci interessa tanto il processo chimico che la rende sensibile alla luce, quanto la “stratificazione” vera e propria di essa, perché è su questo aspetto che si è andati ad agire per arrivare alla tanto agognata pellicola a colori.
In questo, come in molti altri aspetti della cinematografia, la fotografia ha fatto da apripista. Le prime fotografie a colori, infatti, sono almeno di qualche decennio precedenti al cinema a colori e sono state in realtà la conseguenza di una importantissima e rivoluzionaria scoperta in campo fisico. Non è un caso infatti che al matematico James Clark Maxwell si deva sia la scoperta della natura a onda della luce, sia l’ideazione del principio di fotografia a colori con il sistema additivo RGB. Senza entrare nei meandri della fisica, basti sapere che ogni colore percepito dall’occhio umano è il risultato della luce riflessa dall’oggetto a cui questo colore appartiene, ed è quindi identificato da una certa lunghezza d’onda. La correlazione diretta tra luce, lunghezza d’onda e colore è quello che ha permesso a Maxwell prima, e a tutta la cinematografia analogica poi, di acquisire immagini a colori.
Il primo tentativo che fu fatto per trasferire questo procedimento anche al cinema fu quello di riprodurre i fotogrammi passandoli attraverso un filtro verde alternato a un filtro rosso, in modo da dare allo spettatore una combinazione dei due colori grazie al rapido susseguirsi dei fotogrammi. Ma si trattava di un procedimento dispendioso e altamente tecnico da maneggiare, e per questo non resistette all’avvento del technicolor.
La Technicolor, che già dal 1916 faceva esperimenti per registrare direttamente le immagini a colori, trasferì quello che era un processo di post produzione direttamente nella pellicola, inserendo nello strato dell’emulsione un livello sensibile al colore. Inizialmente, il processo prevedeva l’uso di tre diverse pellicole, ognuna delle quali sensibile a una diversa frequenza di colore. Un sistema sicuramente costoso e complicato che verrà poi perfezionato negli anni fino ad arrivare a unire i tre strati sensibili al rosso, al verde e al blu in un’unica pellicola. Ma il passo era fatto, erano gli anni ’30 ed era ufficialmente iniziata l’epoca del cinema a colori. Con questa nuova tecnologia vennero girati grandi classici come Gone with the Wind (Via col vento, 1939) e The Wizard of Oz (Il mago di Oz, 1939).
Per decenni la novità del colore ha riempito gli schermi, grandi e piccoli. Il bianco e nero era considerato un residuo di un’epoca superata, legato sì a grandi titoli ma anche a un preciso momento della Settima Arte, a un modo di fare cinema ormai conclusosi. La ventata di nuovo portata dal colore era troppo grande per esaurirsi nel corso di pochi anni, e la corsa verso il digitale ha soddisfatto l’animo inquieto dell’uomo che anela sempre a raggiungere un nuovo obbiettivo, conquistare una nuova vetta.
Ma, come è successo per la pellicola, una volta esplorate tutte le possibilità del colore, si è cominciato a riscoprire le potenzialità espressive di quello che prima era visto solo come un limite tecnico. È così che, a partire più o meno dalla fine del vecchio millennio, molti registi hanno scelto di girare nuovamente in bianco e nero. Ogni caso e ogni scelta ha avuto una storia a sé stante, una motivazione che spesso si lega con il significato più intrinseco del film oppure che ha alla base delle ragioni puramente estetiche.
Prima però è bene soffermarsi ad esaminare le potenzialità espressive del bianco e nero rispetto al colore, tenendo però ben presente che anche quelle che sembrano ormai costatazioni oggettive e sempre valide possono in realtà mutare di significato e di risultato se utilizzate con un determinato scopo, in una determinata ottica e per un determinato film.
Ad esempio, una delle prime caratteristiche che vengono in mente pensando al bianco e nero è che il suo utilizzo conferisce un’aura più poetica e melanconica alla storia narrata. Questo spesso avviene perché il bianco e nero ci rimanda appunto a epoche passate, e tutto ciò che è lontano, come ci insegna Leopardi, è sempre fonte di quella nostalgia che ci fa apparire tutto più bello e desiderabile. Ma ovviamente ogni verità prevede il suo contrario, e la sensazione veicolata dal bianco e nero, spesso, è anche quella di una storia senza tempo, in cui è possibile evocare contemporaneamente passato e futuro.
E inoltre la gamma di stati d’animo che la pellicola in bianco e nero può trasmettere non si esaurisce alla malinconica nostalgia. Possiamo pensare alla pellicola come alla tastiera di un pianoforte, alle cui sonorità si associa spesso un sentimento da “chiaro di luna”, pensoso e malinconico. In realtà, la potenzialità che ha reso questo strumento tanto caro ai romantici è proprio la sua capacità di esprimere una vasta gamma di sentimenti intensi, grazie appunto alla possibilità di dosare il “piano” e il “forte”. Il bianco e nero ha appunto questa capacità, di bilanciare i contrasti e comunicare tante sfumature di emozioni differenti.
Quello a cui non si pensa spesso infatti è che la pellicola in bianco e nero non ha solo questi due colori, che rappresentano l’estremo della presenza o assenza di luce. Quella che vediamo sullo schermo è una scala di grigi, più o meno contrastata, con tonalità più o meno forti. Sicuramente gli elementi che più risaltano in questo contesto sono la forma e i contorni dei soggetti, e quindi l’occhio del fotografo/DOP si focalizza sui pattern e sui volumi della scena per creare una composizione interessante e significativa, dal momento che manca il colore a creare rimandi o armonie all’interno dell’immagine.
Proprio quest’assenza del colore permette ai soggetti e alle loro azioni di diventare i soli protagonisti della scena, eliminando quindi qualsiasi possibile fonte di distrazione che distolga lo spettatore da quelli che non siano i movimenti e le vicende che costituiscono la vera essenza della storia. Per questo il bianco e nero è stato per molto tempo il formato prediletto per realizzare documentari, soprattutto di stampo sociale e storico, e delle forme cinematografiche che si avvicinassero a questo scopo.
Con la sua capacità di distanziarsi dalla realtà, l’assenza del colore permette di non creare quell’empatia che spesso si genera (anzi che è ricercata) durante la visione di un film, e quindi di seguire le vicende in modo più analitico e probabilmente con meno possibilità di interpretazione rispetto al messaggio che il regista vuole veicolare. Il bianco e nero permette infatti di muoversi in un quadro visivo in cui gli elementi da controllare sono decisamente inferiori rispetto a una scena a colori che, mancando dispensano il regista dal dover gestire, e di conseguenza scegliere, i possibili significati che potrebbero evocare.
Ma di nuovo, è vero tutto e il suo contrario, perché se da una parte il bianco e nero permette un distacco documentaristico, è anche vero che adoperarlo oggi significa scegliere di rimanere distaccati dalla realtà, di aggiungere alle immagini un certo livello di astrazione, di vaghezza che apre le porte a disparati significati filosofici.
Per tornare al dilemma che ha suscitato questa riflessione, ossia come sarebbero stati i grandi opere del passato se anziché in bianco e nero fossero stati a colori, il punto di arrivo di questo percorso sembra suggerirci che no, questi film non sarebbero stati gli stessi. Non avrebbero avuto le stesse inquadrature, le stesse immagini, la stessa atmosfera. Come ogni fotografo in fondo sa, la scelta del supporto cambia drasticamente l’approccio al lavoro, e pensare un film in bianco e nero non è lo stesso che pensare un film a colori, tanto meno realizzarlo.
Ora però andiamo a vedere come queste informazioni si sono declinate nei grandi film del passato e come sono state tradotte e riutilizzate per i grandi film del presente che hanno scelto di optare per il bianco e nero.
Un salto nel passato
Parlando di documentari, uno dei più suggestivi per scenari e lontananza nel tempo e nello spazio è Nanook of the North (Nanook l’eschimese, 1922), che segue la quotidiana fatica della famiglia eschimese di Nanook. Nelle remote e ovviamente freddissime regioni dell’artico canadese, il cineasta Robert J. Flaherty racconta, con interesse quasi antropologico e etnografico, le abitudini di Nanook, della moglie e dei loro figli: come si costruiscono un rifugio per la notte, come si spostano tra le acque dei freddi mari del nord, come si costruiscono una canoa di pelli di foca, come i bambini riescono a giocare nelle immense distese di ghiaccio.
Si tratta di uno dei primi documentari cinematografici, e possiamo solo immaginare le difficoltà tecniche del girare una pellicola in condizioni così estreme, difficoltà che aggiungono fascino e ammirazione per questa testimonianza straordinaria. Si potrebbe forse pensare che sia un peccato che un tale attestato sia privo dei colori originali di quelle terre, ma in realtà il vero protagonista di questo documentario non è il paesaggio quanto l’uomo che interagisce con esso, e la contrapposizione tra le distese immense di bianco dei ghiacci e queste sparute figure nere che vi si muovono attraverso risalta proprio grazie all’uso del bianco e nero.
Del tutto opposto è il caso di Frankenstein, altro grande classico del 1931, in cui a essere rappresentato non è un documento di realtà ma la trasposizione di un romanzo gotico. E proprio grazie al bianco e nero, che ha esasperato i contrasti, che è stato possibile ricreare l’atmosfera di uno degli emblemi fondamentali del romanzo gotico e horror di cui questo personaggio è simbolo. Il gotico trova il suo significato più profondo proprio nel contrasto tra luci e ombre, tra le parti migliori e quelle peggiori dell’animo umano. Le immagini del Frankenstein di James Whale incarnano perfettamente questa doppia natura che abita il mondo e la mente, e se forse il colore avrebbe potenziato l’elemento horror, il bianco e nero fa sicuramente guadagnare in suggestione, permettendo a queste immagini di infestare, ancora oggi, la memoria collettiva.
Ancora diverso è il caso di Quarto potere (1941), il capolavoro che sancì il definitivo ingresso di Orson Welles nell’Olimpo del cinema. Il titolo nella sua traduzione in italiano, a differenza di tante altre occasioni, è ancora più efficace di quello originale, Citizen Kane. Il “quarto potere” fa infatti riferimento alla stampa e ai media, alla loro capacità di influenzare enormemente la vita individuale e collettiva. Un film quasi di denuncia, quanto meno di testimonianza, per l’epoca e un importante documento storico per il mondo di oggi in cui i giornali e la carta stampata sembrano non avere più la capacità - pericolosa sì, ma anche potente strumento di democrazia - di direzionare la società. In quest’ottica, il valore del bianco e nero aggiunge un livello in più al film, in quanto è in grado di evocare l’immagine delle pagine dei quotidiani che tutt’ora sono stampati esclusivamente in bianco e nero. La saturazione del nero e il forte contrasto delle immagini della pellicola di Quarto Potere richiamano perfettamente la densità dell’inchiostro sulla sottile carta di giornale.
Oltre il Technicolor
Già nel periodo in cui il bianco e nero era l’unica scelta il suo utilizzo ha permesso, più o meno volontariamente, di aggiungere delle potenzialità espressive ai film. Ad oggi girare in bianco e nero è diventata una volontà del regista, e quindi è praticamente obbligatorio per lo spettatore chiedersi il “perché” di questa decisione e che cosa questo elemento aggiunga alla narrazione.
Due casi emblematici che tornano subito alla mente sono La haine (L’odio, 1995) di Mathieu Kassovitz e Schindler’s List (1993) di Steven Spielberg. Se Schindler’s List ha regalato alla Storia del cinema l’ormai conclamata sequenza della bambina con il cappottino rosso, La Haine si è invece inserito, e ha in parte coniato, l’immaginario del linguaggio urban di cui il bianco e nero è la gamma cromatica prediletta. A quanto pare, però, la scelta di eliminare il colore venne presa da Kassovitz solo per “camuffare” la bruttezza dei palazzi di Chanteloup-les-Vignes, piccola cittadina francese dove il film venne girato. Si tratterebbe quindi di una motivazione legata ad un puro bisogno estetico, che si è rivelata però vincente, forse e soprattutto perché così fortemente in sintonia con i temi trattati.
In Schindler’s list, invece, l’assenza del colore rappresenta una scelta simbolica, in cui il rosso evoca l’unica macchia di colore e speranza in un’opera che si avvale del bianco e nero per riprodurre il grigiore dei tempi descritti.
In questi due lungometraggi si possono riassumere le ragioni dietro alla scelta di optatare per una fotografia in bianco e nero piuttosto che a colori anche dopo l’avvento del technicolor, ma come dicevamo prima e come gli esempi precedentamente citati hanno già suggerito, ogni film è un caso a sé e merita un’attenzione specifica che possa aggiungere sfumature di significato tra una decisione puramente pratica ed estetica e un’intenzione più simbolica.
Lo dimostra l’ultimo esempio in ordine temporale: il celebratissimo C’è ancora domani (2023) di Paola Cortellesi. Qua il bianco e nero porta con sé un chiaro richiamo al cinema neorealista, genere e momento storico in cui le donne avevano poca o nessuna voce. Richiamo che viene superato dall’astrattezza di alcune scene metaforiche - come quella della violenza/lotta tra marito e moglie - che vanno a creare un nuovo spazio, un nuovo tipo di cinema che non sia solo nostalgica rievocazione, ma che veicoli un messaggio di rivalsa, la possibilità di dire qualcosa in modo nuovo e da una voce nuova, quella di una donna.
Ancora, un discorso a parte lo meritano i film di animazione e quelli in stop motion. Esemplari sono i casi di Frankenweenie (2012), capolavoro in stop motion che porta la firma inconfondibile di Tim Burton, e Persepolis (2007), un film d’animazione, tratto dall’omonima graphic novel autobiografica dell’autrice e regista Marjane Satrapi, che racconta di una giovane donna che vive le vicende della rivoluzione iraniana del 1978. Entrambi i lavori sono realizzati interamente in bianco e nero, con la peculiarità che in questo caso le immagini nascono già così, non c’è nessuno strato di colore “reale” che viene filtrato dalla macchina.
Le statuette di Frankenweenie infatti sono già realizzate in bianco e nero, in modo da ispirarsi il più direttamente possibile sia all’omonimo cortometraggio che racconta la medesima storia, sia ovviamente al primo Frankenstein. I disegni di Persepolis, invece, attingono direttamente dalle tavole del graphic novel, che sono anch’esse in bianco e nero, forse per lo stesso discorso che riguarda i documentari: ossia per mantenere un’allure più affidabile possibile e non distrarre lo spettatore con i colori.
Una fusione tra colore e bianco e nero
Un caso più particolare sono invece quei film in cui le scene a colori e quelle in bianco e nero si alternano. In questi casi, l’intento simbolico è indubbio e quindi l’utilizzo di un supporto piuttosto che l’altro implica un significato su cui lo spettatore è naturalmente portato a interrogarsi.
Prendiamo il caso di Memento (2000), cult della filmografia di Christopher Nolan, dove si mostrano due piani temporali diversi il cui scorrimento è mantenuto parallelo durante tutta la durata del film proprio grazie all’alternarsi del bianco e nero e del colore.
Un altro esempio nostrano è la docufiction Cesare deve morire (2012) dei fratelli Taviani, che racconta la messa in scena in un carcere italiano del Giulio Cesare shakespeariano. Qui il bianco e nero viene utilizzato per tutta la parte della narrazione in cui la vita dei carcerati si trasforma grazie allo studio del copione, in cui le giornate si spostano su un piano di unione tra realtà e finzione, contrapposto invece alle scene iniziali e finali in cui dalla finzione scenica si torna alla normale quotidianità, senza la magia del teatro in grando di abbattere le mura del carcere e della personalità per creare una nuova esistenza in cui attore e personaggio si fondono.
I grandi titoli di film in bianco e nero del presente e del passato ovviamente non si esauriscono con questa breve rassegna - mancano infatti all’appello film come Det sjunde inseglet (Il settimo sigillo,1957), Otto e ½ (1963), The Elephant Man (1980), e molti altri - e ogni esempio porta con sé un nuovo punto di vista, una nuova possibile interpretazione di quello che il bianco e nero ha rappresentato e rappresenta ad oggi per il mondo del cinema. Farne un elenco completo sarebbe impossibile e forse neanche particolarmente utile, non quanto solleticare semplicemente in ognuno le proprie personalissime riflessioni sull’utilizzo e il significato di questo particolare “strumento artistico” nelle mani dei cineasti.