INT-61
20.03.2024
Il cinema lettone non è il più famoso sullo scenario internazionale, ma non per questo è meno interessante di altre realtà europee. Dāvis Sīmanis è di certo uno dei cineasti più conosciuti della cinematografia lettone, le sue storie si focalizzano spesso sul primo Novecento, film come The Year before the War (2021) o The Mover (2018) sono esemplificativi in questo senso. Anche Maria’s Silence, il suo sesto lungometraggio vincitore del premio della giuria ecumenica nella categoria Forum alla Berlinale 2024, si muove su questa linea tematica. La pellicola, girata in bianco e nero, si inserisce in una consistente tradizione est europea tesa a rappresentare gli orrori dell’era sovietica. La storia di Maria’s Silence ruota attorno alle vicende di Maria Leiko, attrice lettone di fama internazionale che lavorò nel cinema muto tedesco della Germania degli anni ’20 e che, alla fine degli anni ’30, tornò in Unione Sovietica durante il periodo delle purghe staliniane operate dalla NKVD.
Abbiamo intervistato Dāvis Sīmanis, che ci ha parlato del perché di determinate scelte estetiche all’interno del suo cinema e di cosa lo ha ispirato per il suo ultimo film.
Cosa l'ha avvicinato alla storia di Maria Leiko?
Ho conosciuto la sua vita mentre facevo ricerche per il mio film precedente. La storia di questa attrice che va nella Russia sovietica per portare via la nipote neonata, che finisce per restare nella speranza di una rinascita attoriale e che infine subisce anche delle persecuzioni, mi ha commosso, non la consideravo una storia dallo sfondo politico all’inizio. Poi abbiamo visto quel che è successo attorno a noi e la storia ha subito una evoluzione. Abbiamo compreso che era un messaggio d’allarme della Storia riguardo ai tempi odierni. Era una vicenda che aveva il potenziale per essere una lente d’ingrandimento sull’orrore del regime che ora vediamo in Russia, che ha istigato la guerra in Ucraina e che ha represso, ucciso, ed ancora oggi uccide, persone innocenti.
Questo è forse uno degli aspetti più interessanti, pur essendo un tema importante, ci sono ben pochi film sulle purghe staliniane.
Si, ci sono alcuni film più “soft” riguardo alle purghe, ma penso che la ragione sia perché c’è ancora una negazione diffusa del passato staliniano. I monumenti vengono rinnalzati e le placche commemorative rimosse da persone che rifiutano di ricordare ciò che è successo. Bisogna rimarcare in modo severo la frase “mai più”, affinchè uno Stato diventi democraticamente forte. Questo si rispecchia nel cinema, perché quasi nessun film approccia in modo diretto l’argomento, ma al contempo ci sono alcuni casi particolari, per esempio DAU Natasha (2020) di Ilya Khrzanovskij o gli altri film del progetto DAU, che riescono a mostrare la crudeltà del regime ed il suo lato più oscuro.
Vedendo Maria’s Silence, specie nella seconda metà, mi è venuto in mente proprio il progetto DAU. È stata quindi una ispirazione per il film?
Suppongo di si, forse non una vera e propria ispirazione, ma ritengo che siano film importanti. Ad essere d’ispirazione è stata invece un'altra pellicola, Przesłuchanie (Interrogation) di Ryszard Bugajski del 1982, considerato da molti come uno dei più importanti film polacchi mai fatti. Faccio dei chiari riferimenti al lungometraggio perché penso sia un capolavoro che racconta lo stesso dramma della mia protagonista. Anche se il contesto è quello della polizia segreta del regime polacco, con le persecuzioni, le torture, le mosse cruente, quello che accade nella storia è ciò che in larga scala compiono tutti i regimi repressivi.
Il film è girato in bianco e nero e si fa un largo uso della macchina da presa a mano libera. Come mai queste scelte tecniche?
Era ovvio per noi usare il bianco e nero perché, in qualche modo, lega il film all’era del muto e al cinema del periodo tra le due guerre, inoltre sapevamo che avrebbe reso l’estetica delle immagini più oscura e meno ornamentale, meno confortevole agli occhi del pubblico. Invece, la macchina da presa a mano libera è una scelta legata al metodo che utilizzavamo per le riprese, ovvero di girare ogni sequenza in take interi. In questo modo gli attori diventano una parte organica della scena, e non si preparano solo per una frase o un campo-controcampo, ma devono capire i loro movimenti, le loro azioni, le loro reazioni, i loro tempi, e tutto inizia a funzionare meglio. Questo ci permetteva, in alcuni casi, di mantenere il take unico sotto forma di piano sequenza, ma anche di creare un montaggio molto frenetico, di conflitto, alla Ėjzenštejn.
Tra l’altro, non è la prima volta che usa il bianco e nero in un film, se non sbaglio.
Si, è la seconda volta che uso il bianco e nero. In The Year before the war l’ho fatto perché a colori le inquadrature mi sembravano troppo belle, vivaci, e perdevi i personaggi nella ricchezza delle decorazioni. Fu quello il momento in cui ho deciso di optare per il bianco e nero come formato di supporto.
Altro aspetto che lega quasi tutte le sue opere è l’insistenza sul periodo storico della prima metà del Novecento, dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale. È una coincidenza o c’è un motivo particolare?
Penso che la ragione principale sia che ancora oggi viviamo le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale, che si può considerare una continuazione della Prima, dato che è stata causata dalle questioni irrisolte della Grande Guerra. Per me l’idea di un’Europa progressiva, luminosa, si è perduta con la Prima Guerra Mondiale, quando ci siamo resi conto della condizione bellicosa della natura umana e che l’umanità non è capace di vivere in pace. Forse questo è il motivo per cui mi focalizzo spesso su questo periodo, in cui l’Europa ha perso il senno. Penso che gli eventi di quel momento storico influenzino ancora il modo in cui percepiamo il mondo di oggi. Spero però di poter arrivare a fare un film ambientato nel presente o in un periodo storico precedente, il diciassettesimo secolo o ancora prima.
INT-61
20.03.2024
Il cinema lettone non è il più famoso sullo scenario internazionale, ma non per questo è meno interessante di altre realtà europee. Dāvis Sīmanis è di certo uno dei cineasti più conosciuti della cinematografia lettone, le sue storie si focalizzano spesso sul primo Novecento, film come The Year before the War (2021) o The Mover (2018) sono esemplificativi in questo senso. Anche Maria’s Silence, il suo sesto lungometraggio vincitore del premio della giuria ecumenica nella categoria Forum alla Berlinale 2024, si muove su questa linea tematica. La pellicola, girata in bianco e nero, si inserisce in una consistente tradizione est europea tesa a rappresentare gli orrori dell’era sovietica. La storia di Maria’s Silence ruota attorno alle vicende di Maria Leiko, attrice lettone di fama internazionale che lavorò nel cinema muto tedesco della Germania degli anni ’20 e che, alla fine degli anni ’30, tornò in Unione Sovietica durante il periodo delle purghe staliniane operate dalla NKVD.
Abbiamo intervistato Dāvis Sīmanis, che ci ha parlato del perché di determinate scelte estetiche all’interno del suo cinema e di cosa lo ha ispirato per il suo ultimo film.
Cosa l'ha avvicinato alla storia di Maria Leiko?
Ho conosciuto la sua vita mentre facevo ricerche per il mio film precedente. La storia di questa attrice che va nella Russia sovietica per portare via la nipote neonata, che finisce per restare nella speranza di una rinascita attoriale e che infine subisce anche delle persecuzioni, mi ha commosso, non la consideravo una storia dallo sfondo politico all’inizio. Poi abbiamo visto quel che è successo attorno a noi e la storia ha subito una evoluzione. Abbiamo compreso che era un messaggio d’allarme della Storia riguardo ai tempi odierni. Era una vicenda che aveva il potenziale per essere una lente d’ingrandimento sull’orrore del regime che ora vediamo in Russia, che ha istigato la guerra in Ucraina e che ha represso, ucciso, ed ancora oggi uccide, persone innocenti.
Questo è forse uno degli aspetti più interessanti, pur essendo un tema importante, ci sono ben pochi film sulle purghe staliniane.
Si, ci sono alcuni film più “soft” riguardo alle purghe, ma penso che la ragione sia perché c’è ancora una negazione diffusa del passato staliniano. I monumenti vengono rinnalzati e le placche commemorative rimosse da persone che rifiutano di ricordare ciò che è successo. Bisogna rimarcare in modo severo la frase “mai più”, affinchè uno Stato diventi democraticamente forte. Questo si rispecchia nel cinema, perché quasi nessun film approccia in modo diretto l’argomento, ma al contempo ci sono alcuni casi particolari, per esempio DAU Natasha (2020) di Ilya Khrzanovskij o gli altri film del progetto DAU, che riescono a mostrare la crudeltà del regime ed il suo lato più oscuro.
Vedendo Maria’s Silence, specie nella seconda metà, mi è venuto in mente proprio il progetto DAU. È stata quindi una ispirazione per il film?
Suppongo di si, forse non una vera e propria ispirazione, ma ritengo che siano film importanti. Ad essere d’ispirazione è stata invece un'altra pellicola, Przesłuchanie (Interrogation) di Ryszard Bugajski del 1982, considerato da molti come uno dei più importanti film polacchi mai fatti. Faccio dei chiari riferimenti al lungometraggio perché penso sia un capolavoro che racconta lo stesso dramma della mia protagonista. Anche se il contesto è quello della polizia segreta del regime polacco, con le persecuzioni, le torture, le mosse cruente, quello che accade nella storia è ciò che in larga scala compiono tutti i regimi repressivi.
Il film è girato in bianco e nero e si fa un largo uso della macchina da presa a mano libera. Come mai queste scelte tecniche?
Era ovvio per noi usare il bianco e nero perché, in qualche modo, lega il film all’era del muto e al cinema del periodo tra le due guerre, inoltre sapevamo che avrebbe reso l’estetica delle immagini più oscura e meno ornamentale, meno confortevole agli occhi del pubblico. Invece, la macchina da presa a mano libera è una scelta legata al metodo che utilizzavamo per le riprese, ovvero di girare ogni sequenza in take interi. In questo modo gli attori diventano una parte organica della scena, e non si preparano solo per una frase o un campo-controcampo, ma devono capire i loro movimenti, le loro azioni, le loro reazioni, i loro tempi, e tutto inizia a funzionare meglio. Questo ci permetteva, in alcuni casi, di mantenere il take unico sotto forma di piano sequenza, ma anche di creare un montaggio molto frenetico, di conflitto, alla Ėjzenštejn.
Tra l’altro, non è la prima volta che usa il bianco e nero in un film, se non sbaglio.
Si, è la seconda volta che uso il bianco e nero. In The Year before the war l’ho fatto perché a colori le inquadrature mi sembravano troppo belle, vivaci, e perdevi i personaggi nella ricchezza delle decorazioni. Fu quello il momento in cui ho deciso di optare per il bianco e nero come formato di supporto.
Altro aspetto che lega quasi tutte le sue opere è l’insistenza sul periodo storico della prima metà del Novecento, dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale. È una coincidenza o c’è un motivo particolare?
Penso che la ragione principale sia che ancora oggi viviamo le conseguenze della Seconda Guerra Mondiale, che si può considerare una continuazione della Prima, dato che è stata causata dalle questioni irrisolte della Grande Guerra. Per me l’idea di un’Europa progressiva, luminosa, si è perduta con la Prima Guerra Mondiale, quando ci siamo resi conto della condizione bellicosa della natura umana e che l’umanità non è capace di vivere in pace. Forse questo è il motivo per cui mi focalizzo spesso su questo periodo, in cui l’Europa ha perso il senno. Penso che gli eventi di quel momento storico influenzino ancora il modo in cui percepiamo il mondo di oggi. Spero però di poter arrivare a fare un film ambientato nel presente o in un periodo storico precedente, il diciassettesimo secolo o ancora prima.