INT-62
25.03.2024
Tra i titoli che ci hanno maggiormente colpito durante la passata Berlinale figura Shambhala, secondo lungometraggio del regista nepalese Min Bahadur Bham. Ambientato in un villaggio sulle alture dell’Himalaya, il film narra la storia di Pema, una donna coinvolta in una relazione poliandra che cerca di cogliere e apprezzare al meglio ciò che la vita le propone. La sua esistenza viene però sconvolta quando Tashi, uno dei suoi mariti, la abbandona poiché crede che il figlio che porta in grembo non sia suo. Pema deciderà così di mettersi alla ricerca dell’uomo per riaffermare la sua innocenza, in un viaggio che non rappresenterà soltanto un’occasione per scoprire se stessa, ma che la preparerà per raggiungere lo Shambhala, luogo di pace interiore dopo la vita terrena.
Al Festival di Berlino, abbiamo avuto il piacere di intervistare Min Bahadur Buam, che ci ha parlato del concetto di Shambhala, delle difficoltà principali nel girare il film in determinate zone geografiche, della collaborazione con gli attori non professionisti, e infine, del perché di alcune scelte stilistiche.
Vorrei cominciare questa conversazione chiedendoti come è andata la presentazione del film alla Berlinale.
È andata piuttosto bene. Ero molto nervoso perché la versione che avevamo inviato al festival, durante la fase di selezione, non era quella definitiva. Ero ancora in piena post-production e ho continuato a lavorare fino a qualche giorno prima della première, soprattutto sui sottotitoli e sul DCP (digital cinema package, n.d.r.). La versione che hai visto alla proiezione stampa era in 2K, mentre per lo screening in 4K al Berlinale Palast (dove avvengono le proiezioni dei film in competizione, n.d.r.) ho dovuto apportare diverse modifiche.
Come ti sei sentito nel portare un film del Nepal ad un festival prestigioso come quello di Berlino? Ti chiedo questo perché, negli ultimi anni, le manifestazioni cinematografiche internazionali hanno presentato nei loro programmi una maggioranza di opere che provengono solamente da determinate zone geografiche, come l’Europa o gli Stati Uniti, ed è piuttosto frustrante vedere questa monopolizzazione.
Sono davvero felice di essere riuscito a fare questo film in lingua tibetana e di averlo girato nei luoghi da dove provengo. Ho sempre avuto questo desiderio di realizzare un'opera in questa specifica regione per mostrarne la cultura, la lingua e soprattutto le persone che la abitano. Per quanto riguarda il discorso dei festival, la situazione è piuttosto complessa, ma sono ottimista perché c’è una nuova generazione di cineasti promettenti in Nepal che hanno voglia di mettersi in mostra. Ero già stato alla Berlinale in passato, ma solo come produttore, ed essere qui presente come regista è davvero importante per me; Shambhala è il primo film nepalese presentato in competizione a Berlino o in altri festival come quelli di Cannes e Venezia, quindi non è un traguardo che riguarda solo me, ma anche il mio team e il mio Paese. Inoltre, se posso aggiungere, erano passati ormai vent’anni dall’ultima volta che un film proveniente dall’Asia meridionale è stato presentato in competizione a Berlino.
Il termine “Shambhala” significa “luogo di felicità, pace, liberazione", come mai hai deciso di girare un film che ruota attorno a questo concetto cardine del buddismo tibetano?
Questo concetto rispecchia l’identità e la cultura dei personaggi raccontati, e più nello specifico, come determinate situazioni vengono affrontate con una certa compassione e sensazione di pace. Molte persone si preparano, durante la vita terrena, ad accedere a questo luogo di totale armonia, e lo faccio anche io. Ho studiato filosofia buddista e credo pienamente in questo karma e nel concetto di reincarnazione. “Shambhala” rappresenta la pace, l’armonia, e tutto ciò è connesso alla storia. Attraverso il viaggio che intraprende, la protagonista cerca qualcosa che non riesce ad ottenere in questa “dimensione” e, allo stesso tempo, pian piano afferra quello stato di pace interiore che la aiuterà a raggiungere proprio lo Shambhala.
Il film è girato ad altitudini molto elevate (intorno ai 5000 metri di altezza, n.d.r.), volevo chiederti quali sono state le principali difficoltà durante le riprese?
(Prima di rispondere il regista scoppia a ridere, n.d.r.) Devi sapere che la località in cui ho girato il film è una delle zone abitate poste più in altitudine al mondo. Ci sono state sfide sia dal punto di vista fisico che mentale, ma il mio team ha resistito e fatto un lavoro meraviglioso, sono davvero grato di aver collaborato con questo gruppo di persone. Le principali difficoltà “interne” che abbiamo dovuto affrontare erano per lo più logistiche e culturali, perché abbiamo dovuto girare in diverse località. La lavorazione del film è stata anche condizionata dai vari problemi di salute della troupe, dovuti al clima gelido, e così abbiamo dovuto chiamare degli elicotteri di emergenza un paio di volte. Inoltre, non avevamo certi comfort per quanto riguarda mezzi di trasporto o i luoghi dove soggiornare, infatti abbiamo dormito in più persone nella stessa tenda. Però, a parte questi ostacoli, la difficoltà più grossa era respirare. A certe altezze il fiato inizia a mancare, diverse persone si sono ammalate e abbiamo avuto bisogno delle bombole di ossigeno. Non pensavamo solo alla buona riuscita del film, ma credevamo profondamente che affrontare situazioni così estreme fosse come un processo di “guarigione” per noi stessi. Cercavamo di non pensare ai problemi “esterni”, e di assaporare questa straordinaria esperienza di vita. In breve, lavorare a Shambhala mi ha fatto riflettere su me stesso, non solo come regista, ma anche come essere umano.
Nel film vediamo un paio di volte “la prova del tiro con l’arco” (nel quale una persona accusata poteva provare la propria innocenza cercando di centrare un mirino con arco e freccia, n.d.r.), volevo chiederti se è una pratica comune in queste zone del Nepal.
Non esattamente. Ci sono diversi “test” che riguardano il tiro con l’arco e ho voluto sfruttare questo elemento adattandolo alla storia del film. Inoltre, devi sapere che queste prove vengono affrontate solo da uomini, mentre nel film puoi vedere due donne compiere la sfida. Ho preso l’essenza del “test” e l’ho utilizzata per lo più come una metafora; infatti, Pema è in qualche modo un personaggio rivoluzionario, compie questo viaggio e “sfida” la società per provare la sua innocenza. Io e lo sceneggiatore abbiamo pensato fosse adattato utilizzare questa pratica per rimarcare il concetto alla base del film.
Negli ultimi venti minuti della pellicola c’è un cambio di aspect ratio, puoi spiegarmi il perché di tale scelta?
A dire il vero, il formato inizia a cambiare prima della parte finale, subito dopo la morte di Rinpoche, momento strettamente collegato con la reincarnazione e lo Shambhala. Ma non solo, il cambio di formato riguarda anche la nascita del figlio di Pema. Volevo dare una panoramica sul ciclo della vita, dalla nascita alla morte. Io e il direttore della fotografia abbiamo concordato non solo sulla scelta del cambio di aspect ratio, ma anche su quella di inserire meno persone nel frame e sulla mancanza di dialoghi.
In tre sequenze del film invece hai utilizzato una palette color seppia, come mai questa colorazione?
Oltre al cambio di palette, puoi anche notare che queste sequenze sono girate in slow motion. Queste scelte sono state fatte perché volevo rappresentare i pensieri di Pema, quello che vedi potrebbe essere il frutto della sua immaginazione, un sogno o una fantasia. Nella prima scena vediamo Pema incinta che reincontra il marito, ed è una sequenza piena di amore e speranza, la seconda, invece, è incentrata sulla morte di Rinpoche e sulla sua reincarnazione nel figlio di Pema, mentre nella terza vediamo finalmente la liberazione della donna. La scelta di questa palette è stata naturale, poiché queste gradazioni color seppia richiamano quella sensazione di malinconia legata al ricordo, alla memoria di un nostro caro.
Nei tuoi film utilizzi spesso attori non professionisti e volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa su Thinley Lhamo, l’interprete di Pema. È stato lungo il processo di casting?
Ci sono voluti ben cinque anni per trovare la persona giusta per interpretare Pema! Io, i produttori e altri membri del mio team avevamo selezionato una ventina di ragazze, tra queste c’erano sia professioniste di alto livello che dilettanti. Alla fine ho scelto Thinley grazie all’aiuto di un amico, mi aveva inviato dei suoi video e, sarò sincero, all’inizio non mi convinceva, ma c’era qualcosa nei suoi occhi che mi aveva ammaliato. Ho voluto vederla di persona, siamo andati fuori a cena e dopo questo incontro ho capito che poteva essere la scelta giusta. Non perché credevo fosse in grado di dare una grande interpretazione, ma per via del suo viso, emanava quella sensazione di innocenza che cercavo. Ma prima di confermare il suo casting, ho chiesto a Thinley di iniziare a prendere parte a delle lezioni di recitazione, di cavallo e di cucito per prepararsi al ruolo. Sono sicuro che non sia stato facile per lei, ma ha mostrato una certa volontà e si è impegnata molto. Uno degli aspetti chiave di Pema è la sua semplicità, purezza e genuinità, caratteristiche che rispecchiano a pieno il carattere di Thinley. Inoltre, quando lavoro con non attori, mi focalizzo di più sull’autenticità che queste persone possono portare al ruolo, piuttosto che sulle doti recitative. Non cerco persone che vogliono diventare delle “star”, voglio umiltà e onestà.
La peculiarità del film è il costante utilizzo del piano sequenza, immagino non sia soltanto una scelta estetica e che ci sia una motivazione legata alla storia che vuoi raccontare. Puoi approfondire questo aspetto?
Ho sempre avuto in mente di utilizzare dei lunghi piani sequenza per il film perché rappresenta lo stile di vita buddista, caratterizzato da quella sensazione di pace e tranquillità. Inoltre, questa scelta rispecchia anche la quotidianità delle persone che abitano in montagna, e le due cose sono strettamente collegate alla mia regione di provenienza. La vita è piuttosto “semplice”, una persona nasce e muore nella stessa casa, si incontrano le stesse persone, si hanno le stesse amicizie, lo stesso lavoro e così via. Il ritmo della vita in montagna è piuttosto meditativo rispetto a quello in città... Ed è per questo che ho scelto di utilizzare continuamente dei piani sequenza per riflettere lo stile di vita pacato di queste persone. Poi devo ammettere che amo utilizzare i long takes, anche il mio film precedente era girato in questo modo (Kalo pothi, presentato al Festival di Venezia nel 2015, n.d.r.), e questo mi permette di mettere in risalto i semplici gesti quotidiani di queste persone, la loro cultura, i bellissimi panorami della regione e, soprattutto, evito di “forzare” certe emozioni e l’essenza della vita nelle alture.
Al centro della storia c’è la poliandria (relazione matrimoniale tra una donna e più di un uomo, n.d.r.), è qualcosa di comune in quelle regioni geografiche?
Si lo è, è una questione radicata nella cultura locale. Ma la mentalità della gente sta cambiando in qualche modo e la poliandria viene praticata sempre meno. Per questo non ho voluto dare un preciso time frame al film, perché è una storia che può essere ambientata al giorno d’oggi come qualche decennio fa.
Vorrei concludere l’intervista chiedendoti dei bellissimi disegni che vediamo nei credits iniziali. Sono stati fatti da un artista locale?
Si, i dipinti sono stati fatti da un artista del villaggio dove abbiamo girato il film, il suo nome è Pasang Dolpo. Wow, questo è fantastico! Di solito non mi chiedono mai queste cose (il regista fa un piccolo applauso, n.d.r.). Sarà davvero felice. Inoltre, se posso aggiungere, Pasang ha collaborato anche alla creazione del poster ufficiale del film. Ha lavorato per ben nove mesi su questi dipinti! Li ha completati solo due settimane prima del festival di Berlino.
INT-62
25.03.2024
Tra i titoli che ci hanno maggiormente colpito durante la passata Berlinale figura Shambhala, secondo lungometraggio del regista nepalese Min Bahadur Bham. Ambientato in un villaggio sulle alture dell’Himalaya, il film narra la storia di Pema, una donna coinvolta in una relazione poliandra che cerca di cogliere e apprezzare al meglio ciò che la vita le propone. La sua esistenza viene però sconvolta quando Tashi, uno dei suoi mariti, la abbandona poiché crede che il figlio che porta in grembo non sia suo. Pema deciderà così di mettersi alla ricerca dell’uomo per riaffermare la sua innocenza, in un viaggio che non rappresenterà soltanto un’occasione per scoprire se stessa, ma che la preparerà per raggiungere lo Shambhala, luogo di pace interiore dopo la vita terrena.
Al Festival di Berlino, abbiamo avuto il piacere di intervistare Min Bahadur Buam, che ci ha parlato del concetto di Shambhala, delle difficoltà principali nel girare il film in determinate zone geografiche, della collaborazione con gli attori non professionisti, e infine, del perché di alcune scelte stilistiche.
Vorrei cominciare questa conversazione chiedendoti come è andata la presentazione del film alla Berlinale.
È andata piuttosto bene. Ero molto nervoso perché la versione che avevamo inviato al festival, durante la fase di selezione, non era quella definitiva. Ero ancora in piena post-production e ho continuato a lavorare fino a qualche giorno prima della première, soprattutto sui sottotitoli e sul DCP (digital cinema package, n.d.r.). La versione che hai visto alla proiezione stampa era in 2K, mentre per lo screening in 4K al Berlinale Palast (dove avvengono le proiezioni dei film in competizione, n.d.r.) ho dovuto apportare diverse modifiche.
Come ti sei sentito nel portare un film del Nepal ad un festival prestigioso come quello di Berlino? Ti chiedo questo perché, negli ultimi anni, le manifestazioni cinematografiche internazionali hanno presentato nei loro programmi una maggioranza di opere che provengono solamente da determinate zone geografiche, come l’Europa o gli Stati Uniti, ed è piuttosto frustrante vedere questa monopolizzazione.
Sono davvero felice di essere riuscito a fare questo film in lingua tibetana e di averlo girato nei luoghi da dove provengo. Ho sempre avuto questo desiderio di realizzare un'opera in questa specifica regione per mostrarne la cultura, la lingua e soprattutto le persone che la abitano. Per quanto riguarda il discorso dei festival, la situazione è piuttosto complessa, ma sono ottimista perché c’è una nuova generazione di cineasti promettenti in Nepal che hanno voglia di mettersi in mostra. Ero già stato alla Berlinale in passato, ma solo come produttore, ed essere qui presente come regista è davvero importante per me; Shambhala è il primo film nepalese presentato in competizione a Berlino o in altri festival come quelli di Cannes e Venezia, quindi non è un traguardo che riguarda solo me, ma anche il mio team e il mio Paese. Inoltre, se posso aggiungere, erano passati ormai vent’anni dall’ultima volta che un film proveniente dall’Asia meridionale è stato presentato in competizione a Berlino.
Il termine “Shambhala” significa “luogo di felicità, pace, liberazione", come mai hai deciso di girare un film che ruota attorno a questo concetto cardine del buddismo tibetano?
Questo concetto rispecchia l’identità e la cultura dei personaggi raccontati, e più nello specifico, come determinate situazioni vengono affrontate con una certa compassione e sensazione di pace. Molte persone si preparano, durante la vita terrena, ad accedere a questo luogo di totale armonia, e lo faccio anche io. Ho studiato filosofia buddista e credo pienamente in questo karma e nel concetto di reincarnazione. “Shambhala” rappresenta la pace, l’armonia, e tutto ciò è connesso alla storia. Attraverso il viaggio che intraprende, la protagonista cerca qualcosa che non riesce ad ottenere in questa “dimensione” e, allo stesso tempo, pian piano afferra quello stato di pace interiore che la aiuterà a raggiungere proprio lo Shambhala.
Il film è girato ad altitudini molto elevate (intorno ai 5000 metri di altezza, n.d.r.), volevo chiederti quali sono state le principali difficoltà durante le riprese?
(Prima di rispondere il regista scoppia a ridere, n.d.r.) Devi sapere che la località in cui ho girato il film è una delle zone abitate poste più in altitudine al mondo. Ci sono state sfide sia dal punto di vista fisico che mentale, ma il mio team ha resistito e fatto un lavoro meraviglioso, sono davvero grato di aver collaborato con questo gruppo di persone. Le principali difficoltà “interne” che abbiamo dovuto affrontare erano per lo più logistiche e culturali, perché abbiamo dovuto girare in diverse località. La lavorazione del film è stata anche condizionata dai vari problemi di salute della troupe, dovuti al clima gelido, e così abbiamo dovuto chiamare degli elicotteri di emergenza un paio di volte. Inoltre, non avevamo certi comfort per quanto riguarda mezzi di trasporto o i luoghi dove soggiornare, infatti abbiamo dormito in più persone nella stessa tenda. Però, a parte questi ostacoli, la difficoltà più grossa era respirare. A certe altezze il fiato inizia a mancare, diverse persone si sono ammalate e abbiamo avuto bisogno delle bombole di ossigeno. Non pensavamo solo alla buona riuscita del film, ma credevamo profondamente che affrontare situazioni così estreme fosse come un processo di “guarigione” per noi stessi. Cercavamo di non pensare ai problemi “esterni”, e di assaporare questa straordinaria esperienza di vita. In breve, lavorare a Shambhala mi ha fatto riflettere su me stesso, non solo come regista, ma anche come essere umano.
Nel film vediamo un paio di volte “la prova del tiro con l’arco” (nel quale una persona accusata poteva provare la propria innocenza cercando di centrare un mirino con arco e freccia, n.d.r.), volevo chiederti se è una pratica comune in queste zone del Nepal.
Non esattamente. Ci sono diversi “test” che riguardano il tiro con l’arco e ho voluto sfruttare questo elemento adattandolo alla storia del film. Inoltre, devi sapere che queste prove vengono affrontate solo da uomini, mentre nel film puoi vedere due donne compiere la sfida. Ho preso l’essenza del “test” e l’ho utilizzata per lo più come una metafora; infatti, Pema è in qualche modo un personaggio rivoluzionario, compie questo viaggio e “sfida” la società per provare la sua innocenza. Io e lo sceneggiatore abbiamo pensato fosse adattato utilizzare questa pratica per rimarcare il concetto alla base del film.
Negli ultimi venti minuti della pellicola c’è un cambio di aspect ratio, puoi spiegarmi il perché di tale scelta?
A dire il vero, il formato inizia a cambiare prima della parte finale, subito dopo la morte di Rinpoche, momento strettamente collegato con la reincarnazione e lo Shambhala. Ma non solo, il cambio di formato riguarda anche la nascita del figlio di Pema. Volevo dare una panoramica sul ciclo della vita, dalla nascita alla morte. Io e il direttore della fotografia abbiamo concordato non solo sulla scelta del cambio di aspect ratio, ma anche su quella di inserire meno persone nel frame e sulla mancanza di dialoghi.
In tre sequenze del film invece hai utilizzato una palette color seppia, come mai questa colorazione?
Oltre al cambio di palette, puoi anche notare che queste sequenze sono girate in slow motion. Queste scelte sono state fatte perché volevo rappresentare i pensieri di Pema, quello che vedi potrebbe essere il frutto della sua immaginazione, un sogno o una fantasia. Nella prima scena vediamo Pema incinta che reincontra il marito, ed è una sequenza piena di amore e speranza, la seconda, invece, è incentrata sulla morte di Rinpoche e sulla sua reincarnazione nel figlio di Pema, mentre nella terza vediamo finalmente la liberazione della donna. La scelta di questa palette è stata naturale, poiché queste gradazioni color seppia richiamano quella sensazione di malinconia legata al ricordo, alla memoria di un nostro caro.
Nei tuoi film utilizzi spesso attori non professionisti e volevo chiederti se potevi dirmi qualcosa su Thinley Lhamo, l’interprete di Pema. È stato lungo il processo di casting?
Ci sono voluti ben cinque anni per trovare la persona giusta per interpretare Pema! Io, i produttori e altri membri del mio team avevamo selezionato una ventina di ragazze, tra queste c’erano sia professioniste di alto livello che dilettanti. Alla fine ho scelto Thinley grazie all’aiuto di un amico, mi aveva inviato dei suoi video e, sarò sincero, all’inizio non mi convinceva, ma c’era qualcosa nei suoi occhi che mi aveva ammaliato. Ho voluto vederla di persona, siamo andati fuori a cena e dopo questo incontro ho capito che poteva essere la scelta giusta. Non perché credevo fosse in grado di dare una grande interpretazione, ma per via del suo viso, emanava quella sensazione di innocenza che cercavo. Ma prima di confermare il suo casting, ho chiesto a Thinley di iniziare a prendere parte a delle lezioni di recitazione, di cavallo e di cucito per prepararsi al ruolo. Sono sicuro che non sia stato facile per lei, ma ha mostrato una certa volontà e si è impegnata molto. Uno degli aspetti chiave di Pema è la sua semplicità, purezza e genuinità, caratteristiche che rispecchiano a pieno il carattere di Thinley. Inoltre, quando lavoro con non attori, mi focalizzo di più sull’autenticità che queste persone possono portare al ruolo, piuttosto che sulle doti recitative. Non cerco persone che vogliono diventare delle “star”, voglio umiltà e onestà.
La peculiarità del film è il costante utilizzo del piano sequenza, immagino non sia soltanto una scelta estetica e che ci sia una motivazione legata alla storia che vuoi raccontare. Puoi approfondire questo aspetto?
Ho sempre avuto in mente di utilizzare dei lunghi piani sequenza per il film perché rappresenta lo stile di vita buddista, caratterizzato da quella sensazione di pace e tranquillità. Inoltre, questa scelta rispecchia anche la quotidianità delle persone che abitano in montagna, e le due cose sono strettamente collegate alla mia regione di provenienza. La vita è piuttosto “semplice”, una persona nasce e muore nella stessa casa, si incontrano le stesse persone, si hanno le stesse amicizie, lo stesso lavoro e così via. Il ritmo della vita in montagna è piuttosto meditativo rispetto a quello in città... Ed è per questo che ho scelto di utilizzare continuamente dei piani sequenza per riflettere lo stile di vita pacato di queste persone. Poi devo ammettere che amo utilizzare i long takes, anche il mio film precedente era girato in questo modo (Kalo pothi, presentato al Festival di Venezia nel 2015, n.d.r.), e questo mi permette di mettere in risalto i semplici gesti quotidiani di queste persone, la loro cultura, i bellissimi panorami della regione e, soprattutto, evito di “forzare” certe emozioni e l’essenza della vita nelle alture.
Al centro della storia c’è la poliandria (relazione matrimoniale tra una donna e più di un uomo, n.d.r.), è qualcosa di comune in quelle regioni geografiche?
Si lo è, è una questione radicata nella cultura locale. Ma la mentalità della gente sta cambiando in qualche modo e la poliandria viene praticata sempre meno. Per questo non ho voluto dare un preciso time frame al film, perché è una storia che può essere ambientata al giorno d’oggi come qualche decennio fa.
Vorrei concludere l’intervista chiedendoti dei bellissimi disegni che vediamo nei credits iniziali. Sono stati fatti da un artista locale?
Si, i dipinti sono stati fatti da un artista del villaggio dove abbiamo girato il film, il suo nome è Pasang Dolpo. Wow, questo è fantastico! Di solito non mi chiedono mai queste cose (il regista fa un piccolo applauso, n.d.r.). Sarà davvero felice. Inoltre, se posso aggiungere, Pasang ha collaborato anche alla creazione del poster ufficiale del film. Ha lavorato per ben nove mesi su questi dipinti! Li ha completati solo due settimane prima del festival di Berlino.