Il percorso di un autore
che non ha mai temuto il rischio,
di Michele Silvano
TR-64
10.07.2022
“I sogni e le fiabe, anche se irreali, devono raccontare la verità.” È quello che dice un bufalo campano di nome Sarchiapone prima di andare incontro alla morte.
Le parole del bufalo sono le migliori per inquadrare il cinema di Pietro Marcello. Un cinema che prova sempre, testardamente, ad arrivare alla verità delle cose, mettendo in atto un processo che documenta il reale e ciò che ne rimane quando lo si libera dalle maglie del realismo: la poesia.
Marcello è prima di tutto un documentarista che si rifà all’immaginario del cinema delle origini, e che assume quel linguaggio così antico e allo stesso tempo contemporaneo in cui l’immagine cinematografica è frutto di un incessante lavoro sperimentale. Da Il passaggio della linea a Martin Eden, passando per Il silenzio di Pelesjan, tutti i suoi film sono votati alla ricerca di nuove connessioni di senso, alla giustapposizione di suoni e di immagini che vedono sequenze filmate alternarsi ai repertori, alle fonti d’archivio e documentarie. La parola è essenziale, ridotta all’osso, e non ha timore di rivelare la propria natura poetica.
Come i grandi maestri russi dell’inizio del secolo scorso (Romm, Ejzenstejn, Kulesov), anche Marcello considera il montaggio quale elemento principale del lessico cinematografico. È qui che avviene la vera scrittura del film. Il montaggio lavora sulla distanza (proprio come insegna l’armeno Pelesjan), valorizza il contrappunto e premia la diversità delle parti, conferendo all’immagine filmica una strana forza gentile che rapisce l’occhio dello spettatore, lasciandolo quasi attonito, sognante.
È un modo di fare cinema che influenza e riscrive sia la dimensione spaziale che quella temporale del racconto. Il tempo è come sospeso, protetto da una patina di finzione che non plasma lo spazio del reale, ma lo evoca come un poema antico. Eppure più lo sguardo si rivolge al passato, più chi lo osserva sembra poter acquisire gli strumenti giusti per interpretare il presente.
Classe ‘79, casertano, Marcello si forma a Napoli tra le attività culturali del centro sociale DAMM (Diego Armando Maradona Montesanto). Qui conosce Maurizio Braucci, col quale stringe un sodalizio artistico che dura ancora oggi. Marcello in realtà, proprio come un altro grande esponente del cinema nostrano, Garrone, nasce come pittore. Attività che abbandona molto presto ma che, con ogni evidenza, gli lascia in eredità un senso della composizione molto forte. Il cinema è stato “un felice ripiego”. Non frequenta scuole né prende parte a corsi di regia, la sua formazione accademica consiste di tre semplici fasi: “guardare film, guardare film, guardare film.”
Passa dalla radio, giovanissimo, con una docu-inchiesta trasmessa su Radio 3 dal titolo Il tempo dei Magliari, per poi realizzare i primi corti documentari ambientati nelle vie di Napoli e nel quartiere di Montesanto (Il cantiere - premio Libero Bizzarri, La Baracca).
Il primo film che gira con piena consapevolezza artistica, se così si può dire, visto che è stato lo stesso Marcello a dichiarare che fino ai tempi de Il cantiere non aveva idea di come si tenesse in mano una macchina da presa, è Il passaggio della linea (2007). Un documentario (vera e propria testimonianza storica) realizzato sugli espressi notturni che attraversavano l’Italia da nord a sud. Un viaggio per linee ferroviarie infinite, a bassissimo costo e tra la variegata umanità che le percorre.
In quest’opera si intravedono già tutte le possibilità espressive del suo cinema, e si dà avvio a importanti collaborazioni artistiche, in particolare quella con Sara Fgaier, qui nella veste di aiuto regia, e Marco Messina alle musiche. Come tutti i film successivi, Il passaggio della linea nasce dalla volontà di dare luce a un mondo sommerso, abbandonato da qualche parte alla periferia della nostra società, e insieme dare voce ai suoi abitanti, agli ultimi, che al di fuori di questo contesto ne sarebbero sprovvisti. In altre parole, qui come altrove, è la necessità di raccontare e raccontarsi che spinge Marcello a fare cinema: è l’atteggiamento di chi crede che il cinema non sia tutto nella vita, ma solo il canale migliore per comunicare con gli altri.
È con La bocca del lupo (2009) che Pietro Marcello si afferma come autore, venendo riconosciuto anche, se non soprattutto, a livello internazionale – vince molti premi, tra cui il Festival di Torino, il miglior documentario ai David di Donatello, il Teddy Award al Festival di Berlino. Girato in pellicola e ispirato all’omonimo romanzo di Remigio Zena, La bocca del lupo è un tentativo di narrazione che vede convergere la grande storia collettiva, rappresentata dalla città di Genova, e quella intima di una coppia di ex galeotti, Enzo e Mary, che in questa città ricerca il proprio angolo felice.
Il film nasce in maniera singolare, perché è stato commissionato al regista campano dalla fondazione San Marcellino, una Onlus di gesuiti che si occupa della cura e del reinserimento in società delle persone cosiddette “fragili”, di quelli che nell’indifferenza generale finiscono nelle fauci del lupo. Non a caso il documentario parte dallo scoglio di Quarto dei Mille, dove in altri tempi era iniziato il viaggio dell’Italia unita; una voce off poetica (Franco Leo) ci introduce a un mondo che un tempo accoglieva naufraghi e marinai e che oggi invece è popolato da uomini e donne che vivono nelle grotte riscaldandosi alla luce di fuochi improvvisati, “gli abitanti delle caverne”.
Genova, una delle principali città marinare d’Italia, ci appare come un luogo che ha smarrito la propria identità. Vicoli bui e striminziti, enormi edifici industriali che vengono abbattuti lungo la costa, immigrati e anziani che vivono all’ombra della società, dimenticati dalla Storia. È il passato però che restituisce alla città e ai suoi abitanti la dignità perduta. Il ricordo sotto forma di documento visivo. Il lavoro di montaggio e di ricerca di materiale d’archivio a opera di Sara Fgaier è impressionante: i filmati provengono da videoteche e fondazioni, ma soprattutto dalle case, dai sottotetti, dalle cantine dei genovesi. La memoria collettiva ci mostra ancora chi siamo davvero, ci proietta in una dimensione temporale altra, permettendoci di sperare nel futuro.
E in questo senso può essere vista la storia d’amore di Vincenzo Motta e Mary Monaco: lui, una sorta di gangster rude ma dal cuore d’oro con venti e più anni di galera alle spalle, volto da Hollywood classica coperto da un fortissimo accento siciliano; lei, una transessuale con un passato da tossicodipendente, dotata di una fragilità e una saggezza commoventi. Vediamo Enzo aggirarsi per i vicoli e i bar malfamati della città da uomo finalmente libero, ma come ultimo sopravvissuto di quel sottoproletariato che un tempo rappresentava lo strato consistente non solo della popolazione genovese ma dell’intera penisola, mentre la voce di Mary ci racconta il suo passato, la genesi e l’evoluzione della loro storia d’amore.
Una relazione nata tantissimi anni prima in carcere e sopravvissuta alle avversità di una vita trascorsa senza alcun tipo di sostentamento, se non quello, soprattutto emotivo, che potevano regalarsi l’un l’altro. “La vita non è dura solo in carcere, anzi è facile… Devi solo pensare a mangiare, a dormire, a fare passare il tempo”, i problemi veri iniziano una volta fuori, quando la solitudine è così tangibile che sembra impossibile sopravviverle. A meno che non si incontri qualcuno come Enzo, che ti dia uno scopo.
Il loro sogno è una casa in campagna immersa nella natura, lontano da una città che non ha più nulla da offrirgli e che non li ha mai veramente voluti. Nel finale, dopo che per la prima volta li vediamo assieme mentre si confessano a lungo davanti alla macchina da presa, lo sguardo si proietta all’esterno e sembra che il desiderio innocente dei protagonisti si sia avverato: “a modo nostro ce l’abbiamo” dice Enzo. E poi si ritorna lì dove tutto era iniziato, allo scoglio di Quarto, di nuovo tra i fuochi dei “nuovi naufraghi”, con i versi di Fortini a fare da suggello al viaggio visivo appena concluso.
Dopo Il silenzio di Pelesjan (2011), un documentario sperimentale dedicato ad Artavazd Pelesjan – maestro del cinema documentario sovietico e teorico del “montaggio a distanza” –, che Marcello considera più come un ipotetico lavoro finale per il diploma che un film vero e proprio, il regista casertano gira forse il più riuscito tra i suoi documentari lirici, Bella e perduta (2015).
Il film, nell’intenzione del regista, era nato come un viaggio nella provincia italiana, con l’obiettivo – ancora e sempre – di riportare a galla ciò che siamo stati, quello che è andato perso, ovvero l’origine contadina del popolo italiano. Nel risultato finale questa visione si incarna nella figura di Tommaso Cestrone, un contadino semianalfabeta, un Ultimo, custode della Reggia di Carditello, una meravigliosa residenza borbonica lasciata all’incuria dell’uomo e del tempo. Emblema di come l’italiano – forse per sua stessa indole – non sappia che farsene della bellezza che lo circonda.
Tommaso però vuole che la Reggia torni a vivere, ci lavora da anni in qualità di volontario, è soprannominato per questo “l’angelo di Carditello”, e da solo combatte il disinteresse dello Stato e le minacce della Camorra. Siamo nella Terra dei Fuochi – sono le immagini di repertorio a ricordarcelo (ancora la Fgaier al montaggio) –, un posto che nella visione mediatica è sinonimo di morte, dove sembra impossibile mettersi sulle tracce della poesia. Eppure Tommaso è lì apposta, e resiste perché la bellezza non vada perduta.
In pieno stile Marcello, è il reale che chiama a sé la poesia. Dalle viscere del vesuvio, Pulcinella (Sergio Vitolo, altro membro del DAMM di Napoli) viene rimandato sulla terra per portare in salvo Sarchiapone, il bufalo di Tommaso che dopo la morte prematura del suo padrone è destinato al macello. Pulcinella, la maschera campana per eccellenza, è qui una sorta di intermediario tra il mondo dei vivi e dei morti e non può sfuggire alla sua natura di servo, proprio come gli animali lo sono per gli uomini.
Difatti Bella e perduta è anche una luminosa riflessione sul rapporto Uomo-Natura, un richiamo a un'epoca mitica del tempo terrestre, quando l’uomo era ancora in grado di vivere rispettando i cicli naturali, in rapporto simbiotico con le altre specie viventi. Braucci (alla scrittura) e Marcello ce lo ricordano nel modo più incredibile ed efficace possibile, rifornendo dell’uso della parola il bufalo Sarchiapone, la cui voce off dagli echi leopardiani (interpretata dal “leopardiano” Germano) ci accompagna dall’inizio alla fine dell’opera, raggiungendo l’apice della propria potenza emotiva quando si ritrova a un passo dalla morte. Siamo testimoni di una sequenza struggente: Sarchiapone sa che sta andando incontro alla propria fine, e si dimena e prova nei modi che conosce a ribellarsi; e quando si rende conto che non c’è più via d’uscita, è allora che piange. Il tutto avviene sotto la regale indifferenza dell’uomo che sembra ignorare o non volere riconoscere il fatto che anche i bufali hanno un’anima. Però non tutto è perduto.
Pulcinella non è in grado di evitare il tragico destino dell’animale. Il viaggio che entrambi compiono verso la Maremma, dove ad attenderli c’è il poeta Bufalino, amico di Tommaso e come lui pastore, mette la parola fine su due esistenze. La prima, come detto, è quella terrestre del bufalo, la seconda è invece quella immortale della maschera. Pulcinella si innamora e decide coscientemente – imparando il libero arbitrio – di abbandonare lo status di immortale per farsi uomo, diventando pastore. In altre parole, si toglie la maschera. Ma non appena diventa uomo, perde la capacità di comunicare con l’animale: è questo il prezzo da pagare per vivere tra gli umani, come un umano. Abbandonando di fatto il compagno al suo tragico epilogo. Eppure qualcosa ci dice che Pulcinella, privato di maschera, senza padroni, possa davvero essere quell’uomo nuovo (e antico) in grado di insegnarci di nuovo come stare al mondo.
Bella e perduta, girato interamente con pellicola scaduta, è stato prodotto da Marcello e dalla sua casa di produzione Avventurosa (è bene ricordare che Marcello ha prodotto e finanziato ogni suo film in maniera totalmente indipendente) e distribuito dall’Istituto Luce. Il film è rimasto fuori dal circuito di distribuzione nazionale, uscendo solamente in 12 copie. Un’ingiustizia che dovrebbe far riflettere. Ciò nonostante – sorvoliamo su cosa, e quanto, questo ci dica del sistema di distribuzione dei film in Italia –, l’opera è stata acclamata dalla critica italiana ed estera, riscuotendo un apprezzamento solo di poco inferiore al lavoro successivo del regista campano, Martin Eden (2019).
Martin Eden è il film che fa conoscere Marcello al grande pubblico. Un’opera che ne segna la maturità artistica e la definitiva affermazione a livello internazionale (tra i migliori film del 2020 secondo il New York Times). È un film atipico, per certi versi rivoluzionario, sicuramente coraggioso. Ha spinto molti a gridare al miracolo al momento della sua uscita in Italia, ma a ben vedere non è altro che la naturale evoluzione del cinema di questo talentuoso regista, un approdo felice ma niente affatto sorprendente.
È la prima vera grande produzione per Marcello, con un budget stimato intorno ai 4 milioni di euro, briciole in confronto alle (vere) grandi produzioni internazionali, ma un’enormità se pensiamo ai costi irrisori dei film precedenti (Bella e perduta è stato fatto con qualcosa come 400-500 mila euro).
C’è un cambio di passo evidente, Marcello abbandona lo “strumento” del documentario senza però privarsi del suo linguaggio, di conseguenza il lavoro di scrittura del film è molto più consistente. E non poteva essere diversamente. Marcello e Braucci hanno adattato il romanzo, fortemente autobiografico e profondamente americano, di Jack London, scritto più di un secolo fa, muovendosi con assoluta libertà nel tempo e nello spazio.
La storia di Martin Eden in fondo è la storia di chiunque ricerchi un riscatto nella vita, di chi ottiene l’emancipazione attraverso la cultura. Non è necessario poter contare sugli sfondi nordamericani, dunque, o fare affidamento su una lunghissima tradizione marinara in letteratura per raccontare adeguatamente la parabola del protagonista. Martin Eden è un marinaio napoletano (e non dubitiamo per un istante che non sia così, complice anche la straordinaria interpretazione di Luca Marinelli, Coppa Volpi a Venezia), che si muove e si relaziona con il Mezzogiorno italiano, allegoria del sud del mondo, di quello spazio sommerso che Marcello cerca di riportare in superficie in ogni suo lavoro. Martin è Enzo, è Tommaso, è un Ultimo, che tuttavia riesce ad acquisire gli strumenti per far valere la propria voce col solo intento di fornirne una a chi ne è privo. Difficile non vederci una componente autobiografica. A maggior ragione se è lo stesso regista a dirci che quella di Martin Eden è una storia che ha segnato la sua formazione, contribuito a formarne l’immaginario, ed è stata a lungo in progetto di diventare un lungometraggio.
L’inizio della pellicola suona come una dichiarazione d’intenti. Alle immagini di repertorio, che vedono come protagonista l’anarchico Errico Malatesta durante un comizio, seguono quelle di un giovane Martin che va per mare, in sottofondo sentiamo “Piccerè” di Daniele Pace, già membro degli Squallor, gruppo musicale napoletano diventato di culto negli anni ‘70. È la volontà di sperimentare continuamente, ignorando le gerarchie, rifuggendo il già-visto. Si mischia alto e basso, si gioca con tutto ciò che il mezzo cinematografico mette a disposizione; si improvvisa avendo senso dell’improvvisazione: è la lezione di Rossellini, l’unica via che ha il cinema per innalzarsi al rango di Settima Arte. Il film non dà chiari riferimenti temporali allo spettatore, si spazia lungo gran parte del Novecento e, ogni tanto, si ha persino la sensazione di essere alla fine del secolo precedente. All’orizzonte c’è sempre la minaccia di una guerra, la grande rivoluzione socialista che dovrebbe finalmente rendere liberi tutti gli “schiavi” del mondo. Ma Martin, fervente spenceriano, non ci crede, parla della e alla povera gente ma non ne condivide l’ideale socialista: nessuna rivoluzione potrà mai salvare una collettività all’interno della quale l’uomo non si sia prima affermato come individuo.
Martin è come il veliero che a più riprese vediamo comparire durante il film. Solitario, alla deriva, in mezzo al mare. Si innamora di una giovane borghese, Elena Orsini (interpretata dall’attrice francese Jessica Cressy), e per lei sceglie la via dell’istruzione, della conoscenza. Ma è un amore destinato a fallire, quello di “un cucciolo d’aquila che vuole salire al nido delle civette” come lo definirà Russ Brissenden (Carlo Cecchi), il suo mentore, la sola persona che gli abbia mai dato fiducia. L’unica cosa sensata da fare, gli dice, è dare voce ai disgraziati, combattere per loro con il mezzo più efficace che esista: la letteratura. E alla fine Martin ce la fa. Trova il successo, l’affermazione, ma perde tutto il resto: Elena, Russ, l’adesione al reale. È a questo punto che vediamo il veliero affondare, lento, inesorabile.
In Martin Eden è fortissimo il gusto per la composizione dell’immagine, a volte riusciamo quasi a percepirne la consistenza, come se lo spazio filmico fosse una tela, un dipinto verista dove i colori primari possono accendersi, brillare di una luce naturale: in particolare, il blu degli occhi di Martin, e del mare. La colonna sonora composta da Marco Messina e Sacha Ricci vira tra il classico e l’elettronica, inserendosi perfettamente in quel gioco di contrapposizioni armoniche che è essenziale nella poetica del regista. E poi l’uso della lingua. L’attenzione che Marcello rivolge al linguaggio parlato del film è propria del miglior cinema neorealista. Napoletano, romano, calabrese, siciliano, milanese: il dialetto italiano ha una carica espressiva formidabile, ed è la vera cifra stilistica del racconto. La lingua degli Ultimi, uno di quei valori che l’identità italiana tende a rigettare. L’italiano infatti è qui sinonimo di potere, è la lingua degli Orsini, dei grandi padroni del nord verso cui Martin nutre un profondo disprezzo, ma contro i quali si dimostra impotente.
La pellicola ha un'energia autonoma, dirompente, che gli permette di calarsi perfettamente nella contemporaneità pur mantenendo salde le radici nella tradizione. Martin Eden, come tutto il cinema di Pietro Marcello, è un film che si prende dei rischi, che vive del coraggio del suo protagonista, e per questo riesce a comunicare. L’eredità che il regista campano sta lasciando al nostro cinema è proprio questa. Basterebbe forse guardare bene al passato per tornare a fare film che parlino per davvero al nostro presente. Basterebbe forse un po’ di quel coraggio.
Il percorso di un autore
che non ha mai temuto il rischio,
di Michele Silvano
TR-64
10.07.2022
“I sogni e le fiabe, anche se irreali, devono raccontare la verità.” È quello che dice un bufalo campano di nome Sarchiapone prima di andare incontro alla morte.
Le parole del bufalo sono le migliori per inquadrare il cinema di Pietro Marcello. Un cinema che prova sempre, testardamente, ad arrivare alla verità delle cose, mettendo in atto un processo che documenta il reale e ciò che ne rimane quando lo si libera dalle maglie del realismo: la poesia.
Marcello è prima di tutto un documentarista che si rifà all’immaginario del cinema delle origini, e che assume quel linguaggio così antico e allo stesso tempo contemporaneo in cui l’immagine cinematografica è frutto di un incessante lavoro sperimentale. Da Il passaggio della linea a Martin Eden, passando per Il silenzio di Pelesjan, tutti i suoi film sono votati alla ricerca di nuove connessioni di senso, alla giustapposizione di suoni e di immagini che vedono sequenze filmate alternarsi ai repertori, alle fonti d’archivio e documentarie. La parola è essenziale, ridotta all’osso, e non ha timore di rivelare la propria natura poetica.
Come i grandi maestri russi dell’inizio del secolo scorso (Romm, Ejzenstejn, Kulesov), anche Marcello considera il montaggio quale elemento principale del lessico cinematografico. È qui che avviene la vera scrittura del film. Il montaggio lavora sulla distanza (proprio come insegna l’armeno Pelesjan), valorizza il contrappunto e premia la diversità delle parti, conferendo all’immagine filmica una strana forza gentile che rapisce l’occhio dello spettatore, lasciandolo quasi attonito, sognante.
È un modo di fare cinema che influenza e riscrive sia la dimensione spaziale che quella temporale del racconto. Il tempo è come sospeso, protetto da una patina di finzione che non plasma lo spazio del reale, ma lo evoca come un poema antico. Eppure più lo sguardo si rivolge al passato, più chi lo osserva sembra poter acquisire gli strumenti giusti per interpretare il presente.
Classe ‘79, casertano, Marcello si forma a Napoli tra le attività culturali del centro sociale DAMM (Diego Armando Maradona Montesanto). Qui conosce Maurizio Braucci, col quale stringe un sodalizio artistico che dura ancora oggi. Marcello in realtà, proprio come un altro grande esponente del cinema nostrano, Garrone, nasce come pittore. Attività che abbandona molto presto ma che, con ogni evidenza, gli lascia in eredità un senso della composizione molto forte. Il cinema è stato “un felice ripiego”. Non frequenta scuole né prende parte a corsi di regia, la sua formazione accademica consiste di tre semplici fasi: “guardare film, guardare film, guardare film.”
Passa dalla radio, giovanissimo, con una docu-inchiesta trasmessa su Radio 3 dal titolo Il tempo dei Magliari, per poi realizzare i primi corti documentari ambientati nelle vie di Napoli e nel quartiere di Montesanto (Il cantiere - premio Libero Bizzarri, La Baracca).
Il primo film che gira con piena consapevolezza artistica, se così si può dire, visto che è stato lo stesso Marcello a dichiarare che fino ai tempi de Il cantiere non aveva idea di come si tenesse in mano una macchina da presa, è Il passaggio della linea (2007). Un documentario (vera e propria testimonianza storica) realizzato sugli espressi notturni che attraversavano l’Italia da nord a sud. Un viaggio per linee ferroviarie infinite, a bassissimo costo e tra la variegata umanità che le percorre.
In quest’opera si intravedono già tutte le possibilità espressive del suo cinema, e si dà avvio a importanti collaborazioni artistiche, in particolare quella con Sara Fgaier, qui nella veste di aiuto regia, e Marco Messina alle musiche. Come tutti i film successivi, Il passaggio della linea nasce dalla volontà di dare luce a un mondo sommerso, abbandonato da qualche parte alla periferia della nostra società, e insieme dare voce ai suoi abitanti, agli ultimi, che al di fuori di questo contesto ne sarebbero sprovvisti. In altre parole, qui come altrove, è la necessità di raccontare e raccontarsi che spinge Marcello a fare cinema: è l’atteggiamento di chi crede che il cinema non sia tutto nella vita, ma solo il canale migliore per comunicare con gli altri.
È con La bocca del lupo (2009) che Pietro Marcello si afferma come autore, venendo riconosciuto anche, se non soprattutto, a livello internazionale – vince molti premi, tra cui il Festival di Torino, il miglior documentario ai David di Donatello, il Teddy Award al Festival di Berlino. Girato in pellicola e ispirato all’omonimo romanzo di Remigio Zena, La bocca del lupo è un tentativo di narrazione che vede convergere la grande storia collettiva, rappresentata dalla città di Genova, e quella intima di una coppia di ex galeotti, Enzo e Mary, che in questa città ricerca il proprio angolo felice.
Il film nasce in maniera singolare, perché è stato commissionato al regista campano dalla fondazione San Marcellino, una Onlus di gesuiti che si occupa della cura e del reinserimento in società delle persone cosiddette “fragili”, di quelli che nell’indifferenza generale finiscono nelle fauci del lupo. Non a caso il documentario parte dallo scoglio di Quarto dei Mille, dove in altri tempi era iniziato il viaggio dell’Italia unita; una voce off poetica (Franco Leo) ci introduce a un mondo che un tempo accoglieva naufraghi e marinai e che oggi invece è popolato da uomini e donne che vivono nelle grotte riscaldandosi alla luce di fuochi improvvisati, “gli abitanti delle caverne”.
Genova, una delle principali città marinare d’Italia, ci appare come un luogo che ha smarrito la propria identità. Vicoli bui e striminziti, enormi edifici industriali che vengono abbattuti lungo la costa, immigrati e anziani che vivono all’ombra della società, dimenticati dalla Storia. È il passato però che restituisce alla città e ai suoi abitanti la dignità perduta. Il ricordo sotto forma di documento visivo. Il lavoro di montaggio e di ricerca di materiale d’archivio a opera di Sara Fgaier è impressionante: i filmati provengono da videoteche e fondazioni, ma soprattutto dalle case, dai sottotetti, dalle cantine dei genovesi. La memoria collettiva ci mostra ancora chi siamo davvero, ci proietta in una dimensione temporale altra, permettendoci di sperare nel futuro.
E in questo senso può essere vista la storia d’amore di Vincenzo Motta e Mary Monaco: lui, una sorta di gangster rude ma dal cuore d’oro con venti e più anni di galera alle spalle, volto da Hollywood classica coperto da un fortissimo accento siciliano; lei, una transessuale con un passato da tossicodipendente, dotata di una fragilità e una saggezza commoventi. Vediamo Enzo aggirarsi per i vicoli e i bar malfamati della città da uomo finalmente libero, ma come ultimo sopravvissuto di quel sottoproletariato che un tempo rappresentava lo strato consistente non solo della popolazione genovese ma dell’intera penisola, mentre la voce di Mary ci racconta il suo passato, la genesi e l’evoluzione della loro storia d’amore.
Una relazione nata tantissimi anni prima in carcere e sopravvissuta alle avversità di una vita trascorsa senza alcun tipo di sostentamento, se non quello, soprattutto emotivo, che potevano regalarsi l’un l’altro. “La vita non è dura solo in carcere, anzi è facile… Devi solo pensare a mangiare, a dormire, a fare passare il tempo”, i problemi veri iniziano una volta fuori, quando la solitudine è così tangibile che sembra impossibile sopravviverle. A meno che non si incontri qualcuno come Enzo, che ti dia uno scopo.
Il loro sogno è una casa in campagna immersa nella natura, lontano da una città che non ha più nulla da offrirgli e che non li ha mai veramente voluti. Nel finale, dopo che per la prima volta li vediamo assieme mentre si confessano a lungo davanti alla macchina da presa, lo sguardo si proietta all’esterno e sembra che il desiderio innocente dei protagonisti si sia avverato: “a modo nostro ce l’abbiamo” dice Enzo. E poi si ritorna lì dove tutto era iniziato, allo scoglio di Quarto, di nuovo tra i fuochi dei “nuovi naufraghi”, con i versi di Fortini a fare da suggello al viaggio visivo appena concluso.
Dopo Il silenzio di Pelesjan (2011), un documentario sperimentale dedicato ad Artavazd Pelesjan – maestro del cinema documentario sovietico e teorico del “montaggio a distanza” –, che Marcello considera più come un ipotetico lavoro finale per il diploma che un film vero e proprio, il regista casertano gira forse il più riuscito tra i suoi documentari lirici, Bella e perduta (2015).
Il film, nell’intenzione del regista, era nato come un viaggio nella provincia italiana, con l’obiettivo – ancora e sempre – di riportare a galla ciò che siamo stati, quello che è andato perso, ovvero l’origine contadina del popolo italiano. Nel risultato finale questa visione si incarna nella figura di Tommaso Cestrone, un contadino semianalfabeta, un Ultimo, custode della Reggia di Carditello, una meravigliosa residenza borbonica lasciata all’incuria dell’uomo e del tempo. Emblema di come l’italiano – forse per sua stessa indole – non sappia che farsene della bellezza che lo circonda.
Tommaso però vuole che la Reggia torni a vivere, ci lavora da anni in qualità di volontario, è soprannominato per questo “l’angelo di Carditello”, e da solo combatte il disinteresse dello Stato e le minacce della Camorra. Siamo nella Terra dei Fuochi – sono le immagini di repertorio a ricordarcelo (ancora la Fgaier al montaggio) –, un posto che nella visione mediatica è sinonimo di morte, dove sembra impossibile mettersi sulle tracce della poesia. Eppure Tommaso è lì apposta, e resiste perché la bellezza non vada perduta.
In pieno stile Marcello, è il reale che chiama a sé la poesia. Dalle viscere del vesuvio, Pulcinella (Sergio Vitolo, altro membro del DAMM di Napoli) viene rimandato sulla terra per portare in salvo Sarchiapone, il bufalo di Tommaso che dopo la morte prematura del suo padrone è destinato al macello. Pulcinella, la maschera campana per eccellenza, è qui una sorta di intermediario tra il mondo dei vivi e dei morti e non può sfuggire alla sua natura di servo, proprio come gli animali lo sono per gli uomini.
Difatti Bella e perduta è anche una luminosa riflessione sul rapporto Uomo-Natura, un richiamo a un'epoca mitica del tempo terrestre, quando l’uomo era ancora in grado di vivere rispettando i cicli naturali, in rapporto simbiotico con le altre specie viventi. Braucci (alla scrittura) e Marcello ce lo ricordano nel modo più incredibile ed efficace possibile, rifornendo dell’uso della parola il bufalo Sarchiapone, la cui voce off dagli echi leopardiani (interpretata dal “leopardiano” Germano) ci accompagna dall’inizio alla fine dell’opera, raggiungendo l’apice della propria potenza emotiva quando si ritrova a un passo dalla morte. Siamo testimoni di una sequenza struggente: Sarchiapone sa che sta andando incontro alla propria fine, e si dimena e prova nei modi che conosce a ribellarsi; e quando si rende conto che non c’è più via d’uscita, è allora che piange. Il tutto avviene sotto la regale indifferenza dell’uomo che sembra ignorare o non volere riconoscere il fatto che anche i bufali hanno un’anima. Però non tutto è perduto.
Pulcinella non è in grado di evitare il tragico destino dell’animale. Il viaggio che entrambi compiono verso la Maremma, dove ad attenderli c’è il poeta Bufalino, amico di Tommaso e come lui pastore, mette la parola fine su due esistenze. La prima, come detto, è quella terrestre del bufalo, la seconda è invece quella immortale della maschera. Pulcinella si innamora e decide coscientemente – imparando il libero arbitrio – di abbandonare lo status di immortale per farsi uomo, diventando pastore. In altre parole, si toglie la maschera. Ma non appena diventa uomo, perde la capacità di comunicare con l’animale: è questo il prezzo da pagare per vivere tra gli umani, come un umano. Abbandonando di fatto il compagno al suo tragico epilogo. Eppure qualcosa ci dice che Pulcinella, privato di maschera, senza padroni, possa davvero essere quell’uomo nuovo (e antico) in grado di insegnarci di nuovo come stare al mondo.
Bella e perduta, girato interamente con pellicola scaduta, è stato prodotto da Marcello e dalla sua casa di produzione Avventurosa (è bene ricordare che Marcello ha prodotto e finanziato ogni suo film in maniera totalmente indipendente) e distribuito dall’Istituto Luce. Il film è rimasto fuori dal circuito di distribuzione nazionale, uscendo solamente in 12 copie. Un’ingiustizia che dovrebbe far riflettere. Ciò nonostante – sorvoliamo su cosa, e quanto, questo ci dica del sistema di distribuzione dei film in Italia –, l’opera è stata acclamata dalla critica italiana ed estera, riscuotendo un apprezzamento solo di poco inferiore al lavoro successivo del regista campano, Martin Eden (2019).
Martin Eden è il film che fa conoscere Marcello al grande pubblico. Un’opera che ne segna la maturità artistica e la definitiva affermazione a livello internazionale (tra i migliori film del 2020 secondo il New York Times). È un film atipico, per certi versi rivoluzionario, sicuramente coraggioso. Ha spinto molti a gridare al miracolo al momento della sua uscita in Italia, ma a ben vedere non è altro che la naturale evoluzione del cinema di questo talentuoso regista, un approdo felice ma niente affatto sorprendente.
È la prima vera grande produzione per Marcello, con un budget stimato intorno ai 4 milioni di euro, briciole in confronto alle (vere) grandi produzioni internazionali, ma un’enormità se pensiamo ai costi irrisori dei film precedenti (Bella e perduta è stato fatto con qualcosa come 400-500 mila euro).
C’è un cambio di passo evidente, Marcello abbandona lo “strumento” del documentario senza però privarsi del suo linguaggio, di conseguenza il lavoro di scrittura del film è molto più consistente. E non poteva essere diversamente. Marcello e Braucci hanno adattato il romanzo, fortemente autobiografico e profondamente americano, di Jack London, scritto più di un secolo fa, muovendosi con assoluta libertà nel tempo e nello spazio.
La storia di Martin Eden in fondo è la storia di chiunque ricerchi un riscatto nella vita, di chi ottiene l’emancipazione attraverso la cultura. Non è necessario poter contare sugli sfondi nordamericani, dunque, o fare affidamento su una lunghissima tradizione marinara in letteratura per raccontare adeguatamente la parabola del protagonista. Martin Eden è un marinaio napoletano (e non dubitiamo per un istante che non sia così, complice anche la straordinaria interpretazione di Luca Marinelli, Coppa Volpi a Venezia), che si muove e si relaziona con il Mezzogiorno italiano, allegoria del sud del mondo, di quello spazio sommerso che Marcello cerca di riportare in superficie in ogni suo lavoro. Martin è Enzo, è Tommaso, è un Ultimo, che tuttavia riesce ad acquisire gli strumenti per far valere la propria voce col solo intento di fornirne una a chi ne è privo. Difficile non vederci una componente autobiografica. A maggior ragione se è lo stesso regista a dirci che quella di Martin Eden è una storia che ha segnato la sua formazione, contribuito a formarne l’immaginario, ed è stata a lungo in progetto di diventare un lungometraggio.
L’inizio della pellicola suona come una dichiarazione d’intenti. Alle immagini di repertorio, che vedono come protagonista l’anarchico Errico Malatesta durante un comizio, seguono quelle di un giovane Martin che va per mare, in sottofondo sentiamo “Piccerè” di Daniele Pace, già membro degli Squallor, gruppo musicale napoletano diventato di culto negli anni ‘70. È la volontà di sperimentare continuamente, ignorando le gerarchie, rifuggendo il già-visto. Si mischia alto e basso, si gioca con tutto ciò che il mezzo cinematografico mette a disposizione; si improvvisa avendo senso dell’improvvisazione: è la lezione di Rossellini, l’unica via che ha il cinema per innalzarsi al rango di Settima Arte. Il film non dà chiari riferimenti temporali allo spettatore, si spazia lungo gran parte del Novecento e, ogni tanto, si ha persino la sensazione di essere alla fine del secolo precedente. All’orizzonte c’è sempre la minaccia di una guerra, la grande rivoluzione socialista che dovrebbe finalmente rendere liberi tutti gli “schiavi” del mondo. Ma Martin, fervente spenceriano, non ci crede, parla della e alla povera gente ma non ne condivide l’ideale socialista: nessuna rivoluzione potrà mai salvare una collettività all’interno della quale l’uomo non si sia prima affermato come individuo.
Martin è come il veliero che a più riprese vediamo comparire durante il film. Solitario, alla deriva, in mezzo al mare. Si innamora di una giovane borghese, Elena Orsini (interpretata dall’attrice francese Jessica Cressy), e per lei sceglie la via dell’istruzione, della conoscenza. Ma è un amore destinato a fallire, quello di “un cucciolo d’aquila che vuole salire al nido delle civette” come lo definirà Russ Brissenden (Carlo Cecchi), il suo mentore, la sola persona che gli abbia mai dato fiducia. L’unica cosa sensata da fare, gli dice, è dare voce ai disgraziati, combattere per loro con il mezzo più efficace che esista: la letteratura. E alla fine Martin ce la fa. Trova il successo, l’affermazione, ma perde tutto il resto: Elena, Russ, l’adesione al reale. È a questo punto che vediamo il veliero affondare, lento, inesorabile.
In Martin Eden è fortissimo il gusto per la composizione dell’immagine, a volte riusciamo quasi a percepirne la consistenza, come se lo spazio filmico fosse una tela, un dipinto verista dove i colori primari possono accendersi, brillare di una luce naturale: in particolare, il blu degli occhi di Martin, e del mare. La colonna sonora composta da Marco Messina e Sacha Ricci vira tra il classico e l’elettronica, inserendosi perfettamente in quel gioco di contrapposizioni armoniche che è essenziale nella poetica del regista. E poi l’uso della lingua. L’attenzione che Marcello rivolge al linguaggio parlato del film è propria del miglior cinema neorealista. Napoletano, romano, calabrese, siciliano, milanese: il dialetto italiano ha una carica espressiva formidabile, ed è la vera cifra stilistica del racconto. La lingua degli Ultimi, uno di quei valori che l’identità italiana tende a rigettare. L’italiano infatti è qui sinonimo di potere, è la lingua degli Orsini, dei grandi padroni del nord verso cui Martin nutre un profondo disprezzo, ma contro i quali si dimostra impotente.
La pellicola ha un'energia autonoma, dirompente, che gli permette di calarsi perfettamente nella contemporaneità pur mantenendo salde le radici nella tradizione. Martin Eden, come tutto il cinema di Pietro Marcello, è un film che si prende dei rischi, che vive del coraggio del suo protagonista, e per questo riesce a comunicare. L’eredità che il regista campano sta lasciando al nostro cinema è proprio questa. Basterebbe forse guardare bene al passato per tornare a fare film che parlino per davvero al nostro presente. Basterebbe forse un po’ di quel coraggio.