La rappresentazione del notturno nel cinema
di un caposcuola del noir moderno,
di Federico Mattioni
TR-86
07.10.2023
C’è una fascinazione immersiva per la notte nel cinema di Michael Mann. Una modalità di immedesimazione che, di volta in volta, raccoglie tonalità differenti nel tentativo di catturare la magia di un momento o le impressioni di una stasi emotiva filtrata nel paesaggio metropolitano. Da ogni colore o sfumatura di toni, un senso differente da donare tanto ai personaggi quanto al paesaggio, così rilevante nella composizione di inquadrature calde e morbide.
In Manhunter (1986), ad esempio, attraverso uno stile formale misurato e ansiogeno, il tempo sembra non trascorrere in maniera convenzionale. Nel primo film significativo della carriera del regista americano - tratto dal romanzo best-seller Il delitto della terza luna di Thomas Harris e commissionato dal produttore Dino De Laurentiis - la notte si avvicina con gentilezza, pacata e riflessiva. L’abitazione dell’ex agente Fbi, Will Graham - cui la lunga caccia allo spietato assassino Dr. Hannibal Lecter ha causato delle turbe mentali tali da dover ricorrere ad un supporto psichiatrico - si affaccia sul mare e, sul fare della notte, viene colpita da colori rossastri e violetti che, nei momenti di intimità con la sua affascinante consorte, vengono sostituiti da un sensuale blu cobalto. Il blu raggiunge invece delle tonalità elettriche nelle sequenze in cui la famiglia del protagonista è in casa priva della presenza del suo effettivo custode e protettore.
Sono sfumature ben calibrate dal direttore della fotografia Dante Spinotti, percezioni cromatiche che immalinconiscono e sedano l’animo di quei tumulti tipici di una crisi professionale, investigativa e sentimentale. Un vero e proprio investigatore della mente che non può fare a meno di intraprendere un dialogo diretto, a dire il vero un soliloquio, con colui al quale sta dando la caccia e che ad ogni plenilunio, secondo le raccapriccianti azioni di un macabro rituale, sembra sempre più allontanarsi da un’ipotesi plausibile di cattura. La famiglia, come sempre accade nei film dove l’uomo si mette a caccia di un serial killer, viene messa in pericolo e allontanata precauzionalmente dal nido domestico.
Ed è da quella fase del conflitto a debita distanza che la notte, seppur illuminata in diversi frangenti da tonalità verde elettrico, ricopre come un manto, umidiccio e minaccioso, tutte le azioni dei personaggi. La ricerca della verità, la cattura dell’assassino, diviene conseguentemente una vera e propria ossessione maniacale che non sfocia mai pienamente nell’esplosione di una violenza esibita. Gran parte degli efferati delitti restano fuori scena, e il campo di azione si costella più di ombre notturne che di veri e propri resti di natura umana.
Will Graham è interpretato da un ottimo William Petersen, attore di formazione teatrale shakespeariana in quelli che sono gli anni migliori della sua carriera, proseguita in tempi recenti nella televisione. Petersen contribuisce fortemente a far sì che il turbamento si intrufoli sottopelle, sballando le pareti della mente, indecise sulle difese personali da prendersi nel caso in cui si finisca per smarrirsi. Per poter comprendere appieno il lavoro sulla notte, prima di arrivare a quella che è l’apoteosi del notturno nella filmografia di Mann, si deve per forza di cose partire da Manhunter, che risulta essere anche uno dei primi thriller capaci di scandagliare con audacia la specularità che lega il profiler al killer, unendo, in un filo di sottile ambiguità, ricercatore e ricercato.
A differenza di Manhunter, in Heat (1995) la notte diventa un’ipotetica e possibile via di fuga, un gioco del gatto col topo, ripetutamente rimandato, tra un poliziotto in crisi sentimentale e il capobanda di un gruppo di scriteriati malviventi. Stiamo parlando del tenente Vincent Hanna (un Al Pacino infiammabile e irruento) e Neil McCauley (un Robert De Niro trattenuto e allo stesso tempo impulsivo), due volti della stessa medaglia, due moderni Pat Garrett e Billy the Kid che amano sfidarsi alla luce del sole per poi rincorrersi, nel tentativo di catturarsi, nel profondo della notte. Un western metropolitano dalla linea monumentale, si direbbe, nonostante la sua ordinarietà nel soggetto, nel quale il gioco è bello perché dura a lungo e le parti si possono inaspettatamente invertire - a seconda delle occasioni o delle circostanze - osservate come una sorta di studio antropologico dei caratteri.
A dire il vero Heat non contiene molta azione di rilievo, ma una costante adrenalina trattenuta. È solo quando entrano in campo inseguitori ed inseguiti che il ritmo comincia a farsi più frenetico, deflagrando in concitate scene di caccia all’uomo. Su tutte, la lunga sequenza della sparatoria in pieno giorno a seguito della riflessiva chiacchierata tra i due protagonisti del film. Non si erano mai visti prima di allora nella stessa scena e De Niro e Pacino la tengono con la loro consueta classe di grandi interpreti. Michael Mann gestisce gli attori – ci sono molte facce note nei ruoli principali, fra le quali Val Kilmer, Tom Sizemore, Jon Voight, Diane Venora, Ashley Judd, Danny Trejo, una giovanissima Natalie Portman – e l’apparato visivo col cipiglio di colui che sa come intraprendere le mosse giuste.
Il risultato è un robusto poliziesco che, al contrario dei grandi esempi del passato, cerca di approfondire con parsimonia le caratteristiche psicologiche dei suoi protagonisti. Le modalità con cui Mann mette in scena i loro conflitti interiori, espressi attraverso l’immersivo reticolato urbano di una Los Angeles opaca e grezza, sono come imbalsamate in un silenzio rotto da improvvise occasioni di attacco, con il sonoro che sconquassa la calma apparente. Le armi sparano in maniera molto realistica e coloro che le possiedono vi si uccidono a bruciapelo.
C’è un’efficienza sicura che non si poggia su musiche ponderate utilizzate come riempitivi, ma che fa affidamento, piuttosto, sulle disamine dell’interiorità, su un romanticismo utopico e su un crepuscolarismo sensuale del quale il cinema di Mann è imbevuto sin dagli esordi (su tutti la serie Miami Vice). E nel finale, a seguito del lungo inseguimento a piedi in aeroporto, sono proprio le luci di zona, riflesse su quegli stessi aerei, che fungono in parte anche da riparo, a illuminare l’area buia. La notte avvolge gli sfidanti, fa temere per la loro pelle, e mai come in quel momento si percepisce una tensione palpabile.
Si capisce che si è giunti alla resa dei conti e che la notte è solamente una via di fuga. Ci sono maggiori possibilità di rifugio. Mann dà particolare importanza agli sguardi. Gli occhi di Al Pacino sono simili a quelli di un rapace, paiono avere un radar. Quelli di De Niro, invece, sembrano essere effettivamente quelli di una vittima designata che non ha più via di scampo. Quando si arriva a quel punto, le carte si scoprono e si ha quasi un’anticipazione del funesto finale.
Con Miami Vice (2006) Mann tende a cercare di recuperare quel fascino per l’estetica dei tramonti, per i toni più fiammeggianti, gli incroci più stranianti (e fuorvianti) e gli incontri più sensuali, privi però dell’umorismo tipico dei protagonisti della serie televisiva da cui il film è tratto (serie ideata negli anni ‘80 proprio dal regista). La notte è un ipnotico quadro nel quale perdersi e dissolversi. Non molto riuscito e calibrato dal punto di vista drammaturgico e della suspense rispetto ai capisaldi della cinematografia di Mann, Miami Vice affascina comunque per lo stiloso omaggio alla serie su cui si poggiano le azioni dei personaggi, interpretati dai funzionali Colin Farrel e Jamie Foxx.
La figura di Gong Li - seducente e ammaliante compagna del boss della quale il detective James Crockett, interpretato da Farrell, s’innamora - è il perno centrale di una narrazione sfocata, in totale balia del paesaggio notturno e dei suoi colori rassicuranti. Una storia che non entra mai in collisione con gli intenti dei personaggi, contrapposti ai conflitti che maturano dall’interno, esemplificati in riduttivi silenzi meditativi ed assorti al contesto di rappresentazione, mentre tutto dà la sensazione di dover andare in malora e terminare in spari che paiono fuochi d’artificio.
La tentazione di esplodere in sequenze di violenza, e di affidarsi ad un taglio melò, è trattenuta a favore di una dimensione da oasi di sospensione disarmonica, omogenea, e costantemente fedele alla passione per la tipica donna “proibita”. Non è il Mann capace di solidificare il culto per l’immagine con l’affidabilità per le scorciatoie narrative, e non ci sono situazioni che rimangono particolarmente impresse, ma quello che avvalora Miami Vice è, anche in questo caso, un’ipnotica rappresentazione della notte con i suoi inganni e le sue seduzioni.
Ma è con Collateral (2004), di pochissimo antecedente, che Michael Mann mette compiutamente a frutto tutta la sua idea di cinema condensata in due ore . E non è un caso che sia proprio questo film ad essere ambientato interamente di notte - con l’ausilio di speciali filtri per donare al digitale HD particolari tonalità cupe e quella granulosità da simil-pellicola che rendono le immagini come dei graffi sulla tela della skyline - e a narrare di una vicenda che scandisce il tempo reale secondo come lo si percepisce e vive nella scena. Un guidatore ed un passeggero in un taxi che si muove, come un modellino, sulla vasta scala di una Los Angeles straniante e dispersiva. Tra criminale di professione e cittadino modello si instaura una comunicazione subito diretta, tesa ma filosofica a tratti, dolente, nel tipico stile di Mann che cerca sempre di poggiarsi su una certa malinconia, utile a veicolare la bellezza del paesaggio e il fascino dell’oscurità.
In Collateral la notte è una vera e propria giungla dalla quale è impossibile uscire. Ad un certo punto, in una delle scene più significative e belle del film, quando il taxi con all’interno il glaciale Vincent si ferma ad un semaforo, passa davanti al veicolo un coyote. L’animale attraversa la strada indisturbato, come se si trovasse lì in quel preciso istante nel tentativo di turbare i personaggi. Da lì, i caratteri mutano, la tensione subisce un’impennata e il sicario Vincent (interpretato da uno strepitoso Tom Cruise, con look ingrigito e per la prima volta in un ruolo negativo) diviene, a tutti gli effetti, un lupo. Un corpo tutto gesti e scatti quello di Cruise, che non ha il tempo materiale di rivedere i propri piani o tornare sui suoi passi. Non ci sono alternative, non c’è percorso sostitutivo. Il tassista Max (Jamie Foxx) è invece confuso e spaventato e fa quel che può cercando di mantenere il sangue freddo e di controllare le emozioni, per quanto possibile.
L’idea geniale del film sta tutta nella manovra di mettere dentro lo stesso taxi due personaggi che hanno vite nettamente in contrapposizione e che per una lunga notte sono costretti a condividerle, pena il prolungamento della lunga catena di omicidi in corso di composizione. La sceneggiatura stavolta è di Stuart Beattie, mentre Mann si limita - ricavandone però uno scatto sorprendente proprio nelle modalità di utilizzo del digitale in notturna - a dirigere da regista navigato, calibrando perfettamente le sue idee agli spunti narrativi. Con cura il cineasta pone grande attenzione ai particolari, che siano fermamente psicologici o dettati dalla dinamicità delle situazioni.
I cinque appuntamenti con la morte di Vincent, le cinque tappe punitive secondo il volere del sicario professionista, sono una sorta di pulizia dell’ inutile feccia della criminalità organizzata. Coloro che escono allo scoperto proprio di notte, coloro che vivono nella notte, di giorno si limitano a pianificare dai rifugi segreti delle loro case o a godersi l’aria di mare a seguito di un colpo fortunato.
È proprio questa feccia che sopravvive senza il rimorso di aver lasciato vedove molte donne, quelle stesse vedove che il poliziotto Vincent Hanna (Al Pacino in Heat) cerca di proteggere. “Sappi che se dovessi scegliere tra un uomo che rischia di lasciar vedova una donna e te, io scelgo te, senza esitazioni”, dice a Neil McCauley (De Niro). Cose che si dicono nell’oscurità, proprio quando ci si sente meno sicuri, che sia al tavolo di un bar o all’interno di un taxi. Purché avvenga, sempre e comunque, nel cuore della notte.
La rappresentazione del notturno nel cinema
di un caposcuola del noir moderno,
di Federico Mattioni
TR-86
07.10.2023
C’è una fascinazione immersiva per la notte nel cinema di Michael Mann. Una modalità di immedesimazione che, di volta in volta, raccoglie tonalità differenti nel tentativo di catturare la magia di un momento o le impressioni di una stasi emotiva filtrata nel paesaggio metropolitano. Da ogni colore o sfumatura di toni, un senso differente da donare tanto ai personaggi quanto al paesaggio, così rilevante nella composizione di inquadrature calde e morbide.
In Manhunter (1986), ad esempio, attraverso uno stile formale misurato e ansiogeno, il tempo sembra non trascorrere in maniera convenzionale. Nel primo film significativo della carriera del regista americano - tratto dal romanzo best-seller Il delitto della terza luna di Thomas Harris e commissionato dal produttore Dino De Laurentiis - la notte si avvicina con gentilezza, pacata e riflessiva. L’abitazione dell’ex agente Fbi, Will Graham - cui la lunga caccia allo spietato assassino Dr. Hannibal Lecter ha causato delle turbe mentali tali da dover ricorrere ad un supporto psichiatrico - si affaccia sul mare e, sul fare della notte, viene colpita da colori rossastri e violetti che, nei momenti di intimità con la sua affascinante consorte, vengono sostituiti da un sensuale blu cobalto. Il blu raggiunge invece delle tonalità elettriche nelle sequenze in cui la famiglia del protagonista è in casa priva della presenza del suo effettivo custode e protettore.
Sono sfumature ben calibrate dal direttore della fotografia Dante Spinotti, percezioni cromatiche che immalinconiscono e sedano l’animo di quei tumulti tipici di una crisi professionale, investigativa e sentimentale. Un vero e proprio investigatore della mente che non può fare a meno di intraprendere un dialogo diretto, a dire il vero un soliloquio, con colui al quale sta dando la caccia e che ad ogni plenilunio, secondo le raccapriccianti azioni di un macabro rituale, sembra sempre più allontanarsi da un’ipotesi plausibile di cattura. La famiglia, come sempre accade nei film dove l’uomo si mette a caccia di un serial killer, viene messa in pericolo e allontanata precauzionalmente dal nido domestico.
Ed è da quella fase del conflitto a debita distanza che la notte, seppur illuminata in diversi frangenti da tonalità verde elettrico, ricopre come un manto, umidiccio e minaccioso, tutte le azioni dei personaggi. La ricerca della verità, la cattura dell’assassino, diviene conseguentemente una vera e propria ossessione maniacale che non sfocia mai pienamente nell’esplosione di una violenza esibita. Gran parte degli efferati delitti restano fuori scena, e il campo di azione si costella più di ombre notturne che di veri e propri resti di natura umana.
Will Graham è interpretato da un ottimo William Petersen, attore di formazione teatrale shakespeariana in quelli che sono gli anni migliori della sua carriera, proseguita in tempi recenti nella televisione. Petersen contribuisce fortemente a far sì che il turbamento si intrufoli sottopelle, sballando le pareti della mente, indecise sulle difese personali da prendersi nel caso in cui si finisca per smarrirsi. Per poter comprendere appieno il lavoro sulla notte, prima di arrivare a quella che è l’apoteosi del notturno nella filmografia di Mann, si deve per forza di cose partire da Manhunter, che risulta essere anche uno dei primi thriller capaci di scandagliare con audacia la specularità che lega il profiler al killer, unendo, in un filo di sottile ambiguità, ricercatore e ricercato.
A differenza di Manhunter, in Heat (1995) la notte diventa un’ipotetica e possibile via di fuga, un gioco del gatto col topo, ripetutamente rimandato, tra un poliziotto in crisi sentimentale e il capobanda di un gruppo di scriteriati malviventi. Stiamo parlando del tenente Vincent Hanna (un Al Pacino infiammabile e irruento) e Neil McCauley (un Robert De Niro trattenuto e allo stesso tempo impulsivo), due volti della stessa medaglia, due moderni Pat Garrett e Billy the Kid che amano sfidarsi alla luce del sole per poi rincorrersi, nel tentativo di catturarsi, nel profondo della notte. Un western metropolitano dalla linea monumentale, si direbbe, nonostante la sua ordinarietà nel soggetto, nel quale il gioco è bello perché dura a lungo e le parti si possono inaspettatamente invertire - a seconda delle occasioni o delle circostanze - osservate come una sorta di studio antropologico dei caratteri.
A dire il vero Heat non contiene molta azione di rilievo, ma una costante adrenalina trattenuta. È solo quando entrano in campo inseguitori ed inseguiti che il ritmo comincia a farsi più frenetico, deflagrando in concitate scene di caccia all’uomo. Su tutte, la lunga sequenza della sparatoria in pieno giorno a seguito della riflessiva chiacchierata tra i due protagonisti del film. Non si erano mai visti prima di allora nella stessa scena e De Niro e Pacino la tengono con la loro consueta classe di grandi interpreti. Michael Mann gestisce gli attori – ci sono molte facce note nei ruoli principali, fra le quali Val Kilmer, Tom Sizemore, Jon Voight, Diane Venora, Ashley Judd, Danny Trejo, una giovanissima Natalie Portman – e l’apparato visivo col cipiglio di colui che sa come intraprendere le mosse giuste.
Il risultato è un robusto poliziesco che, al contrario dei grandi esempi del passato, cerca di approfondire con parsimonia le caratteristiche psicologiche dei suoi protagonisti. Le modalità con cui Mann mette in scena i loro conflitti interiori, espressi attraverso l’immersivo reticolato urbano di una Los Angeles opaca e grezza, sono come imbalsamate in un silenzio rotto da improvvise occasioni di attacco, con il sonoro che sconquassa la calma apparente. Le armi sparano in maniera molto realistica e coloro che le possiedono vi si uccidono a bruciapelo.
C’è un’efficienza sicura che non si poggia su musiche ponderate utilizzate come riempitivi, ma che fa affidamento, piuttosto, sulle disamine dell’interiorità, su un romanticismo utopico e su un crepuscolarismo sensuale del quale il cinema di Mann è imbevuto sin dagli esordi (su tutti la serie Miami Vice). E nel finale, a seguito del lungo inseguimento a piedi in aeroporto, sono proprio le luci di zona, riflesse su quegli stessi aerei, che fungono in parte anche da riparo, a illuminare l’area buia. La notte avvolge gli sfidanti, fa temere per la loro pelle, e mai come in quel momento si percepisce una tensione palpabile.
Si capisce che si è giunti alla resa dei conti e che la notte è solamente una via di fuga. Ci sono maggiori possibilità di rifugio. Mann dà particolare importanza agli sguardi. Gli occhi di Al Pacino sono simili a quelli di un rapace, paiono avere un radar. Quelli di De Niro, invece, sembrano essere effettivamente quelli di una vittima designata che non ha più via di scampo. Quando si arriva a quel punto, le carte si scoprono e si ha quasi un’anticipazione del funesto finale.
Con Miami Vice (2006) Mann tende a cercare di recuperare quel fascino per l’estetica dei tramonti, per i toni più fiammeggianti, gli incroci più stranianti (e fuorvianti) e gli incontri più sensuali, privi però dell’umorismo tipico dei protagonisti della serie televisiva da cui il film è tratto (serie ideata negli anni ‘80 proprio dal regista). La notte è un ipnotico quadro nel quale perdersi e dissolversi. Non molto riuscito e calibrato dal punto di vista drammaturgico e della suspense rispetto ai capisaldi della cinematografia di Mann, Miami Vice affascina comunque per lo stiloso omaggio alla serie su cui si poggiano le azioni dei personaggi, interpretati dai funzionali Colin Farrel e Jamie Foxx.
La figura di Gong Li - seducente e ammaliante compagna del boss della quale il detective James Crockett, interpretato da Farrell, s’innamora - è il perno centrale di una narrazione sfocata, in totale balia del paesaggio notturno e dei suoi colori rassicuranti. Una storia che non entra mai in collisione con gli intenti dei personaggi, contrapposti ai conflitti che maturano dall’interno, esemplificati in riduttivi silenzi meditativi ed assorti al contesto di rappresentazione, mentre tutto dà la sensazione di dover andare in malora e terminare in spari che paiono fuochi d’artificio.
La tentazione di esplodere in sequenze di violenza, e di affidarsi ad un taglio melò, è trattenuta a favore di una dimensione da oasi di sospensione disarmonica, omogenea, e costantemente fedele alla passione per la tipica donna “proibita”. Non è il Mann capace di solidificare il culto per l’immagine con l’affidabilità per le scorciatoie narrative, e non ci sono situazioni che rimangono particolarmente impresse, ma quello che avvalora Miami Vice è, anche in questo caso, un’ipnotica rappresentazione della notte con i suoi inganni e le sue seduzioni.
Ma è con Collateral (2004), di pochissimo antecedente, che Michael Mann mette compiutamente a frutto tutta la sua idea di cinema condensata in due ore . E non è un caso che sia proprio questo film ad essere ambientato interamente di notte - con l’ausilio di speciali filtri per donare al digitale HD particolari tonalità cupe e quella granulosità da simil-pellicola che rendono le immagini come dei graffi sulla tela della skyline - e a narrare di una vicenda che scandisce il tempo reale secondo come lo si percepisce e vive nella scena. Un guidatore ed un passeggero in un taxi che si muove, come un modellino, sulla vasta scala di una Los Angeles straniante e dispersiva. Tra criminale di professione e cittadino modello si instaura una comunicazione subito diretta, tesa ma filosofica a tratti, dolente, nel tipico stile di Mann che cerca sempre di poggiarsi su una certa malinconia, utile a veicolare la bellezza del paesaggio e il fascino dell’oscurità.
In Collateral la notte è una vera e propria giungla dalla quale è impossibile uscire. Ad un certo punto, in una delle scene più significative e belle del film, quando il taxi con all’interno il glaciale Vincent si ferma ad un semaforo, passa davanti al veicolo un coyote. L’animale attraversa la strada indisturbato, come se si trovasse lì in quel preciso istante nel tentativo di turbare i personaggi. Da lì, i caratteri mutano, la tensione subisce un’impennata e il sicario Vincent (interpretato da uno strepitoso Tom Cruise, con look ingrigito e per la prima volta in un ruolo negativo) diviene, a tutti gli effetti, un lupo. Un corpo tutto gesti e scatti quello di Cruise, che non ha il tempo materiale di rivedere i propri piani o tornare sui suoi passi. Non ci sono alternative, non c’è percorso sostitutivo. Il tassista Max (Jamie Foxx) è invece confuso e spaventato e fa quel che può cercando di mantenere il sangue freddo e di controllare le emozioni, per quanto possibile.
L’idea geniale del film sta tutta nella manovra di mettere dentro lo stesso taxi due personaggi che hanno vite nettamente in contrapposizione e che per una lunga notte sono costretti a condividerle, pena il prolungamento della lunga catena di omicidi in corso di composizione. La sceneggiatura stavolta è di Stuart Beattie, mentre Mann si limita - ricavandone però uno scatto sorprendente proprio nelle modalità di utilizzo del digitale in notturna - a dirigere da regista navigato, calibrando perfettamente le sue idee agli spunti narrativi. Con cura il cineasta pone grande attenzione ai particolari, che siano fermamente psicologici o dettati dalla dinamicità delle situazioni.
I cinque appuntamenti con la morte di Vincent, le cinque tappe punitive secondo il volere del sicario professionista, sono una sorta di pulizia dell’ inutile feccia della criminalità organizzata. Coloro che escono allo scoperto proprio di notte, coloro che vivono nella notte, di giorno si limitano a pianificare dai rifugi segreti delle loro case o a godersi l’aria di mare a seguito di un colpo fortunato.
È proprio questa feccia che sopravvive senza il rimorso di aver lasciato vedove molte donne, quelle stesse vedove che il poliziotto Vincent Hanna (Al Pacino in Heat) cerca di proteggere. “Sappi che se dovessi scegliere tra un uomo che rischia di lasciar vedova una donna e te, io scelgo te, senza esitazioni”, dice a Neil McCauley (De Niro). Cose che si dicono nell’oscurità, proprio quando ci si sente meno sicuri, che sia al tavolo di un bar o all’interno di un taxi. Purché avvenga, sempre e comunque, nel cuore della notte.