NC-44
24.02.2021
Malcolm è euforico, di ritorno dalla prima del suo ultimo film da regista, balla per casa sulle note di James Brown. La serata appena conclusa sembra essere andata per il meglio, tra l’entusiasmo del pubblico e il consenso unanime della critica. Tanta l’euforia che pare non accorgersi del nervosismo di Marie, sua attuale compagna con un passato da tossicodipendente. Girato in 35 mm in un elegante bianco e nero, Malcolm & Marie è o forse ha l’ambizione di essere un film profondamente autoriale. Tutto ruota intorno alla giovane coppia. Durante il discorso di ringraziamento in seguito alla proiezione del suo film, Malcolm ha dimenticato di ringraziare pubblicamente la sua compagna. A rendere ancor più grave questa dimenticanza c’è il fatto che il film prende ispirazione dalla vita di Marie, e dal suo passato complicato da abuso di sostanze stupefacenti. Sono emotivamente molto distanti, quindi sembrano pronti a colmare il vuoto tra loro, per poi separarsi ancora. Risentimenti, non detti e ferite vengono man mano a galla in questa dinamica a due.
Ma il fuoco vero e proprio divampa quando Malcolm viene a conoscenza della prima recensione al suo film. Con il cellulare stretto in mano, scopre che l’articolo in questione è a pagamento. Furioso, si muove per tutta la casa alla ricerca della carta di credito, sotto lo sguardo semi impassibile di Marie. Il momento è arrivato, Malcom visibilmente agitato scorre velocemente le tanto attese parole di giudizio della “critica bianca dell’ L.A. Times”. La giornalista parla del suo film come di un film politico, impegnato. La frustrazione di Malcolm cresce, mentre Marie gli ricorda che lui stesso apprezza i film politici. Malcolm si sente offeso dallo sguardo della giornalista che in quanto bianca ha una percezione di film politico, assolutamente distante dalla sua visione. Poco importa che reputi il film di Malcolm assolutamente geniale.
Il suo verboso monologo, a tratti eccessivamente sopra le righe, porta però la riflessione su una questione interessante. Quella del rapporto tra autore, opera d’arte e spettatore/critico. Ciò che emerge dallo sfogo di Malcolm è la maldisposizione ad abbandonare il proprio oggetto artistico consegnandolo nelle mani di altri, soprattutto nelle mani di coloro che hanno la possibilità di studiarlo, analizzarlo, interpretarlo rendendo pubbliche le loro considerazioni. La paura di essere frainteso, di non piacere o di essere banalizzato accende lo spirito del creativo, ed in questo caso di Malcolm. La critica odierna, troppo spesso, sembra correre alla ricerca quasi ossessiva di un significato recondito all’interno dell’oggetto artistico come se solo questo potesse conferire un vero valore all’opera. Ecco allora che l’occhio esperto della giornalista comincia a tirare in ballo la questione razziale, l’intenzione politica e così via. Ma il problema è più grave di così. Tutto è strettamente legato al fattore identitario. Come se l’identità dell’autore potesse in un processo quasi matematico definire le ragioni di determinate scelte o sviluppi narrativi. La questione razziale, secondo la critica bianca dell’LA Times, sarebbe centrale nel film di Malcolm date le sue origini afroamericane. Così come la scelta di sessualizzare il corpo della protagonista sarebbe una derivazione dell’orientamento eterosessuale del regista. “Il cinema non deve avere per forza un messaggio” grida Malcolm, ma deve essere fatto di energia ed emozione. Il problema tra creativi, artisti e critici esiste forse ancor prima che l’opera si materializzi.
Citando il personaggio di Riggan Thomson (Michael Keaton) in Birdman: “cosa deve succedere nella vita di una persona per spingerla a diventare un critico?”. Keaton nel film del regista messicano Alejandro González Iñárritu interpretava un attore teatrale, ma la questione sembra rimanere la stessa. Esiste una certa tendenza della critica ad etichettare sempre tutto. Forse per una voglia di controllo, o forse, rimanendo sulle parole di Riggan Thomson, per pigrizia. Sia Thomson che Malcolm sostengono che nei freddi giudizi critici non si faccia menzione di aspetti tecnici o artistici, sempre e solo etichette. Forse per ignoranza in materia oppure semplicemente per la suddetta pigrizia.
Accade quindi non di rado che il cinema rifletta su questa dinamica di rapporto non semplice tra creatore e destinatario dell’oggetto in questione. Come non citare in questo senso l’ormai iconica scena di Io e Annie, dove i due protagonisti, Woody Allen e Diane Keaton, sono l’uno accanto all’altra in fila per entrare al cinema. Allen, in particolare, mal sopporta gli invadenti sproloqui di un uomo appena dietro di loro che si lascia andare in commenti freddi e supponenti su Fellini prima e Beckett poi, per finire a pontificare sul sociologo Marshall McLuhan. La sequenza si conclude con McLuhan in carne ed ossa che, chiamato in causa da Allen, rimette a posto il presuntuoso scocciatore, smontando le sue tesi. Sarebbe bello se anche la vita reale funzionasse così, riflette amaramente Woody Allen stesso rivolgendosi direttamente a noi spettatori.
Cinema e vita in che relazione si pongono, e quali sono le differenze? In questa direzione si muove anche Holy Motors, capolavoro del cinema postmoderno del regista francese Leos Carax. È davvero complicato individuare il significato ultimo di Holy Motors, che cela al suo interno una stratificazione di profonde riflessioni e significati su quella che è l’identità dell’uomo moderno, il rapporto tra quest’ultimo, il cinema e la vita. Monsieur Oscar, protagonista del film, cambia costantemente maschera, è impossibile etichettarlo. Questo è forse dramma della condizione umana stessa, un flusso indistinto di comportamenti, pensieri e parole che una volta esternati vengono recepiti da interlocutori esterni, che per pigrizia o per un processo di razionalizzazione ingabbiano in categorie ben definite. In realtà questo processo, alla base del dramma sociale, è assai problematico, poiché è impossibile schematizzare ciò che sfugge ad ogni definizione: la vita.
Nel film di Carax c’è uno scambio di battute emblematico in questo senso. Riguarda un uomo misterioso e Monsieur Oscar. L’uomo chiede a Monsieur Oscar cosa lo faccia andare avanti, e quest’ultimo risponde che continua esattamente per il motivo per cui ha cominciato: la bellezza del gesto. L’uomo ribatte allora che la bellezza sta nell’occhio di chi guarda, ed è qui che interviene una voce fuori campo che sentenzia: “e se non c’è nessuno a guardare?”. Qui Carax non chiarisce ma spinge alla riflessione sul rapporto tra chi l’arte la crea e chi la guarda. Creatore e spettatore sono legati indissolubilmente, altrimenti non esisterebbe arte. Perchè la sua concretizzazione avviene quando dalla mente creativa dell’artista approda nello sguardo dell’interlocutore.
Tornando al punto di partenza, ovvero all’esasperato monologo di Malcolm, cosa ispiri un artista, quali siano le motivazioni dietro alle sue scelte, è un mistero. Sia nell’arte che nel cinema. I film non vanno spiegati, probabilmente vanno prima amati e poi compresi. La critica inibisce l’artista nel momento in cui egli stesso ne subisce il giudizio e ne viene drasticamente limitato al momento dell’atto creativo. L’audacia, il coraggio dovrebbero essere alla base dell’istinto creativo. Ma il limite del film di Sam Levinson risiede anche qui, non c’è audacia né coraggio. Malcolm & Marie nasce cresce e si sviluppa su sé stesso, sulla scelta di voler essere un film indipendente e profondamente autoriale. La radicata intenzionalità scavalca però l’istintualità e la sincerità, in un film che in fin dei conti risulta interessante, oltre che per essere esteticamente molto affascinante, solo per le questioni che mette sul tavolo, urlando per lo più. Un film che nasce con l’intento di voler essere “difficile” ma che di fatto non è difficile affatto. Un altro limite sta poi nella specificità delle questioni trattate: per quanto interessanti risultano troppo specifiche. Ed è questa settorialità a rendere l’idea di cinema di Malcolm & Marie piccola e limitata. A nulla servono le eleganti citazioni cinefile se i veri temi alla base della crisi della coppia sono urlati ma poco scavati ed approfonditi. Il film di Levinson dimostra quanto complicato sia il rapporto con lo spettatore, specialmente quando si è così intenti a dialogare con sé stessi in quello che somiglia più a un delirio egoriferito che a un dibattito sulla condizione odierna del cinema. Tante, tantissime parole, sfoghi e monologhi, in un insieme che a fine visione comunica veramente poco.
NC-44
24.02.2021
Malcolm è euforico, di ritorno dalla prima del suo ultimo film da regista, balla per casa sulle note di James Brown. La serata appena conclusa sembra essere andata per il meglio, tra l’entusiasmo del pubblico e il consenso unanime della critica. Tanta l’euforia che pare non accorgersi del nervosismo di Marie, sua attuale compagna con un passato da tossicodipendente. Girato in 35 mm in un elegante bianco e nero, Malcolm & Marie è o forse ha l’ambizione di essere un film profondamente autoriale. Tutto ruota intorno alla giovane coppia. Durante il discorso di ringraziamento in seguito alla proiezione del suo film, Malcolm ha dimenticato di ringraziare pubblicamente la sua compagna. A rendere ancor più grave questa dimenticanza c’è il fatto che il film prende ispirazione dalla vita di Marie, e dal suo passato complicato da abuso di sostanze stupefacenti. Sono emotivamente molto distanti, quindi sembrano pronti a colmare il vuoto tra loro, per poi separarsi ancora. Risentimenti, non detti e ferite vengono man mano a galla in questa dinamica a due.
Ma il fuoco vero e proprio divampa quando Malcolm viene a conoscenza della prima recensione al suo film. Con il cellulare stretto in mano, scopre che l’articolo in questione è a pagamento. Furioso, si muove per tutta la casa alla ricerca della carta di credito, sotto lo sguardo semi impassibile di Marie. Il momento è arrivato, Malcom visibilmente agitato scorre velocemente le tanto attese parole di giudizio della “critica bianca dell’ L.A. Times”. La giornalista parla del suo film come di un film politico, impegnato. La frustrazione di Malcolm cresce, mentre Marie gli ricorda che lui stesso apprezza i film politici. Malcolm si sente offeso dallo sguardo della giornalista che in quanto bianca ha una percezione di film politico, assolutamente distante dalla sua visione. Poco importa che reputi il film di Malcolm assolutamente geniale.
Il suo verboso monologo, a tratti eccessivamente sopra le righe, porta però la riflessione su una questione interessante. Quella del rapporto tra autore, opera d’arte e spettatore/critico. Ciò che emerge dallo sfogo di Malcolm è la maldisposizione ad abbandonare il proprio oggetto artistico consegnandolo nelle mani di altri, soprattutto nelle mani di coloro che hanno la possibilità di studiarlo, analizzarlo, interpretarlo rendendo pubbliche le loro considerazioni. La paura di essere frainteso, di non piacere o di essere banalizzato accende lo spirito del creativo, ed in questo caso di Malcolm. La critica odierna, troppo spesso, sembra correre alla ricerca quasi ossessiva di un significato recondito all’interno dell’oggetto artistico come se solo questo potesse conferire un vero valore all’opera. Ecco allora che l’occhio esperto della giornalista comincia a tirare in ballo la questione razziale, l’intenzione politica e così via. Ma il problema è più grave di così. Tutto è strettamente legato al fattore identitario. Come se l’identità dell’autore potesse in un processo quasi matematico definire le ragioni di determinate scelte o sviluppi narrativi. La questione razziale, secondo la critica bianca dell’LA Times, sarebbe centrale nel film di Malcolm date le sue origini afroamericane. Così come la scelta di sessualizzare il corpo della protagonista sarebbe una derivazione dell’orientamento eterosessuale del regista. “Il cinema non deve avere per forza un messaggio” grida Malcolm, ma deve essere fatto di energia ed emozione. Il problema tra creativi, artisti e critici esiste forse ancor prima che l’opera si materializzi.
Citando il personaggio di Riggan Thomson (Michael Keaton) in Birdman: “cosa deve succedere nella vita di una persona per spingerla a diventare un critico?”. Keaton nel film del regista messicano Alejandro González Iñárritu interpretava un attore teatrale, ma la questione sembra rimanere la stessa. Esiste una certa tendenza della critica ad etichettare sempre tutto. Forse per una voglia di controllo, o forse, rimanendo sulle parole di Riggan Thomson, per pigrizia. Sia Thomson che Malcolm sostengono che nei freddi giudizi critici non si faccia menzione di aspetti tecnici o artistici, sempre e solo etichette. Forse per ignoranza in materia oppure semplicemente per la suddetta pigrizia.
Accade quindi non di rado che il cinema rifletta su questa dinamica di rapporto non semplice tra creatore e destinatario dell’oggetto in questione. Come non citare in questo senso l’ormai iconica scena di Io e Annie, dove i due protagonisti, Woody Allen e Diane Keaton, sono l’uno accanto all’altra in fila per entrare al cinema. Allen, in particolare, mal sopporta gli invadenti sproloqui di un uomo appena dietro di loro che si lascia andare in commenti freddi e supponenti su Fellini prima e Beckett poi, per finire a pontificare sul sociologo Marshall McLuhan. La sequenza si conclude con McLuhan in carne ed ossa che, chiamato in causa da Allen, rimette a posto il presuntuoso scocciatore, smontando le sue tesi. Sarebbe bello se anche la vita reale funzionasse così, riflette amaramente Woody Allen stesso rivolgendosi direttamente a noi spettatori.
Cinema e vita in che relazione si pongono, e quali sono le differenze? In questa direzione si muove anche Holy Motors, capolavoro del cinema postmoderno del regista francese Leos Carax. È davvero complicato individuare il significato ultimo di Holy Motors, che cela al suo interno una stratificazione di profonde riflessioni e significati su quella che è l’identità dell’uomo moderno, il rapporto tra quest’ultimo, il cinema e la vita. Monsieur Oscar, protagonista del film, cambia costantemente maschera, è impossibile etichettarlo. Questo è forse dramma della condizione umana stessa, un flusso indistinto di comportamenti, pensieri e parole che una volta esternati vengono recepiti da interlocutori esterni, che per pigrizia o per un processo di razionalizzazione ingabbiano in categorie ben definite. In realtà questo processo, alla base del dramma sociale, è assai problematico, poiché è impossibile schematizzare ciò che sfugge ad ogni definizione: la vita.
Nel film di Carax c’è uno scambio di battute emblematico in questo senso. Riguarda un uomo misterioso e Monsieur Oscar. L’uomo chiede a Monsieur Oscar cosa lo faccia andare avanti, e quest’ultimo risponde che continua esattamente per il motivo per cui ha cominciato: la bellezza del gesto. L’uomo ribatte allora che la bellezza sta nell’occhio di chi guarda, ed è qui che interviene una voce fuori campo che sentenzia: “e se non c’è nessuno a guardare?”. Qui Carax non chiarisce ma spinge alla riflessione sul rapporto tra chi l’arte la crea e chi la guarda. Creatore e spettatore sono legati indissolubilmente, altrimenti non esisterebbe arte. Perchè la sua concretizzazione avviene quando dalla mente creativa dell’artista approda nello sguardo dell’interlocutore.
Tornando al punto di partenza, ovvero all’esasperato monologo di Malcolm, cosa ispiri un artista, quali siano le motivazioni dietro alle sue scelte, è un mistero. Sia nell’arte che nel cinema. I film non vanno spiegati, probabilmente vanno prima amati e poi compresi. La critica inibisce l’artista nel momento in cui egli stesso ne subisce il giudizio e ne viene drasticamente limitato al momento dell’atto creativo. L’audacia, il coraggio dovrebbero essere alla base dell’istinto creativo. Ma il limite del film di Sam Levinson risiede anche qui, non c’è audacia né coraggio. Malcolm & Marie nasce cresce e si sviluppa su sé stesso, sulla scelta di voler essere un film indipendente e profondamente autoriale. La radicata intenzionalità scavalca però l’istintualità e la sincerità, in un film che in fin dei conti risulta interessante, oltre che per essere esteticamente molto affascinante, solo per le questioni che mette sul tavolo, urlando per lo più. Un film che nasce con l’intento di voler essere “difficile” ma che di fatto non è difficile affatto. Un altro limite sta poi nella specificità delle questioni trattate: per quanto interessanti risultano troppo specifiche. Ed è questa settorialità a rendere l’idea di cinema di Malcolm & Marie piccola e limitata. A nulla servono le eleganti citazioni cinefile se i veri temi alla base della crisi della coppia sono urlati ma poco scavati ed approfonditi. Il film di Levinson dimostra quanto complicato sia il rapporto con lo spettatore, specialmente quando si è così intenti a dialogare con sé stessi in quello che somiglia più a un delirio egoriferito che a un dibattito sulla condizione odierna del cinema. Tante, tantissime parole, sfoghi e monologhi, in un insieme che a fine visione comunica veramente poco.