INT-09
10.09.2022
Al giorno d'oggi pochi cineasti italiani si possono definire davvero “originali”, uno di questi è certamente Andrea Pallaoro. Il regista classe 1982, doppia cittadinanza americana e italiana, rappresenta sicuramente un’eccezione. Pallaoro ha raggiunto la notorietà fin dalla sua opera prima: Medeas (2013), un adattamento moderno del mito della Medea ambientato in una provincia rurale americana. Il suo film successivo, Hannah (2017), ha bissato il clamore del primo lungometraggio e, alla 74ª Edizione della Mostra di Venezia, ha permesso alla protagonista Charlotte Rampling di vincere l’ambita Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.
Monica, la nuova pellicola di Pallaoro presentata in Concorso al Festival di Venezia, si focalizza, ancora una volta, su un personaggio femminile. La protagonista è una donna transessuale (interpretata dalla straordinaria Trace Lysette) che, dopo una lunga assenza, ritorna dalla madre malata di cancro, per prendersi cura di lei ed essere presente nei suoi ultimi momenti. Negli anni precedenti le due donne si erano allontanate soprattutto perché la madre non era riuscita ad accettare il “cambiamento” della figlia. Monica è un film originale ed audace, e forse una delle poche, se non l’unica produzione italiana, a raccontare con spessore la storia di una donna transessuale.
Abbiamo avuto l’enorme piacere di intervistare Andrea Pallaoro alla Mostra del Cinema di Venezia e, davanti a un bicchiere di champagne, abbiamo parlato delle motivazioni che l’hanno spinto a raccontare questa storia.
Andrea, è da più di un mese che cerchiamo di intervistarti e finalmente ti abbiamo raggiunto.
Siamo dei grandi ammiratori del tuo lavoro, sin dal tuo primo film, Medeas. Ti vogliamo chiedere, tu sei un regista italiano ma hai sempre girato all’estero con attori stranieri. Farai mai un film in Italia?
Sì, ho intenzione di farlo e spero che accadrà presto, attualmente sto sviluppando un progetto ambientato in Italia. Ma non posso dire niente a riguardo.
Oggi abbiamo avuto modo di parlare con Trace Lysette, che nel tuo film, Monica, ha regalato una grande performance. Ci ha detto che hai cercata a lungo l’attrice giusta che potesse interpretare questa storia. Ci vuoi dire qualcosa in merito al lavoro di casting che ti ha portato a lei?
Sì, è stato un processo lungo e complesso, durato più di un anno. Ho visto più di trenta candidate per il ruolo. Però devo dire che appena ho visto Trace, ero sicuro che fosse lei. Avevo capito istintivamente che lei era la persona giusta per incarnare lo stato emotivo e psicologico che volevo esplorare per raccontare il personaggio di Monica.
Una domanda tecnica sulla scelta dell'aspect ratio, il formato ristretto con cui hai girato il film. Solitamente questa scelta spinge i registi ad insistere sui primi piani. Però nel tuo caso, decidi molte volte di evitare i volti. Ad esempio nella scena in cui Monica guida, perché hai scelto di tagliare il suo volto?
Questa è una bella domanda. Inizio partendo dal formato: è un aspect ratio 1.2:1. Io e il direttore della fotografia abbiamo optato per questa scelta in modo da privilegiare il corpo del soggetto rispetto al paesaggio. Questo enfatizza la codipendenza che due o più corpi possono avere all’interno dell’inquadratura. Questo formato spinge anche a un senso di claustrofobia. In più ci ha permesso di lavorare in sottrazione, dando più valore al fuori campo, nascondendo piuttosto che mostrando. Questo formato crea una frammentazione dell’immagine. Questo porta lo spettatore ad usare il fuori campo in un modo più attivo, sottolineando il rapporto tra l’interno e l’esterno in una dimensione psicologica e fisica dei personaggi.
Monica con la sua famiglia in una scena del film
Il film è raccontato perlopiù attraverso inquadrature fisse, eccetto alcune sequenze in cui hai scelto di dare movimento all’immagine. C’è qualche significato preciso dietro a queste scelte?
I movimenti per me sono necessari per conferire un ritmo al film, e non parlo solamente di ritmo estetico, ma parlo di un movimento emotivo. In molte inquadrature siamo così vicini a Monica che percepiamo il suo senso di claustrofobia. I momenti in cui respiriamo sono altrettanto importanti, e questi sono quando uso la camera a mano e seguiamo il personaggio nello spazio.
Nella scena finale, vediamo Monica che ascolta il nipote che canta l’inno americano. Perché questa scelta così specifica
Volevo lasciare lo spettatore con una sensazione di speranza, speranza nei confronti del futuro. Nel film Monica stabilisce un rapporto cruciale con il nipote. Monica ha la consapevolezza che il nipote non vivrà le stesse dinamiche che ha vissuto lei, non dovrà essere vittima e non dovrà nascondersi in futuro.
Normalmente nei film con personaggi transgender, l’approccio è quello di raccontare la loro storia con uno stampo drammatico. Il tuo film ha un punto di vista più tenue nei confronti di questa tematica. Anche quando Monica torna a casa e rivela alla madre di essere sua figlia. Tutto è molto sottinteso e delicato.
Questi, per quanto mi riguarda, sono momenti preziosissimi per il cinema. Per me sono momenti che ci danno la possibilità di rifletterci nella storia ed entrare in un rapporto di introspezione con i personaggi, perché non sono momenti facilmente digeribili e hanno bisogno di un coinvolgimento attivo, individuale e indipendente da parte dello spettatore. Per me questa è la grande catarsi che il cinema offre. È attraverso questa proiezione che noi stessi ci capiamo meglio, esploriamo chi siamo, la nostra identità e anche il mondo che ci circonda.
Parlaci di Patricia Clarkson, secondo noi è una delle attrici più sottovalutate del panorama cinematografico americano. Concordi?
Concordo assolutamente, è un’attrice straordinaria, incredibile. Ho sempre sognato di lavorare con lei. Ci siamo conosciuti nel 2013 a Marrakech, in una giuria presieduta da Martin Scorsese, con Paolo Sorrentino, Fatih Akin, Park Chan Wook, Marion Cotillard e appunto, Patricia Clarkson. Una giuria incredibile. In quell’occasione ho vinto il premio come miglior regista. Mi ricordo che ci siamo detti "un giorno dovremmo lavorare insieme". Questo sogno poi effettivamente si è realizzato.
Andrea Pallaoro, Patricia Clarkson e Trace Lysette al photocall di Venezia 79
Qual’é la nazionalità del film? Questo è un film americano? Italiano?
Spesso nei festival, sono le origini del regista a conferire la nazionalità al film. Per me questa è una pellicola che racconta una storia statunitense, con un cast americano e girata in territorio americano. Certo le mie radici sono italiane, ma io lo vedo come un film senza geografia. Ma se dovessi dargliela, io direi sia americano che italiano.
Crede che questa storia avrebbe avuto senso in Italia? L’avrebbe potuta girare qui? Attualmente non esistono attori transessuali nel nostro paese. È importante che ci sia un regista italiano che esplori queste dinamiche.
Avrei esplorato delle dinamiche relazionali e delle atmosfere simili, ma non sarebbe stata esattamente questa storia. È stato molto difficile raccogliere i fondi per fare questo film, la transessualità è ancora un argomento ostico nel cinema.
Ma siamo nel 2022, queste storie devono essere raccontate.
Il mio augurio è quello che, attraverso la storia di Monica, il pubblico possa intraprendere un percorso in cui piano piano, le persone possano abbattere i muri della paura e dell’ignoranza che si ergono nei confronti del diverso. È importante valorizzare i diritti delle minoranze. Per quanto riguarda i diritti dei transessuali, è fondamentale che vengano trattati come diritti di esseri umani. Perché questo è quello che sono prima di tutto: esseri umani. Una società che salvaguarda questi diritti è una società migliore per tutti.
INT-09
10.09.2022
Al giorno d'oggi pochi cineasti italiani si possono definire davvero “originali”, uno di questi è certamente Andrea Pallaoro. Il regista classe 1982, doppia cittadinanza americana e italiana, rappresenta sicuramente un’eccezione. Pallaoro ha raggiunto la notorietà fin dalla sua opera prima: Medeas (2013), un adattamento moderno del mito della Medea ambientato in una provincia rurale americana. Il suo film successivo, Hannah (2017), ha bissato il clamore del primo lungometraggio e, alla 74ª Edizione della Mostra di Venezia, ha permesso alla protagonista Charlotte Rampling di vincere l’ambita Coppa Volpi per la miglior interpretazione femminile.
Monica, la nuova pellicola di Pallaoro presentata in Concorso al Festival di Venezia, si focalizza, ancora una volta, su un personaggio femminile. La protagonista è una donna transessuale (interpretata dalla straordinaria Trace Lysette) che, dopo una lunga assenza, ritorna dalla madre malata di cancro, per prendersi cura di lei ed essere presente nei suoi ultimi momenti. Negli anni precedenti le due donne si erano allontanate soprattutto perché la madre non era riuscita ad accettare il “cambiamento” della figlia. Monica è un film originale ed audace, e forse una delle poche, se non l’unica produzione italiana, a raccontare con spessore la storia di una donna transessuale.
Abbiamo avuto l’enorme piacere di intervistare Andrea Pallaoro alla Mostra del Cinema di Venezia e, davanti a un bicchiere di champagne, abbiamo parlato delle motivazioni che l’hanno spinto a raccontare questa storia.
Andrea, è da più di un mese che cerchiamo di intervistarti e finalmente ti abbiamo raggiunto.
Siamo dei grandi ammiratori del tuo lavoro, sin dal tuo primo film, Medeas. Ti vogliamo chiedere, tu sei un regista italiano ma hai sempre girato all’estero con attori stranieri. Farai mai un film in Italia?
Sì, ho intenzione di farlo e spero che accadrà presto, attualmente sto sviluppando un progetto ambientato in Italia. Ma non posso dire niente a riguardo.
Oggi abbiamo avuto modo di parlare con Trace Lysette, che nel tuo film, Monica, ha regalato una grande performance. Ci ha detto che hai cercata a lungo l’attrice giusta che potesse interpretare questa storia. Ci vuoi dire qualcosa in merito al lavoro di casting che ti ha portato a lei?
Sì, è stato un processo lungo e complesso, durato più di un anno. Ho visto più di trenta candidate per il ruolo. Però devo dire che appena ho visto Trace, ero sicuro che fosse lei. Avevo capito istintivamente che lei era la persona giusta per incarnare lo stato emotivo e psicologico che volevo esplorare per raccontare il personaggio di Monica.
Una domanda tecnica sulla scelta dell'aspect ratio, il formato ristretto con cui hai girato il film. Solitamente questa scelta spinge i registi ad insistere sui primi piani. Però nel tuo caso, decidi molte volte di evitare i volti. Ad esempio nella scena in cui Monica guida, perché hai scelto di tagliare il suo volto?
Questa è una bella domanda. Inizio partendo dal formato: è un aspect ratio 1.2:1. Io e il direttore della fotografia abbiamo optato per questa scelta in modo da privilegiare il corpo del soggetto rispetto al paesaggio. Questo enfatizza la codipendenza che due o più corpi possono avere all’interno dell’inquadratura. Questo formato spinge anche a un senso di claustrofobia. In più ci ha permesso di lavorare in sottrazione, dando più valore al fuori campo, nascondendo piuttosto che mostrando. Questo formato crea una frammentazione dell’immagine. Questo porta lo spettatore ad usare il fuori campo in un modo più attivo, sottolineando il rapporto tra l’interno e l’esterno in una dimensione psicologica e fisica dei personaggi.
Monica con la sua famiglia in una scena del film
Il film è raccontato perlopiù attraverso inquadrature fisse, eccetto alcune sequenze in cui hai scelto di dare movimento all’immagine. C’è qualche significato preciso dietro a queste scelte?
I movimenti per me sono necessari per conferire un ritmo al film, e non parlo solamente di ritmo estetico, ma parlo di un movimento emotivo. In molte inquadrature siamo così vicini a Monica che percepiamo il suo senso di claustrofobia. I momenti in cui respiriamo sono altrettanto importanti, e questi sono quando uso la camera a mano e seguiamo il personaggio nello spazio.
Nella scena finale, vediamo Monica che ascolta il nipote che canta l’inno americano. Perché questa scelta così specifica
Volevo lasciare lo spettatore con una sensazione di speranza, speranza nei confronti del futuro. Nel film Monica stabilisce un rapporto cruciale con il nipote. Monica ha la consapevolezza che il nipote non vivrà le stesse dinamiche che ha vissuto lei, non dovrà essere vittima e non dovrà nascondersi in futuro.
Normalmente nei film con personaggi transgender, l’approccio è quello di raccontare la loro storia con uno stampo drammatico. Il tuo film ha un punto di vista più tenue nei confronti di questa tematica. Anche quando Monica torna a casa e rivela alla madre di essere sua figlia. Tutto è molto sottinteso e delicato.
Questi, per quanto mi riguarda, sono momenti preziosissimi per il cinema. Per me sono momenti che ci danno la possibilità di rifletterci nella storia ed entrare in un rapporto di introspezione con i personaggi, perché non sono momenti facilmente digeribili e hanno bisogno di un coinvolgimento attivo, individuale e indipendente da parte dello spettatore. Per me questa è la grande catarsi che il cinema offre. È attraverso questa proiezione che noi stessi ci capiamo meglio, esploriamo chi siamo, la nostra identità e anche il mondo che ci circonda.
Parlaci di Patricia Clarkson, secondo noi è una delle attrici più sottovalutate del panorama cinematografico americano. Concordi?
Concordo assolutamente, è un’attrice straordinaria, incredibile. Ho sempre sognato di lavorare con lei. Ci siamo conosciuti nel 2013 a Marrakech, in una giuria presieduta da Martin Scorsese, con Paolo Sorrentino, Fatih Akin, Park Chan Wook, Marion Cotillard e appunto, Patricia Clarkson. Una giuria incredibile. In quell’occasione ho vinto il premio come miglior regista. Mi ricordo che ci siamo detti "un giorno dovremmo lavorare insieme". Questo sogno poi effettivamente si è realizzato.
Andrea Pallaoro, Patricia Clarkson e Trace Lysette al photocall di Venezia 79
Qual’é la nazionalità del film? Questo è un film americano? Italiano?
Spesso nei festival, sono le origini del regista a conferire la nazionalità al film. Per me questa è una pellicola che racconta una storia statunitense, con un cast americano e girata in territorio americano. Certo le mie radici sono italiane, ma io lo vedo come un film senza geografia. Ma se dovessi dargliela, io direi sia americano che italiano.
Crede che questa storia avrebbe avuto senso in Italia? L’avrebbe potuta girare qui? Attualmente non esistono attori transessuali nel nostro paese. È importante che ci sia un regista italiano che esplori queste dinamiche.
Avrei esplorato delle dinamiche relazionali e delle atmosfere simili, ma non sarebbe stata esattamente questa storia. È stato molto difficile raccogliere i fondi per fare questo film, la transessualità è ancora un argomento ostico nel cinema.
Ma siamo nel 2022, queste storie devono essere raccontate.
Il mio augurio è quello che, attraverso la storia di Monica, il pubblico possa intraprendere un percorso in cui piano piano, le persone possano abbattere i muri della paura e dell’ignoranza che si ergono nei confronti del diverso. È importante valorizzare i diritti delle minoranze. Per quanto riguarda i diritti dei transessuali, è fondamentale che vengano trattati come diritti di esseri umani. Perché questo è quello che sono prima di tutto: esseri umani. Una società che salvaguarda questi diritti è una società migliore per tutti.