NC-248
06.11.2024
Il calendario, di solito, si appende in cucina sotto l’orologio, come a creare un asse simmetrico e incrementale di scansione del tempo. I secondi diventano ore, che diventano giorni, che diventano settimane, fino a che le caselle si esauriscono, e bisogna comprarne uno nuovo. Oltre che dal meteo e dalla notte che si avvicina o si allontana, sui calendari i mesi vengono contraddistinti da un’immagine - un’ape che raccoglie il polline, un'aerea dell’Empire State Building, un quadro di Miró - che in un modo o nell’altro cerca di racchiudere l’essenza di questa particolare trentina di giorni.
Per questo Novembre, al posto della singola illustrazione a cui siamo abituati, ODG pubblicherà una selezione di dieci film da vedere durante il mese, appositamente scelti per marcare ricorrenze, anniversari e affinità umorali.
7 Novembre. Europa’51 (1952) di Roberto Rossellini
Roberto Rossellini mette in scena un deragliamento fisico/psicologico, dettato soprattutto da una voglia di fuga nei confronti della realtà italiana dell’epoca, turbata ancora dagli orrori della guerra e falsamente condotta verso i miracoli del boom economico, che risalterà ulteriormente lo scarto tra il progresso industriale e la moralità dell’essere umano. Europa ’51, sebbene abbia molti punti in comune con la filmografia di un altro illustre regista come Bresson, se ne distacca soprattutto per l’uso che fa dei suoi personaggi. Se nei film del regista francese i protagonisti sono anime eteree in pena, completamente al di fuori del contesto sociale, dello spazio e del tempo presente, Rossellini diventa decisamente più concreto, politico nella sua denuncia dei disastri italiani del Dopoguerra, e nonostante la ri-acquisizione della purezza dei propri personaggi attraverso un percorso netto, abbraccia una condizione esistenziale che è metafora di uno Stato che deve ancora ritrovare sé stesso per uscire da quella prigione che la Seconda Guerra Mondiale ha creato.
Disponibile su RaiPlay.
8 Novembre. Il Grande Freddo (1983) di Lawrence Kasdan
Lo spettro della morte aleggia sul decennio più importante (soprattutto dal punto di vista della crescita socio-economica) della Storia americana. Il Grande Freddo, meraviglioso film tragicomico firmato da Lawrence Kasdan, prende la morte (portandola poi ad invertirsi di senso e a diventare rinascita) come metafora per costruire un racconto di rampanti yuppie che scendono a patti con la "caduta" personale, e soprattutto con l'edonismo americano, per affrontare e sconfiggere i loro fantasmi. Nella storia che coinvolge i sette amici presenti al funerale di Alex Marshall (i cui polsi, unica parte visibile nel corso del film, sono di una vera e propria istituzione hollywoodiana qual è tutt’ora Kevin Costner), c’è spazio in primis per un racconto nostalgico che rimpiange la gioventù e si interroga sui cambiamenti negativi che la società statunitense ha subito dagli anni ’60 agli anni ’80, ma soprattutto c’è lo spazio per costruire un racconto anti-generazionale, in completa opposizione con la moda dell’epoca, che piuttosto che rifugiarsi in facili happy ending e in melense scelte narrative, preferisce mettere in opposizione l'allegria del gospel dei Rolling Stones e, in generale del blues/rock'n'roll anni '70, con un mood funereo, perfetto per il racconto di “fantasmi” che Kasdan propone su schermo attraverso questa splendida anti-commedia.
Disponibile su TimVision e noleggiabile su Youtube, Apple Tv, Google Play Film e Amazon Prime Video.
10 Novembre. Pom Poko (1994) di Isao Takahata
Isao Takahata è stato uno dei registi più sovversivi del cinema giapponese moderno. In Pom Poko, film d’animazione del 1994 con protagonisti una banda di procioni, i cosiddetti tanuki, alle prese con una lotta per riconquistare la collina di Tama devastato dall’industrializzazione condotta dall’uomo, mette in scena tutti gli effetti negativi (tra cui la creazione di ecomostri e l’utilizzo eccessivo di materiali nocivi per il paesaggio e per l’umanità, come il cemento) dell’affezione che il Giappone nutre nei confronti del sistema capitalistico galoppante, che Takahata accusa dell’aver distrutto la naturalità delle campagne e, con esse, un gran pezzo di tradizione. Proprio per questo, il film, nonostante la storia dinamica e l’iniziale leggerezza di fondo, diventa un atto accusatorio nei confronti della quotidianità spezzata dalla meccanicità, delle macchine che soppiantano sempre di più il pensiero dell’uomo e, soprattutto, nei confronti del denaro, vero veicolo del mondo contro cui il regista combatte con un’anima fortemente ecologista ma non per questo meno cruenta (come mostrano molte scene violente), che mette in evidenza come anche gli umani vogliano fortemente abbandonare il caos dell’urbanizzazione e, di contro, sfuggire così allo stress e all’alienazione tipiche della metropoli.
Disponibile su Netflix e noleggiabile su Apple TV.
11 Novembre. Breve Film Sull’Uccidere (1988) di Krzysztof Kieślowski
Krzysztof Kieślowski si è sempre caratterizzato per racconti dalla forte moralità e morbosità, in cui mette in discussione l’etica e l’esistenza umana attraverso storie forti che fanno da allegoria a tematiche universali. Tra queste, vi è senza dubbio Breve Film Sull’Uccidere (1988), lungometraggio che è la versione estesa dell’episodio 5 del suo Decalogo, una serie di dieci episodi in cui mette in discussione i Dieci Comandamenti della Bibbia, in ordine progressivo. Breve Film Sull’Uccidere mette a nudo tutte le storture di uno Stato che pensa di essere presente solamente perché applica le sue pene tout-court. Kieślowski affronta una questione morale e religiosa elevandola, di fatto, a questione giuridica universale. L'ossimoro e le contraddizioni della pena (che simboleggiano quelle di uno Stato) come vendetta e umiliazione dell'individuo, contro la necessità del riconoscimento della colpa individuale al suo massimo (l'omicidio), e di una sua inevitabile conseguenza sul piano giuridico, sono alla base della riflessione del film, che il regista usa come chiaro attacco politico nei confronti di un'oppressione unica, tremenda, che porta alla follia sia da una parte (dell'assassino) che dall'altra (il giudice). Kieślowski filma con una messa in scena acida, mettendo in mostra anche una violenza repentina, senza significato apparente e sfruttando la splendida fotografia in un allucinante giallo-verde dalle aspre tonalità per esprimere i colori di una nazione completamente scissa e dilaniata da conflitti morali e in modo da mettere ulteriormente in risalto tutte le contraddizioni dell'animo umano declinate anche dal punto di vista del contesto (e conflitto) sociale.
13 Novembre. Kinds Of Kindness (2024) di Yorgos Lanthimos
A Cannes è stato accolto con molta diffidenza, soprattutto perché in molti l’hanno visto come un tentativo maldestro di tornare alle origini. Kinds Of Kindness, invece, per Yorgos Lanthimos ha rappresentato soprattutto un modo per chiudere i conti con sé stesso, per auto-sabotarsi in modo piuttosto divertito e per creare una propria, nuova, identità da zero. Se l’apparenza può ingannare, portando a credere che il film sia una scialba riproposizione di tutte le tematiche e, soprattutto, dei toni del racconto grotteschi e stranianti tipici della Greek Weird Wave - corrente da cui Lanthimos proviene e attraverso la quale si è fatto conoscere al grande pubblico grazie a lavori come Dogtooth (2009) e The Lobster (2014) - la sostanza smentisce, in quanto ciò che il regista greco mette in scena è un assoluto non-sense che prende piede già a partire dal titolo, che ai fini del racconto non rappresenta né indica nulla, per poi proseguire con l’impianto episodico dell'opera, completamente slegata e non attinente a quanto descritto dal titolo, che resta quindi la descrizione esatta, in modo paradossale, del lungometraggio. Kinds Of Kindness è una pellicola sul nulla, sulla narrazione a vuoto, che si fa assurda nel momento in cui mette in esposizione l’assurdo della natura umana, dimenticando volutamente ogni sorta di coerenza narrativa perché il mondo rappresentato è incoerente di suo, sfruttando anche le musiche (c’è da prestare attenzione soprattutto al testo di Sweet Dreams degli Eurythmics, usato nei titoli di testa e di coda, che tra le sue parole espone, tra le righe, il significato del film) e soprattutto la posizione della macchina da presa per mettere in scena un'opera auto-distruttiva, coerente con il percorso di Lanthimos e indispensabile soprattutto per il suo futuro filmico.
Disponibile su Disney+ e TimVision e noleggiabile su Google Play Film, Prime Video, Apple TV e You Tube.
17 Novembre. Ragazze A Beverly Hills (1995) di Amy Heckerling
Negli anni ’90, il cinema americano incentrò ulteriormente il suo sviluppo attorno alle figure giovanili e, soprattutto, attorno alla moda sviluppatasi tra gli adolescenti rampolli della società ancora scossa e “presa” dalla vivacità del decennio passato. Gli anni ’90, però, dettano anche un cambio di rappresentazione nei confronti dei giovani e delle loro turbe personali, esposte soprattutto in rom-com adolescenziali a tema pressoché studentesco. Tra di esse, senza dubbio Ragazze A Beverly Hills (1995) di Amy Heckerling occupa un posto particolare, soprattutto per come la regista riesce ad effettuare una critica sociale estremamente arguta, descrivendo la società americana giovanile come un coacervo di apparenze e di estetica in base al quale non si riesce ad andare oltre la superficie dell’individuo. Sono gli anni dell’immagine sopra ogni cosa, in cui qualsiasi elemento è laccato e iper-colorato, ma vuoto al suo interno, in cui è più semplice occupare lo spazio di un guscio vuoto e proteggersi tramite quest’ultimo piuttosto che andare in profondità e sviscerare il proprio essere. La dinamica che coinvolge Alicia Silverstone è proprio questa: il voler apparire a tutti i costi e il sopperire alla distanza culturale ed emotiva nei confronti degli adulti (soprattutto di Paul Rudd, Josh nel film, che rappresenta per lei l’oggetto del desiderio) tramite l’estetica. Non è un caso che nel film ci sia spazio per una soundtrack decisamente glam (Fashion di David Bowie ne è solo un esempio molto significativo) che però risulta stridere con la critica sociale che il film propone, e che paradossalmente ne mette in risalto proprio il distacco tra forma e contenuto, anticipando poi notevoli pezzi di cinema degli anni 2000, tra cui Spring Breakers (2012) di Harmony Korine, che estenderà la riflessione di Ragazze A Beverly Hills al linguaggio filmico e segnerà poi una vera e propria rottura nel cinema post-moderno.
Disponibile su Netflix.
19 Novembre. Tokyo Sonata (2008) di Kiyoshi Kurosawa
Kiyoshi Kurosawa è uno dei registi giapponesi più interessanti degli ultimi quarant’anni, una figura che ha, letteralmente, caratterizzato il cinema asiatico. Con capolavori come Cure (1997) e Kairo (2001), il suo nome si è imposto sulla scena mondiale tramite una visione personale del J-Horror e soprattutto partendo proprio dal lavoro sul genere per riformare il racconto filmico attraverso un cinema con una componente estremamente spiccata. Tokyo Sonata è uno dei suoi lavori più recenti e particolari, il regista giapponese crea un nuovo capitolo del malessere della società, un disorientamento unico, la radiografia impietosa di un Giappone pieno di fratture e contraddizioni. La fotografia della condizione sociale di uno dei punti cardini del tradizionalismo giapponese avviene in modo diverso dal solito, in maniera gelida, con uno sguardo lucido da entomologo, da sociologo, da osservatore del Giappone nei suoi minimi particolari. Tokyo Sonata è un dramma che mette in evidenza le luci e le ombre di un Paese che deve riprendere a vivere dopo la dissoluzione delle sue tradizioni, che deve superare ansie e timori per rimettersi in carreggiata. Proprio per questo, Kiyoshi Kurosawa trasmette allo spettatore, per la maggior parte del tempo, un’ansia indecifrabile e insita nelle persone che fanno parte del suo “quadro”, per poi riprendere l’ottimismo già adoperato in prodotti come Barren Illusion (1999) e Bright Future (2003) e far capire a tutti che una rinascita, tutto sommato, è sempre possibile. La cosa più difficile, però, non è tanto riavviarsi, quanto continuare il percorso cominciato senza perdersi d’animo e senza abbattersi alla prima difficoltà. La narrazione per sottrazione garantisce una rarefazione che fa riflettere lo spettatore, immergendolo in questo percorso di caduta e redenzione, che culmina in una delle scene finali più belle e potenti di tutta la sua carriera.
Disponibile su MUBI.
21 Novembre. Re Per Una Notte (1982) di Martin Scorsese
Martin Scorsese è un nome che non ha minimamente bisogno di presentazioni, anche per chi non è appassionato di cinema. La fama del regista è ormai diffusa in tutto il mondo, superando la barriera della cinefilia, in quanto persona dalla notevole influenza culturale prima ancora che filmica. Proprio una delle sue più grandi opere, Re Per Una Notte (1982), con protagonista Robert DeNiro, è ancora oggi un modello per il cinema americano - basti vedere il recente Joker (2019) di Todd Phillips, che è stato veicolo di discussione, anche e soprattutto, per il debito innegabile nei confronti del film della New Hollywood e del suoi immaginario -, soprattutto per come mette in evidenza l’alienazione che il sistema mediatico degli USA produce, contrariamente alle aspettative. Da Scorsese, dunque, proviene uno degli atti d’accusa più forti e intelligenti nei confronti del medium televisivo, in parallelo a quello operato da David Cronenberg con il suo Videodrome (1983), ma soprattutto riesce a far provare tutta la tragicità di una figura controversa, che anticipa fortemente l’era del fanatismo che esploderà negli anni ’90 e che rappresenta uno dei primi esperimenti immersi nella modernità in base alla quale la prospettiva del racconto è narrata attraverso un reietto della società. Scorsese indaga a fondo su cosa succede al di là dello schermo televisivo, sulle sue sfaccettature e, soprattutto, sul rapporto indissolubile che lega il fandom e lo spettatore alle creature che si vedono in TV. Il medium, in questo caso, funge da filtro per evitare tutte le verità e costruire una versione fittizia della realtà, in un mondo in cui proprio l’immagine assurge a desiderio inconscio di colui che guarda, che porta ad emularne le gesta e a perdere la bussola in modo irreversibile, fino a causare del dolore per via della smania relativa alla fama.
Disponibile su Plex e Disney+ e noleggiabile su You Tube, Apple TV e Amazon Prime.
25 Novembre. Angoscia (1944) di George Cukor
George Cukor è stato uno dei più grandi registi del cinema classico americano. I suoi ritratti di donne (proprio per questo motivo fu soprannominato “il regista delle dive”) sono tra i più celebri e famosi della vecchia Hollywood, dotati di grande ingegno e soprattutto di una raffinatezza che pochi altri registi ed esimi colleghi hanno raggiunto nel corso della loro carriera. Uno dei suoi più grandi film, Angoscia (1944), indaga un fenomeno che, negli ultimi anni, è diventato nuovamente parte integrante della discussione femminile, ovvero il gaslighting. Il lungometraggio si concentra sulla tossicità dei rapporti tra uomo e donna (privilegiando il punto di vista femminile) evidenziandone il lato più oscuro, quello che porta ad un tipo di violenza non fisica, ma ancora più sottile: psicologica e disturbante. In modo intelligente e sopraffino, la psicologia è utilizzata come forma sia di oppressione che di violenza nei confronti di un soggetto più debole, divenendo così una forma di delinquenza a tutti gli effetti. La manipolazione riesce a mettere in evidenza uno degli aspetti più interessanti del cinema di Cukor, ovvero l'uso della parola e del dialogo come strumento di distorsione della realtà. Proprio per via dell'oscurità del lungometraggio, il regista riprende stilisticamente le ombre tipiche dell'Espressionismo, evidenziando i chiaroscuri, fonte di contrasti interiori nei personaggi e qui portati all'estremo, in modo tale da evidenziare le psicosi dal punto di vista del genere maschile salvo poi rovesciare, in modo astuto e geniale, la prospettiva.
Noleggiabile su Amazon Prime Video e Apple TV.
30 Novembre. La Nera Di… (1966) di Ousmane Sembène
Ousmane Sembène è considerato, nella storia del cinema mondiale, uno dei più grandi registi africani, se non il più grande. Nel corso del suo esordio, La Nera Di… (1966), Sembène mette già in evidenza quelli che saranno i caratteri avanguardistici del suo cinema, segnando un netto distacco con il passato e rivolgendo il suo sguardo, piuttosto, alle avanguardie che stavano imperversando in Europa. La Nera Di… è un film europeo sotto mentite spoglie, influenzato in modo irreversibile dalla Nouvelle Vague. Gli stilemi usati dal regista senegalese sono quelli dei maestri francesi, ma assumono un'originalità derivante proprio quando raccontano di una realtà (quella della propria nazione d’origine) legata ad un concetto ancora conservatore, dalla concezione vecchia e dagli effetti del colonialismo (declinati soprattutto attraverso il comportamento borghese) che si avvertono tutti. Il regista attinge dalle avanguardie, con l'uso mobilissimo della camera e attraverso una semplicità narrativa che attinge esclusivamente dalla realtà che racconta. Soprattutto, però, è interessante notare come anche alcune soluzioni, come il voice over e il flash-back, ricalchino inevitabilmente il cinema francese del tempo, andando ad instaurare un rapporto di confronto ancora più stringente tra Paesi collegati non solo commercialmente e colonialmente, ma anche dal punto di vista abitudinario, mettendo in evidenza un divario umano inesorabile.
Disponibile su Plex e RaiPlay.
NC-248
06.11.2024
Il calendario, di solito, si appende in cucina sotto l’orologio, come a creare un asse simmetrico e incrementale di scansione del tempo. I secondi diventano ore, che diventano giorni, che diventano settimane, fino a che le caselle si esauriscono, e bisogna comprarne uno nuovo. Oltre che dal meteo e dalla notte che si avvicina o si allontana, sui calendari i mesi vengono contraddistinti da un’immagine - un’ape che raccoglie il polline, un'aerea dell’Empire State Building, un quadro di Miró - che in un modo o nell’altro cerca di racchiudere l’essenza di questa particolare trentina di giorni.
Per questo Novembre, al posto della singola illustrazione a cui siamo abituati, ODG pubblicherà una selezione di dieci film da vedere durante il mese, appositamente scelti per marcare ricorrenze, anniversari e affinità umorali.
7 Novembre. Europa’51 (1952) di Roberto Rossellini
Roberto Rossellini mette in scena un deragliamento fisico/psicologico, dettato soprattutto da una voglia di fuga nei confronti della realtà italiana dell’epoca, turbata ancora dagli orrori della guerra e falsamente condotta verso i miracoli del boom economico, che risalterà ulteriormente lo scarto tra il progresso industriale e la moralità dell’essere umano. Europa ’51, sebbene abbia molti punti in comune con la filmografia di un altro illustre regista come Bresson, se ne distacca soprattutto per l’uso che fa dei suoi personaggi. Se nei film del regista francese i protagonisti sono anime eteree in pena, completamente al di fuori del contesto sociale, dello spazio e del tempo presente, Rossellini diventa decisamente più concreto, politico nella sua denuncia dei disastri italiani del Dopoguerra, e nonostante la ri-acquisizione della purezza dei propri personaggi attraverso un percorso netto, abbraccia una condizione esistenziale che è metafora di uno Stato che deve ancora ritrovare sé stesso per uscire da quella prigione che la Seconda Guerra Mondiale ha creato.
Disponibile su RaiPlay.
8 Novembre. Il Grande Freddo (1983) di Lawrence Kasdan
Lo spettro della morte aleggia sul decennio più importante (soprattutto dal punto di vista della crescita socio-economica) della Storia americana. Il Grande Freddo, meraviglioso film tragicomico firmato da Lawrence Kasdan, prende la morte (portandola poi ad invertirsi di senso e a diventare rinascita) come metafora per costruire un racconto di rampanti yuppie che scendono a patti con la "caduta" personale, e soprattutto con l'edonismo americano, per affrontare e sconfiggere i loro fantasmi. Nella storia che coinvolge i sette amici presenti al funerale di Alex Marshall (i cui polsi, unica parte visibile nel corso del film, sono di una vera e propria istituzione hollywoodiana qual è tutt’ora Kevin Costner), c’è spazio in primis per un racconto nostalgico che rimpiange la gioventù e si interroga sui cambiamenti negativi che la società statunitense ha subito dagli anni ’60 agli anni ’80, ma soprattutto c’è lo spazio per costruire un racconto anti-generazionale, in completa opposizione con la moda dell’epoca, che piuttosto che rifugiarsi in facili happy ending e in melense scelte narrative, preferisce mettere in opposizione l'allegria del gospel dei Rolling Stones e, in generale del blues/rock'n'roll anni '70, con un mood funereo, perfetto per il racconto di “fantasmi” che Kasdan propone su schermo attraverso questa splendida anti-commedia.
Disponibile su TimVision e noleggiabile su Youtube, Apple Tv, Google Play Film e Amazon Prime Video.
10 Novembre. Pom Poko (1994) di Isao Takahata
Isao Takahata è stato uno dei registi più sovversivi del cinema giapponese moderno. In Pom Poko, film d’animazione del 1994 con protagonisti una banda di procioni, i cosiddetti tanuki, alle prese con una lotta per riconquistare la collina di Tama devastato dall’industrializzazione condotta dall’uomo, mette in scena tutti gli effetti negativi (tra cui la creazione di ecomostri e l’utilizzo eccessivo di materiali nocivi per il paesaggio e per l’umanità, come il cemento) dell’affezione che il Giappone nutre nei confronti del sistema capitalistico galoppante, che Takahata accusa dell’aver distrutto la naturalità delle campagne e, con esse, un gran pezzo di tradizione. Proprio per questo, il film, nonostante la storia dinamica e l’iniziale leggerezza di fondo, diventa un atto accusatorio nei confronti della quotidianità spezzata dalla meccanicità, delle macchine che soppiantano sempre di più il pensiero dell’uomo e, soprattutto, nei confronti del denaro, vero veicolo del mondo contro cui il regista combatte con un’anima fortemente ecologista ma non per questo meno cruenta (come mostrano molte scene violente), che mette in evidenza come anche gli umani vogliano fortemente abbandonare il caos dell’urbanizzazione e, di contro, sfuggire così allo stress e all’alienazione tipiche della metropoli.
Disponibile su Netflix e noleggiabile su Apple TV.
11 Novembre. Breve Film Sull’Uccidere (1988) di Krzysztof Kieślowski
Krzysztof Kieślowski si è sempre caratterizzato per racconti dalla forte moralità e morbosità, in cui mette in discussione l’etica e l’esistenza umana attraverso storie forti che fanno da allegoria a tematiche universali. Tra queste, vi è senza dubbio Breve Film Sull’Uccidere (1988), lungometraggio che è la versione estesa dell’episodio 5 del suo Decalogo, una serie di dieci episodi in cui mette in discussione i Dieci Comandamenti della Bibbia, in ordine progressivo. Breve Film Sull’Uccidere mette a nudo tutte le storture di uno Stato che pensa di essere presente solamente perché applica le sue pene tout-court. Kieślowski affronta una questione morale e religiosa elevandola, di fatto, a questione giuridica universale. L'ossimoro e le contraddizioni della pena (che simboleggiano quelle di uno Stato) come vendetta e umiliazione dell'individuo, contro la necessità del riconoscimento della colpa individuale al suo massimo (l'omicidio), e di una sua inevitabile conseguenza sul piano giuridico, sono alla base della riflessione del film, che il regista usa come chiaro attacco politico nei confronti di un'oppressione unica, tremenda, che porta alla follia sia da una parte (dell'assassino) che dall'altra (il giudice). Kieślowski filma con una messa in scena acida, mettendo in mostra anche una violenza repentina, senza significato apparente e sfruttando la splendida fotografia in un allucinante giallo-verde dalle aspre tonalità per esprimere i colori di una nazione completamente scissa e dilaniata da conflitti morali e in modo da mettere ulteriormente in risalto tutte le contraddizioni dell'animo umano declinate anche dal punto di vista del contesto (e conflitto) sociale.
13 Novembre. Kinds Of Kindness (2024) di Yorgos Lanthimos
A Cannes è stato accolto con molta diffidenza, soprattutto perché in molti l’hanno visto come un tentativo maldestro di tornare alle origini. Kinds Of Kindness, invece, per Yorgos Lanthimos ha rappresentato soprattutto un modo per chiudere i conti con sé stesso, per auto-sabotarsi in modo piuttosto divertito e per creare una propria, nuova, identità da zero. Se l’apparenza può ingannare, portando a credere che il film sia una scialba riproposizione di tutte le tematiche e, soprattutto, dei toni del racconto grotteschi e stranianti tipici della Greek Weird Wave - corrente da cui Lanthimos proviene e attraverso la quale si è fatto conoscere al grande pubblico grazie a lavori come Dogtooth (2009) e The Lobster (2014) - la sostanza smentisce, in quanto ciò che il regista greco mette in scena è un assoluto non-sense che prende piede già a partire dal titolo, che ai fini del racconto non rappresenta né indica nulla, per poi proseguire con l’impianto episodico dell'opera, completamente slegata e non attinente a quanto descritto dal titolo, che resta quindi la descrizione esatta, in modo paradossale, del lungometraggio. Kinds Of Kindness è una pellicola sul nulla, sulla narrazione a vuoto, che si fa assurda nel momento in cui mette in esposizione l’assurdo della natura umana, dimenticando volutamente ogni sorta di coerenza narrativa perché il mondo rappresentato è incoerente di suo, sfruttando anche le musiche (c’è da prestare attenzione soprattutto al testo di Sweet Dreams degli Eurythmics, usato nei titoli di testa e di coda, che tra le sue parole espone, tra le righe, il significato del film) e soprattutto la posizione della macchina da presa per mettere in scena un'opera auto-distruttiva, coerente con il percorso di Lanthimos e indispensabile soprattutto per il suo futuro filmico.
Disponibile su Disney+ e TimVision e noleggiabile su Google Play Film, Prime Video, Apple TV e You Tube.
17 Novembre. Ragazze A Beverly Hills (1995) di Amy Heckerling
Negli anni ’90, il cinema americano incentrò ulteriormente il suo sviluppo attorno alle figure giovanili e, soprattutto, attorno alla moda sviluppatasi tra gli adolescenti rampolli della società ancora scossa e “presa” dalla vivacità del decennio passato. Gli anni ’90, però, dettano anche un cambio di rappresentazione nei confronti dei giovani e delle loro turbe personali, esposte soprattutto in rom-com adolescenziali a tema pressoché studentesco. Tra di esse, senza dubbio Ragazze A Beverly Hills (1995) di Amy Heckerling occupa un posto particolare, soprattutto per come la regista riesce ad effettuare una critica sociale estremamente arguta, descrivendo la società americana giovanile come un coacervo di apparenze e di estetica in base al quale non si riesce ad andare oltre la superficie dell’individuo. Sono gli anni dell’immagine sopra ogni cosa, in cui qualsiasi elemento è laccato e iper-colorato, ma vuoto al suo interno, in cui è più semplice occupare lo spazio di un guscio vuoto e proteggersi tramite quest’ultimo piuttosto che andare in profondità e sviscerare il proprio essere. La dinamica che coinvolge Alicia Silverstone è proprio questa: il voler apparire a tutti i costi e il sopperire alla distanza culturale ed emotiva nei confronti degli adulti (soprattutto di Paul Rudd, Josh nel film, che rappresenta per lei l’oggetto del desiderio) tramite l’estetica. Non è un caso che nel film ci sia spazio per una soundtrack decisamente glam (Fashion di David Bowie ne è solo un esempio molto significativo) che però risulta stridere con la critica sociale che il film propone, e che paradossalmente ne mette in risalto proprio il distacco tra forma e contenuto, anticipando poi notevoli pezzi di cinema degli anni 2000, tra cui Spring Breakers (2012) di Harmony Korine, che estenderà la riflessione di Ragazze A Beverly Hills al linguaggio filmico e segnerà poi una vera e propria rottura nel cinema post-moderno.
Disponibile su Netflix.
19 Novembre. Tokyo Sonata (2008) di Kiyoshi Kurosawa
Kiyoshi Kurosawa è uno dei registi giapponesi più interessanti degli ultimi quarant’anni, una figura che ha, letteralmente, caratterizzato il cinema asiatico. Con capolavori come Cure (1997) e Kairo (2001), il suo nome si è imposto sulla scena mondiale tramite una visione personale del J-Horror e soprattutto partendo proprio dal lavoro sul genere per riformare il racconto filmico attraverso un cinema con una componente estremamente spiccata. Tokyo Sonata è uno dei suoi lavori più recenti e particolari, il regista giapponese crea un nuovo capitolo del malessere della società, un disorientamento unico, la radiografia impietosa di un Giappone pieno di fratture e contraddizioni. La fotografia della condizione sociale di uno dei punti cardini del tradizionalismo giapponese avviene in modo diverso dal solito, in maniera gelida, con uno sguardo lucido da entomologo, da sociologo, da osservatore del Giappone nei suoi minimi particolari. Tokyo Sonata è un dramma che mette in evidenza le luci e le ombre di un Paese che deve riprendere a vivere dopo la dissoluzione delle sue tradizioni, che deve superare ansie e timori per rimettersi in carreggiata. Proprio per questo, Kiyoshi Kurosawa trasmette allo spettatore, per la maggior parte del tempo, un’ansia indecifrabile e insita nelle persone che fanno parte del suo “quadro”, per poi riprendere l’ottimismo già adoperato in prodotti come Barren Illusion (1999) e Bright Future (2003) e far capire a tutti che una rinascita, tutto sommato, è sempre possibile. La cosa più difficile, però, non è tanto riavviarsi, quanto continuare il percorso cominciato senza perdersi d’animo e senza abbattersi alla prima difficoltà. La narrazione per sottrazione garantisce una rarefazione che fa riflettere lo spettatore, immergendolo in questo percorso di caduta e redenzione, che culmina in una delle scene finali più belle e potenti di tutta la sua carriera.
Disponibile su MUBI.
21 Novembre. Re Per Una Notte (1982) di Martin Scorsese
Martin Scorsese è un nome che non ha minimamente bisogno di presentazioni, anche per chi non è appassionato di cinema. La fama del regista è ormai diffusa in tutto il mondo, superando la barriera della cinefilia, in quanto persona dalla notevole influenza culturale prima ancora che filmica. Proprio una delle sue più grandi opere, Re Per Una Notte (1982), con protagonista Robert DeNiro, è ancora oggi un modello per il cinema americano - basti vedere il recente Joker (2019) di Todd Phillips, che è stato veicolo di discussione, anche e soprattutto, per il debito innegabile nei confronti del film della New Hollywood e del suoi immaginario -, soprattutto per come mette in evidenza l’alienazione che il sistema mediatico degli USA produce, contrariamente alle aspettative. Da Scorsese, dunque, proviene uno degli atti d’accusa più forti e intelligenti nei confronti del medium televisivo, in parallelo a quello operato da David Cronenberg con il suo Videodrome (1983), ma soprattutto riesce a far provare tutta la tragicità di una figura controversa, che anticipa fortemente l’era del fanatismo che esploderà negli anni ’90 e che rappresenta uno dei primi esperimenti immersi nella modernità in base alla quale la prospettiva del racconto è narrata attraverso un reietto della società. Scorsese indaga a fondo su cosa succede al di là dello schermo televisivo, sulle sue sfaccettature e, soprattutto, sul rapporto indissolubile che lega il fandom e lo spettatore alle creature che si vedono in TV. Il medium, in questo caso, funge da filtro per evitare tutte le verità e costruire una versione fittizia della realtà, in un mondo in cui proprio l’immagine assurge a desiderio inconscio di colui che guarda, che porta ad emularne le gesta e a perdere la bussola in modo irreversibile, fino a causare del dolore per via della smania relativa alla fama.
Disponibile su Plex e Disney+ e noleggiabile su You Tube, Apple TV e Amazon Prime.
25 Novembre. Angoscia (1944) di George Cukor
George Cukor è stato uno dei più grandi registi del cinema classico americano. I suoi ritratti di donne (proprio per questo motivo fu soprannominato “il regista delle dive”) sono tra i più celebri e famosi della vecchia Hollywood, dotati di grande ingegno e soprattutto di una raffinatezza che pochi altri registi ed esimi colleghi hanno raggiunto nel corso della loro carriera. Uno dei suoi più grandi film, Angoscia (1944), indaga un fenomeno che, negli ultimi anni, è diventato nuovamente parte integrante della discussione femminile, ovvero il gaslighting. Il lungometraggio si concentra sulla tossicità dei rapporti tra uomo e donna (privilegiando il punto di vista femminile) evidenziandone il lato più oscuro, quello che porta ad un tipo di violenza non fisica, ma ancora più sottile: psicologica e disturbante. In modo intelligente e sopraffino, la psicologia è utilizzata come forma sia di oppressione che di violenza nei confronti di un soggetto più debole, divenendo così una forma di delinquenza a tutti gli effetti. La manipolazione riesce a mettere in evidenza uno degli aspetti più interessanti del cinema di Cukor, ovvero l'uso della parola e del dialogo come strumento di distorsione della realtà. Proprio per via dell'oscurità del lungometraggio, il regista riprende stilisticamente le ombre tipiche dell'Espressionismo, evidenziando i chiaroscuri, fonte di contrasti interiori nei personaggi e qui portati all'estremo, in modo tale da evidenziare le psicosi dal punto di vista del genere maschile salvo poi rovesciare, in modo astuto e geniale, la prospettiva.
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30 Novembre. La Nera Di… (1966) di Ousmane Sembène
Ousmane Sembène è considerato, nella storia del cinema mondiale, uno dei più grandi registi africani, se non il più grande. Nel corso del suo esordio, La Nera Di… (1966), Sembène mette già in evidenza quelli che saranno i caratteri avanguardistici del suo cinema, segnando un netto distacco con il passato e rivolgendo il suo sguardo, piuttosto, alle avanguardie che stavano imperversando in Europa. La Nera Di… è un film europeo sotto mentite spoglie, influenzato in modo irreversibile dalla Nouvelle Vague. Gli stilemi usati dal regista senegalese sono quelli dei maestri francesi, ma assumono un'originalità derivante proprio quando raccontano di una realtà (quella della propria nazione d’origine) legata ad un concetto ancora conservatore, dalla concezione vecchia e dagli effetti del colonialismo (declinati soprattutto attraverso il comportamento borghese) che si avvertono tutti. Il regista attinge dalle avanguardie, con l'uso mobilissimo della camera e attraverso una semplicità narrativa che attinge esclusivamente dalla realtà che racconta. Soprattutto, però, è interessante notare come anche alcune soluzioni, come il voice over e il flash-back, ricalchino inevitabilmente il cinema francese del tempo, andando ad instaurare un rapporto di confronto ancora più stringente tra Paesi collegati non solo commercialmente e colonialmente, ma anche dal punto di vista abitudinario, mettendo in evidenza un divario umano inesorabile.
Disponibile su Plex e RaiPlay.