INT-15
24.11.2022
Quando si parla di «slow cinema» è impossibile non citare Lav Diaz, grande maestro filippino riconosciuto in tutto il mondo per film dal ritmo flemmatico e dalla lunghezza mastodontica. Il cineasta è sempre stato interessato, ed ispirato, dal caotico clima politico che ha caratterizzato la sua Nazione. Dal 2016 al 2022, Rodrigo Duterte, ex presidente delle Filippine, ha avviato la cosiddetta «guerra alla droga»: una serie di uccisioni extragiudiziali, eseguite dai reparti speciali della polizia di stato, su trafficanti e consumatori di sostanze stupefacenti. When the Waves are Gone, il nuovo lungometraggio di Diaz, esplora questi oscuri eventi focalizzandosi su due personaggi, Hermes e Primo, direttamente coinvolti nella stragi. Hermes è ritenuto uno dei migliori investigatori della nazione, ma le indagini che compie, e il suo contributo alla campagna anti-droga, lo mettono di fronte ad un forte conflitto morale. Nel frattempo, Primo - ex insegnante di Hermes mandato in prigione dal suo stesso allievo - viene scarcerato, e riprende il suo vecchio incarico alla polizia iniziando a «purificare» la nazione da prostitute e spacciatori. Tramite l’uccisione di queste persone, Primo crede di compiere un atto religioso, non provando gli stessi sensi di colpa che perseguitano l’ex amico. Questo conflitto tra i due personaggi condizionerà la narrazione dell’intera pellicola fino all’immancabile duello finale. Il modo in cui Lav Diaz affronta uno dei momenti più tragici nella storia delle Filippine è estremamente affascinante. Attraverso la sofferenza morale e il degrado fisico di Hermes l’autore rappresenta la coscienza di una nazione, mentre con Primo analizza la follia e l’insensatezza di determinate azioni politiche. Se da una parte questi due personaggi risultano agli antipodi, dall’altra sono entrambi segnati dalla vita corrotta all’interno della polizia, una vita che ha causato in loro la medesima sensazione di vuoto esistenziale.
When the Waves Are Gone è l’ennesima opera ammaliante di Lav Diaz, oltre all’interessante tematica trattata, l’impiego della pellicola e l’uso espressionistico del bianco e nero - dato dai forti contrasti tra le due tonalità - ci hanno molto impressionato. Abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista e di conversare sulle tematiche principali del film e dei suoi progetti futuri.
Il film possiede un’atmosfera noir che viene costruita sugli specifici bisogni della tua narrazione. Esso parla delle difficoltà del tuo Paese: il risultato è un’opera universale che parla, sopratutto nel contesto di un festival, a gente che viene da tutte le parti del mondo, e che però può facilmente immedesimarsi con la tua storia. Come scrivi e strutturi i tuoi film? È solo il potere della storia o è qualcosa che riesci a costruire sul set?
Entrambe. Le difficoltà per me iniziano con la ricerca della location. Io filmo per le vie e non le ricreo attraverso i set. Durante la pandemia sono stato due mesi nella parte meridionale delle Filippine per cercare la giusta location. Ci sono stato dal novembre del 2020 al gennaio 2021, dopodiché ho deciso di filmare in quei luoghi. Successivamente ho cominciato a scrivere la sceneggiatura. Per quanto riguarda la tua domanda sui temi universali, io credo che tutti noi affrontiamo le medesime difficoltà, dobbiamo costantemente confrontarci con questi demagoghi, con questi autocrati, come Putin, Trump o Marcos. Sono dappertutto! Ci rapportiamo alle autorità in maniera psicotica: le odiamo, eppure le amiamo, esse sono lo specchio del nostro sadomasochismo interiore. Una domanda che dovremmo porci è: perché lo permettiamo ancora nel XXI secolo?
A proposito del genere noir, c’è una citazione di Hercule Poirot all’inizio del film, e si potrebbe azzardare a fare un interessante parallelismo tra il personaggio di Hermes e Poirot. Mi interessava sapere perché tu abbia deciso di inserire questa citazione e di compiere questo paragone.
Io amo Hercule Poirot e il suo modo di trovare la verità in mezzo al caos, al labirinto. Ho voluto mettere la citazione in bella vista, bisogna davvero scavare a fondo per trovare la verità, proprio come faceva Poirot nelle opere di Agatha Christie.
Visto che hai citato alcuni politici, credi che nelle Filippine la situazione possa migliorare con il nuovo presidente Ferdinand Marcos Jr.?
Vedremo, perché è comunque il figlio di un dittatore e sembra che voglia tornare ai giorni d’oro del regno di suo padre. È un brutto segnale, perciò non sembrano esserci buone prospettive.
Il tuo film è frutto di una grossa coproduzione internazionale. Che mezzi ti ha offerto questo tipo di cooperazione?
Mi ha offerto margini più ampi per agire, recuperando soldi di qua e di là, e ci ha permesso di filmare senza troppa fretta. Questa è un’ottima cosa! E c’è anche un po’ di guadagno per la crew filippina per poter campare (il regista ride, n.d.r). Quando crei un film, finisci inevitabilmente per fermarti e chiederti se stia venendo bene. Ci sono tanti fattori ed elementi che possono far trasformare un film in un brutto lavoro. È un medium molto complicato e noi creatori ci chiediamo costantemente se la nostra opera sia o meno buona. Ti senti spesso inadeguato, dubiti sempre del tuo lavoro. Puoi spingerti fino ad un certo punto, specialmente se i soldi sono pochi. Fare cinema è complicato, non è una passeggiata nel parco, sopratutto quando si presentano degli ostacoli e la tua visione si offusca.
Sono curioso di sapere qualche informazione sulla tua scelta di girare questo film in pellicola, visto che altri tuoi lungometraggi li hai filmati in digitale.
Se dipendesse da me, girerei tutti i miei film in pellicola, ma è piuttosto costoso, specialmente nelle Filippine dove non ci sono molti laboratori e per questo siamo costretti ad ordinare dall’estero delle pile di pellicola. Alcune di esse sono anche vecchie, siamo arrivati ad acquistarne alcune degli anni Sessanta e Settanta, erano davvero molto belle. Abbiamo persino trovato dei laboratori in Romania (il regista ride, n.d.r.)e questo è un problema perché non si possono vedere le immagini filmate dato che poi devono essere spedite in Romania per poter essere rielaborate. La pellicola in 60 mm è davvero esigente ma allo stesso tempo bellissima perché conferisce un aspetto particolare alle immagini; è come se venissimo proiettati agli albori della settima arte, dentro l’antica anima del cinema e questa è una sensazione stupenda.
Sappiamo che utilizzi il bianco e nero perché ti piace e perché tramite esso vuoi esprimere qualcosa. In questo film talvolta il nero arriva ad oscurare completamente i visi dei personaggi, mentre il bianco fa addirittura scomparire del tutto i personaggi stessi. È possibile che questo film abbia cambiato qualcosa nel tuo impiego del bianco e nero o stai semplicemente seguendo un percorso nel suo uso?
Decisamente. Quando ho iniziato a fare film, utilizzavo la Super 8 in 16 millimetri, come per Evolution of a Filippino Family (2004). È davvero difficile utilizzare i 16 mm.
Pensi che la corruzione rappresentata nel tuo film e nei tuoi personaggi sia legata all’ambiente rappresentato o è qualcosa che esiste da prima?
È sia nella natura dell’uomo che in quella del mio Paese. Abbiamo attraversato molte difficoltà, dalla colonizzazione spagnola che è durata più di 400 anni a cui è succeduta quella americana, durata anch’essa quasi 100 anni, poi 4 anni di raid giapponesi, poi la dittatura di Marcos durata 25 anni e ora stiamo attraversando i 6 anni dell’amministrazione del nostro attuale presidente. Si può dire che questa violenza è parte di noi, dei nostri attributi, della nostra cultura, così come tutta questa ignoranza che porta alla perversa ricerca di un uomo forte che possa salvare il nostro Paese. È un misto di schizofrenia e psicosi, è follia! Ed è difficile vincere questa guerra contro l’ignoranza, un’ignoranza che ora si è propagata in tutto il mondo.
Per quanto riguarda il tema della corruzione, vorrei sapere come l’hai affrontato durante la preparazione del film. Hai avuto la possibilità di incontrare dei poliziotti a cui ti sei ispirato per i tuoi personaggi?
Da giovane ho fatto il giornalista e il mio primo incarico è stato nel giornale The Police Beat. All’interno di questa testata sei assegnato nelle stazioni di polizia dove scrivi su tutti gli omicidi, le rapine ed ogni atto criminale. Il sistema della polizia è davvero corrotto e sono pochi gli individui veramente onesti. La cultura poliziesca è molto complicata e corrotta. È difficile incontrare una brava persona in quel sistema.
Ciò che è davvero interessante nei tuoi film è il senso della narrazione all’interno di ogni singola inquadratura; non si ha mai la sensazione che «non stia accadendo nulla» ma che tutto ciò che accade sullo schermo sia urgente e necessario. Per esempio, nel cinema di Andrej Tarkovskij ci sono sempre lunghe carrellate dove «non accade nulla», per specifiche ragioni ovviamente, e mi sembra che tu abbia acquisito l’eredità di questo grande maestro, creando una tua personale concezione del tempo nel cinema. Come me lo puoi spiegare? (il regista ride, n.d.r)
No, non sbagli. Il cinema ha il potere di catturare ciò che non vediamo e non sentiamo; le piccole cose che non vediamo quotidianamente sono le cose che acquisiscono grande importanza nel cinema. Questo è la caratteristica principale del cosiddetto «slow cinema». Se ti lasci immergere, se penetri dentro di esso, può risultare più entusiasmante di una pellicola ricca d’azione. Con questo non voglio dire che i film d’azione siano brutti, sono anch’essi parte del cinema, ma lo «slow cinema» permette di guardare dritto nell’anima, nei primordi dell’umanità, e perciò risulta più potente.
A questo punto della tua carriera sei interessato ad affrontare nuovi tipi di genere?
Io apprezzo tutti i generi. Ad esempio, con questo film ho fatto un vero e proprio mix di generi. C’è il noir, il socio-realismo, l’assurdo, il surreale. Questo è il motivo per cui l’arte cinematografica è così vasta. Puoi andare in qualsiasi direzione ed esplorarla. D’altronde è un’arte ancora relativamente giovane, avendo poco più di 100 anni.
E quale genere ti piacerebbe esplorare?
L’horror (il regista ride, n.d.r.).
L’horror?
Tutti i miei film sono horror (il regista ride ancora, n.d.r.).
E la commedia?
La commedia? Sì, sì, c’è molta comicità in questo film (il regista sorride, n.d.r.).
È vero che il film durava originariamente dieci ore?
Esatto. Ci sono tre parti distinte. Ho iniziato a girarlo prima dell’inizio della pandemia. La prima parte è stata girata durante l’eruzione di un enorme vulcano nelle Filippine. Dopo, a causa dell’avvento della pandemia, abbiamo avuto uno iato di alcuni mesi per poi iniziare nuovamente. A quel punto ho cambiato la trama concentrandomi sulla storia di Hermes e alla fine abbiamo girato un’altra sequenza del film. In questo modo si sono formate tre parti ben distinte. Però, mentre mi accingevo a montarlo, ho apprezzato molto l’autonomia della parte centrale e quindi ho deciso di togliere di mezzo il prologo e l’epilogo che finiranno in un nuovo film che uscirà l’anno prossimo. La durata complessiva era di circa nove ore.
Riusciremo mai a vedere il resto?
Si, vedrete una connessione con questo film, il quale però è comunque autonomo: è come se fosse il capitolo di una vita. Potrete connettere i due film - When the Waves Are Gone, n.d.r. - anche perché si concentrano sul medesimo personaggio.
In questo film la danza costituisce una via per salvarsi?
La danza? No, no (il regista ride, n.d.r.). In realtà sono appassionato di musica, come la zumba, a cui la danza è strettamente legata. Mentre giravo c’erano dei protocolli molti rigidi, ma ai danzatori di zumba non importava nulla. Erano dappertutto! Ogni giorno c’era una coppia o un gruppo che danzava e sembrava costituire un atto di sfida nei confronti di tutte queste imposizioni. Io li guardavo ogni mattina e alla fine ho deciso: inseriamoli nel film! (il regista ride, n.d.r.). Però mentre li dirigevo li ho avvisati che non avrei messo della musica o del suono ma che il loro ritmo e movimento sarebbe dovuto provenire dal loro istinto primordiale.
Ho una domanda sulle scene di danza. Utilizzi dei momenti in cui i protagonisti ballano da soli per creare un collegamento tra loro. Quale credi che sia il nesso psicologico che lega questi due personaggi?
Al di là del fatto che provengono entrambi dai dipartimenti di polizia e che entrambi insegnano ai cadetti, si ritorna sempre all’aspetto primitivo. È come se fosse una sorta di rituale. Se risaliamo alle origini dell’umanità, siamo tutti associati dal movimento, dalle danze, dai rituali. Essenzialmente i fondamentali legami che si stabiliscono tra gli uomini sono le tribù e le nazioni, dove vi è uno specifico e preciso movimento. Se vai dai Mohawk o dai Palawan - tribù filippina, n.d.r. - ti accorgerai che ciascuna di esse possiede uno specifico movimento. È un fattore decisamente fisico.
Solitamente lavori con gli stessi attori nei tuoi film. Mi chiedevo se quando scrivi un ruolo hai già in mente di destinarlo ad un determinato interprete.
Sì e no. Dipende dalla loro disponibilità. Talvolta scrivo un preciso personaggio per uno specifico attore, ma la maggior parte delle volte scelgo degli attori con cui ho una certa familiarità. Essendo miei amici loro conoscono il mio processo ed io conosco il loro ed in questo modo si costituisce un rapporto di reciproca fiducia. Il 50% del lavoro è già svolto quando lavori con delle persone che conosci.
Hai mai pensato di lavorare per la televisione?
Ho appena finito di girare per la televisione. Il film che ho presentato alla FIDMarseille, A Tale of Filippino Violence - che verrà presentato al Festival di Torino, n.d.r. - in realtà è un’opera televisiva composta da 10 episodi e credo che duri all’incirca dieci ore. È stato fatto per la tv ma l’ho girato come un’opera cinematografica. Alla fine, sono stato comunque in grado di girare un film di dieci ore.
Ritornando alla questione dei generi cinematografici, tu ne hai affrontati molti, come quello distopico in The Halt (2019). Hai ancora qualcosa da dire attraverso questo genere?
Sì, e inoltre mi piacerebbe esplorare di più i generi della commedia e della fantascienza.
E vedremo mai un altro musical da parte tua?
Sì, sì. Ne stiamo girando ora uno in Spagna e racconta la vita della moglie di Magellano, Beatriz. Sai, ho scritto molto su di lei, forse dalla fine del 2020. Su Magellano hanno scritto molti libri ma al loro interno è come se sua moglie fosse una postilla di due-tre righe. È così che trattavamo spesso le donne nel passato. Solo Maria Antonietta ne è uscita bene (il regista ride, n.d.r) e forse anche la regina Elisabetta.
INT-15
24.11.2022
Quando si parla di «slow cinema» è impossibile non citare Lav Diaz, grande maestro filippino riconosciuto in tutto il mondo per film dal ritmo flemmatico e dalla lunghezza mastodontica. Il cineasta è sempre stato interessato, ed ispirato, dal caotico clima politico che ha caratterizzato la sua Nazione. Dal 2016 al 2022, Rodrigo Duterte, ex presidente delle Filippine, ha avviato la cosiddetta «guerra alla droga»: una serie di uccisioni extragiudiziali, eseguite dai reparti speciali della polizia di stato, su trafficanti e consumatori di sostanze stupefacenti. When the Waves are Gone, il nuovo lungometraggio di Diaz, esplora questi oscuri eventi focalizzandosi su due personaggi, Hermes e Primo, direttamente coinvolti nella stragi. Hermes è ritenuto uno dei migliori investigatori della nazione, ma le indagini che compie, e il suo contributo alla campagna anti-droga, lo mettono di fronte ad un forte conflitto morale. Nel frattempo, Primo - ex insegnante di Hermes mandato in prigione dal suo stesso allievo - viene scarcerato, e riprende il suo vecchio incarico alla polizia iniziando a «purificare» la nazione da prostitute e spacciatori. Tramite l’uccisione di queste persone, Primo crede di compiere un atto religioso, non provando gli stessi sensi di colpa che perseguitano l’ex amico. Questo conflitto tra i due personaggi condizionerà la narrazione dell’intera pellicola fino all’immancabile duello finale. Il modo in cui Lav Diaz affronta uno dei momenti più tragici nella storia delle Filippine è estremamente affascinante. Attraverso la sofferenza morale e il degrado fisico di Hermes l’autore rappresenta la coscienza di una nazione, mentre con Primo analizza la follia e l’insensatezza di determinate azioni politiche. Se da una parte questi due personaggi risultano agli antipodi, dall’altra sono entrambi segnati dalla vita corrotta all’interno della polizia, una vita che ha causato in loro la medesima sensazione di vuoto esistenziale.
When the Waves Are Gone è l’ennesima opera ammaliante di Lav Diaz, oltre all’interessante tematica trattata, l’impiego della pellicola e l’uso espressionistico del bianco e nero - dato dai forti contrasti tra le due tonalità - ci hanno molto impressionato. Abbiamo avuto l’occasione di intervistare il regista e di conversare sulle tematiche principali del film e dei suoi progetti futuri.
Il film possiede un’atmosfera noir che viene costruita sugli specifici bisogni della tua narrazione. Esso parla delle difficoltà del tuo Paese: il risultato è un’opera universale che parla, sopratutto nel contesto di un festival, a gente che viene da tutte le parti del mondo, e che però può facilmente immedesimarsi con la tua storia. Come scrivi e strutturi i tuoi film? È solo il potere della storia o è qualcosa che riesci a costruire sul set?
Entrambe. Le difficoltà per me iniziano con la ricerca della location. Io filmo per le vie e non le ricreo attraverso i set. Durante la pandemia sono stato due mesi nella parte meridionale delle Filippine per cercare la giusta location. Ci sono stato dal novembre del 2020 al gennaio 2021, dopodiché ho deciso di filmare in quei luoghi. Successivamente ho cominciato a scrivere la sceneggiatura. Per quanto riguarda la tua domanda sui temi universali, io credo che tutti noi affrontiamo le medesime difficoltà, dobbiamo costantemente confrontarci con questi demagoghi, con questi autocrati, come Putin, Trump o Marcos. Sono dappertutto! Ci rapportiamo alle autorità in maniera psicotica: le odiamo, eppure le amiamo, esse sono lo specchio del nostro sadomasochismo interiore. Una domanda che dovremmo porci è: perché lo permettiamo ancora nel XXI secolo?
A proposito del genere noir, c’è una citazione di Hercule Poirot all’inizio del film, e si potrebbe azzardare a fare un interessante parallelismo tra il personaggio di Hermes e Poirot. Mi interessava sapere perché tu abbia deciso di inserire questa citazione e di compiere questo paragone.
Io amo Hercule Poirot e il suo modo di trovare la verità in mezzo al caos, al labirinto. Ho voluto mettere la citazione in bella vista, bisogna davvero scavare a fondo per trovare la verità, proprio come faceva Poirot nelle opere di Agatha Christie.
Visto che hai citato alcuni politici, credi che nelle Filippine la situazione possa migliorare con il nuovo presidente Ferdinand Marcos Jr.?
Vedremo, perché è comunque il figlio di un dittatore e sembra che voglia tornare ai giorni d’oro del regno di suo padre. È un brutto segnale, perciò non sembrano esserci buone prospettive.
Il tuo film è frutto di una grossa coproduzione internazionale. Che mezzi ti ha offerto questo tipo di cooperazione?
Mi ha offerto margini più ampi per agire, recuperando soldi di qua e di là, e ci ha permesso di filmare senza troppa fretta. Questa è un’ottima cosa! E c’è anche un po’ di guadagno per la crew filippina per poter campare (il regista ride, n.d.r). Quando crei un film, finisci inevitabilmente per fermarti e chiederti se stia venendo bene. Ci sono tanti fattori ed elementi che possono far trasformare un film in un brutto lavoro. È un medium molto complicato e noi creatori ci chiediamo costantemente se la nostra opera sia o meno buona. Ti senti spesso inadeguato, dubiti sempre del tuo lavoro. Puoi spingerti fino ad un certo punto, specialmente se i soldi sono pochi. Fare cinema è complicato, non è una passeggiata nel parco, sopratutto quando si presentano degli ostacoli e la tua visione si offusca.
Sono curioso di sapere qualche informazione sulla tua scelta di girare questo film in pellicola, visto che altri tuoi lungometraggi li hai filmati in digitale.
Se dipendesse da me, girerei tutti i miei film in pellicola, ma è piuttosto costoso, specialmente nelle Filippine dove non ci sono molti laboratori e per questo siamo costretti ad ordinare dall’estero delle pile di pellicola. Alcune di esse sono anche vecchie, siamo arrivati ad acquistarne alcune degli anni Sessanta e Settanta, erano davvero molto belle. Abbiamo persino trovato dei laboratori in Romania (il regista ride, n.d.r.)e questo è un problema perché non si possono vedere le immagini filmate dato che poi devono essere spedite in Romania per poter essere rielaborate. La pellicola in 60 mm è davvero esigente ma allo stesso tempo bellissima perché conferisce un aspetto particolare alle immagini; è come se venissimo proiettati agli albori della settima arte, dentro l’antica anima del cinema e questa è una sensazione stupenda.
Sappiamo che utilizzi il bianco e nero perché ti piace e perché tramite esso vuoi esprimere qualcosa. In questo film talvolta il nero arriva ad oscurare completamente i visi dei personaggi, mentre il bianco fa addirittura scomparire del tutto i personaggi stessi. È possibile che questo film abbia cambiato qualcosa nel tuo impiego del bianco e nero o stai semplicemente seguendo un percorso nel suo uso?
Decisamente. Quando ho iniziato a fare film, utilizzavo la Super 8 in 16 millimetri, come per Evolution of a Filippino Family (2004). È davvero difficile utilizzare i 16 mm.
Pensi che la corruzione rappresentata nel tuo film e nei tuoi personaggi sia legata all’ambiente rappresentato o è qualcosa che esiste da prima?
È sia nella natura dell’uomo che in quella del mio Paese. Abbiamo attraversato molte difficoltà, dalla colonizzazione spagnola che è durata più di 400 anni a cui è succeduta quella americana, durata anch’essa quasi 100 anni, poi 4 anni di raid giapponesi, poi la dittatura di Marcos durata 25 anni e ora stiamo attraversando i 6 anni dell’amministrazione del nostro attuale presidente. Si può dire che questa violenza è parte di noi, dei nostri attributi, della nostra cultura, così come tutta questa ignoranza che porta alla perversa ricerca di un uomo forte che possa salvare il nostro Paese. È un misto di schizofrenia e psicosi, è follia! Ed è difficile vincere questa guerra contro l’ignoranza, un’ignoranza che ora si è propagata in tutto il mondo.
Per quanto riguarda il tema della corruzione, vorrei sapere come l’hai affrontato durante la preparazione del film. Hai avuto la possibilità di incontrare dei poliziotti a cui ti sei ispirato per i tuoi personaggi?
Da giovane ho fatto il giornalista e il mio primo incarico è stato nel giornale The Police Beat. All’interno di questa testata sei assegnato nelle stazioni di polizia dove scrivi su tutti gli omicidi, le rapine ed ogni atto criminale. Il sistema della polizia è davvero corrotto e sono pochi gli individui veramente onesti. La cultura poliziesca è molto complicata e corrotta. È difficile incontrare una brava persona in quel sistema.
Ciò che è davvero interessante nei tuoi film è il senso della narrazione all’interno di ogni singola inquadratura; non si ha mai la sensazione che «non stia accadendo nulla» ma che tutto ciò che accade sullo schermo sia urgente e necessario. Per esempio, nel cinema di Andrej Tarkovskij ci sono sempre lunghe carrellate dove «non accade nulla», per specifiche ragioni ovviamente, e mi sembra che tu abbia acquisito l’eredità di questo grande maestro, creando una tua personale concezione del tempo nel cinema. Come me lo puoi spiegare? (il regista ride, n.d.r)
No, non sbagli. Il cinema ha il potere di catturare ciò che non vediamo e non sentiamo; le piccole cose che non vediamo quotidianamente sono le cose che acquisiscono grande importanza nel cinema. Questo è la caratteristica principale del cosiddetto «slow cinema». Se ti lasci immergere, se penetri dentro di esso, può risultare più entusiasmante di una pellicola ricca d’azione. Con questo non voglio dire che i film d’azione siano brutti, sono anch’essi parte del cinema, ma lo «slow cinema» permette di guardare dritto nell’anima, nei primordi dell’umanità, e perciò risulta più potente.
A questo punto della tua carriera sei interessato ad affrontare nuovi tipi di genere?
Io apprezzo tutti i generi. Ad esempio, con questo film ho fatto un vero e proprio mix di generi. C’è il noir, il socio-realismo, l’assurdo, il surreale. Questo è il motivo per cui l’arte cinematografica è così vasta. Puoi andare in qualsiasi direzione ed esplorarla. D’altronde è un’arte ancora relativamente giovane, avendo poco più di 100 anni.
E quale genere ti piacerebbe esplorare?
L’horror (il regista ride, n.d.r.).
L’horror?
Tutti i miei film sono horror (il regista ride ancora, n.d.r.).
E la commedia?
La commedia? Sì, sì, c’è molta comicità in questo film (il regista sorride, n.d.r.).
È vero che il film durava originariamente dieci ore?
Esatto. Ci sono tre parti distinte. Ho iniziato a girarlo prima dell’inizio della pandemia. La prima parte è stata girata durante l’eruzione di un enorme vulcano nelle Filippine. Dopo, a causa dell’avvento della pandemia, abbiamo avuto uno iato di alcuni mesi per poi iniziare nuovamente. A quel punto ho cambiato la trama concentrandomi sulla storia di Hermes e alla fine abbiamo girato un’altra sequenza del film. In questo modo si sono formate tre parti ben distinte. Però, mentre mi accingevo a montarlo, ho apprezzato molto l’autonomia della parte centrale e quindi ho deciso di togliere di mezzo il prologo e l’epilogo che finiranno in un nuovo film che uscirà l’anno prossimo. La durata complessiva era di circa nove ore.
Riusciremo mai a vedere il resto?
Si, vedrete una connessione con questo film, il quale però è comunque autonomo: è come se fosse il capitolo di una vita. Potrete connettere i due film - When the Waves Are Gone, n.d.r. - anche perché si concentrano sul medesimo personaggio.
In questo film la danza costituisce una via per salvarsi?
La danza? No, no (il regista ride, n.d.r.). In realtà sono appassionato di musica, come la zumba, a cui la danza è strettamente legata. Mentre giravo c’erano dei protocolli molti rigidi, ma ai danzatori di zumba non importava nulla. Erano dappertutto! Ogni giorno c’era una coppia o un gruppo che danzava e sembrava costituire un atto di sfida nei confronti di tutte queste imposizioni. Io li guardavo ogni mattina e alla fine ho deciso: inseriamoli nel film! (il regista ride, n.d.r.). Però mentre li dirigevo li ho avvisati che non avrei messo della musica o del suono ma che il loro ritmo e movimento sarebbe dovuto provenire dal loro istinto primordiale.
Ho una domanda sulle scene di danza. Utilizzi dei momenti in cui i protagonisti ballano da soli per creare un collegamento tra loro. Quale credi che sia il nesso psicologico che lega questi due personaggi?
Al di là del fatto che provengono entrambi dai dipartimenti di polizia e che entrambi insegnano ai cadetti, si ritorna sempre all’aspetto primitivo. È come se fosse una sorta di rituale. Se risaliamo alle origini dell’umanità, siamo tutti associati dal movimento, dalle danze, dai rituali. Essenzialmente i fondamentali legami che si stabiliscono tra gli uomini sono le tribù e le nazioni, dove vi è uno specifico e preciso movimento. Se vai dai Mohawk o dai Palawan - tribù filippina, n.d.r. - ti accorgerai che ciascuna di esse possiede uno specifico movimento. È un fattore decisamente fisico.
Solitamente lavori con gli stessi attori nei tuoi film. Mi chiedevo se quando scrivi un ruolo hai già in mente di destinarlo ad un determinato interprete.
Sì e no. Dipende dalla loro disponibilità. Talvolta scrivo un preciso personaggio per uno specifico attore, ma la maggior parte delle volte scelgo degli attori con cui ho una certa familiarità. Essendo miei amici loro conoscono il mio processo ed io conosco il loro ed in questo modo si costituisce un rapporto di reciproca fiducia. Il 50% del lavoro è già svolto quando lavori con delle persone che conosci.
Hai mai pensato di lavorare per la televisione?
Ho appena finito di girare per la televisione. Il film che ho presentato alla FIDMarseille, A Tale of Filippino Violence - che verrà presentato al Festival di Torino, n.d.r. - in realtà è un’opera televisiva composta da 10 episodi e credo che duri all’incirca dieci ore. È stato fatto per la tv ma l’ho girato come un’opera cinematografica. Alla fine, sono stato comunque in grado di girare un film di dieci ore.
Ritornando alla questione dei generi cinematografici, tu ne hai affrontati molti, come quello distopico in The Halt (2019). Hai ancora qualcosa da dire attraverso questo genere?
Sì, e inoltre mi piacerebbe esplorare di più i generi della commedia e della fantascienza.
E vedremo mai un altro musical da parte tua?
Sì, sì. Ne stiamo girando ora uno in Spagna e racconta la vita della moglie di Magellano, Beatriz. Sai, ho scritto molto su di lei, forse dalla fine del 2020. Su Magellano hanno scritto molti libri ma al loro interno è come se sua moglie fosse una postilla di due-tre righe. È così che trattavamo spesso le donne nel passato. Solo Maria Antonietta ne è uscita bene (il regista ride, n.d.r) e forse anche la regina Elisabetta.