L’uomo che Truffaut definì il regista
più importante ancora in vita,
di Edoardo Torraca
TR-60
08.05.2022
Si dice che alcuni animali si trovino a proprio agio nella natura più estrema, quella più selvaggia. Natura che spesso e volentieri viene descritta all’interno di storie epiche come luogo idilliaco, erotico. Questa invece è la storia di un uomo che vede una natura piena di oscenità, casa di alberi in sofferenza, dove “gli uccelli non cantano ma stridulano dal dolore”. Dell’uomo che François Truffaut definì il cineasta più importante rimasto in vita, omaggiando così la purezza e la nobiltà della missione di un narratore di altri tempi che lotta per la sopravvivenza dei sogni. Un uomo chiamato Werner Herzog, che ha cercato attraverso i suoi film di raccontare tutto quello che succedeva al di fuori dell’inquadratura, creando un nuovo modo di intendere il ruolo del regista e cambiando per sempre la storia del cinema.
Nato a Monaco nel 1942, Herzog ama definirsi un “bavarese del tardo medioevo”. Cresciuto nella Germania del secondo dopoguerra, viene introdotto e preparato a professioni fisiche e per certi aspetti primitive. Così coltiva sin da bambino l’abitudine di viaggiare a piedi e il fascino per una vita al di fuori di ogni schema. Lo slogan della Rogue Film School, da lui fondata, esprime in modo chiaro e sintetico la sua visione della vita: "[questa scuola] è per coloro che hanno viaggiato a piedi, che hanno lavorato come buttafuori nei locali notturni o come guardiani in un manicomio... per coloro che sanno percepire la poesia. Per coloro che hanno un fuoco che brucia dentro. Per quelli che hanno un sogno”.
Per il regista bavarese, infatti, la vita continua a vibrare nei luoghi più remoti della terra e della nostra mente, lontani per certi aspetti dalle dinamiche della società civile moderna. Luoghi accomunati da uno spirito esistenzialista e dall’atto di ricerca, che diventa per Herzog un elemento necessario per la costruzione di un'epica: senza questa non può esserci una storia, e senza storie non può esserci vita. I suoi viaggi verso questi posti reconditi hanno contribuito negli anni a costruire una mitologia intorno alla sua figura, che è andata ben oltre il successo delle sue pellicole, trasformandolo lentamente in un oggetto di culto ma soprattutto in controcorrente con la concezione più tradizionale della figura del cineasta. Il suo modo di approcciare il racconto, nel senso più ampio del termine, è più vicino ai diari di Walter Bonatti o alle storie di Conrad, più che a qualsiasi altro regista.
Nell’analizzare a fondo la sua prolifica filmografia, composta da più di venti lungometraggi e altrettanti documentari, si possono notare due elementi che caratterizzano la sua visione del mondo e dell’arte di fare cinema. Il primo ha a che fare con l’ossessiva ricerca di un’epica all’interno delle sue storie, di persone che, cercando di raggiungere un obiettivo incomprensibile, scoprono la bellezza che circonda la conquista dell’inutile. Il secondo riguarda invece il modo in cui il regista mette in scena queste storie, invertendo a suo piacimento i canoni tradizionali del documentario e della finzione. Creando così un universo unico, indecifrabile, nel quale il contesto e la realtà sono concetti rielaborati da un punto di vista personale che confonde lo stile e la tecnica, la perspicacia e l’incoscienza, il fatto e la verità.
Nei suoi film Herzog ricerca storie di uomini e donne che conducono vite austere, ancestrali per certi aspetti, che rincorrono e inseguono il sogno proibito di un’esistenza libera. Tutti i suoi personaggi sono accomunati da un senso di incompletezza che deriva da una necessità di completarsi all’interno di un mondo che non li comprende. Nel contrapporre la visione utopistica dell’impresa a quella primordiale della quotidianità, in queste storie spesso ai limiti della condizione umana il regista spinge la sua voce ai confini dell’uomo contemporaneo, dove uomo e natura si fondono, dove la società civile lascia posto alla brutalità, dove per un istante si può scorgere quella che il regista ama definire una verità estatica. Ossia un sentimento universale al di fuori dei canoni del tempo, che si prova quando si legge una grande poesia o si osserva un quadro: in breve, quel sentimento che le parole non sono in grado di descrivere.
L’enigma di Kaspar Hauser è un ottimo esempio di tutto ciò. Nel film Herzog racconta la storia di Kaspar Hauser, un uomo realmente vissuto nel XIX secolo che per motivi misteriosi non sa parlare e non è in grado di comunicare con altre persone. Quest’uomo si trova a confronto con una società che non lo comprende e cerca di imporgli l’educazione che non ha mai ricevuto, creando così un forte dibattito sull’influenza che il collettivo ha sugli individui. Come nel Ragazzo selvaggio di Truffaut e Arancia Meccanica di Kubrick, Kaspar Hauser è un uomo candido, innocente, che le varie persone che incontra nel suo percorso cercano di malleare per portarlo a un comportamento più consono per la società civile. Un uomo che lotta per stabilire il suo diritto alla vita e alla costante ricerca di un posto all’interno di un mondo che sembra rifiutarlo.
Nel documentario Burden of Dreams di Les Blank, che segue le riprese del film Fitzcarraldo, Herzog descrive chiaramente il ruolo del cineasta dal suo punto di vista, spiegando che “ci sono dei sogni che appartengono a tutti, tutti abbiamo dei sogni. L’unica differenza è che io sono in grado di articolare quei sogni. Ho un obbligo nel raccontare le verità interne dell’uomo”. Il cinema diventa così un mezzo per raggiungere e raccontare altro, un tramite per esplorare una dimensione più ampia e profonda di quello che le immagini sono in grado di mostrare. Per fare ciò mette a dura prova se stesso e la sua squadra, ricreando nella realtà il set del suo film, donando, come faceva Visconti nei suoi set, verità all’arte della finzione. Il regista bavarese si trasforma così lentamente in un personaggio dei suoi migliori film, indomito nel tentare di compiere l’impresa per affermare se stesso.
Il documentario di Blank è forse il lascito più importante di Herzog, che seppur nelle vesti di attore racconta le sue più profonde necessità sia di cineasta che di uomo. Il tutto viene descritto all’interno di un contesto surreale, che ricorda in parte il travagliato making of di Apocalypse Now, con la differenza che Herzog ha o per lo meno millanta di avere una profondità di spirito riservata ai grandi filosofi o poeti. Ogni sua riflessione, come ogni suo film, mantiene sempre una visione estremamente nitida della realtà che lo circonda, andando a scovare nei più insignificanti dettagli la materializzazione di un qualcosa di mistico. Il documentario racchiude alla perfezione il processo di creazione e il tentativo di Herzog di raccontare un sogno insensato, che mette a rischio la vita di centinaia di persone per poter dimostrare al mondo che le idee e le speranze sono l’unica cosa che ci differenzia dalle bestie.
Oltre alle tematiche che accomunano i progetti del regista, si può notare come il suo approccio ai documentari e al cinema di finzione sia l’elemento più distintivo e singolare della sua visione. Herzog infatti racconta e sviluppa le sue storie in modo non convenzionale, arrivando a invertire i canoni classici del documentario e della finzione. Tutto ciò nasce dal principio secondo il quale la realtà è estremamente soggettiva, è un’essenza che si forma a partire dai nostri ricordi. Siamo noi attraverso la nostra percezione a costruire la realtà. Perciò nel raccontare i suoi documentari tralascia del tutto, o nella maggior parte dei casi, un’esposizione limpida dei fatti, contamindola invece con suggestioni, metafore, allegorie e l’inesorabile scorrere del tempo. L’assenza di epica richiede un lavoro autoriale, che scandito dalla sua voce avvolgente ci porta a immaginare mondi e imprese dentro la semplicità dell’essere umano.
La finzione e l’avventura, che per Herzog assomigliano ai canti di Omero o ai racconti di London, non hanno bisogno di essere incensati, non necessitano di alcun ornamento, perchè è la storia stessa a contenere l’epica tanto ricercata dal regista bavarese. In questi casi Herzog si limita a documentare e a rendere il più reale possibile i contesti nei quali i suoi personaggi si muovono, all’interno di un quadro più ampio ai limiti del surreale. In Fitzcarraldo per esempio, considerato dal regista come il suo miglior documentario anche se si tratta chiaramente di un film di finzione, si percepisce la necessità di ricostruire passo per passo una realtà che non esiste, che Herzog ha il grande merito non solo di immaginare, ma di preservare affinché non svanisca nei ricordi del passato.
Il film racconta la storia di un uomo chiamato Fitzcarraldo che ha un sogno, quello di portare l’opera lirica nel cuore della foresta amazzonica. Armato di un giradischi dal quale fa risuonare le note di Caruso in un territorio ostile all’uomo moderno, si avventura all’interno della natura con un piano ben preciso, ovvero attraversare una montagna che separa due fiumi per trasportare una barca verso un territorio di fortune. Al di là delle varie disavventure nel quale il protagonista si imbatte, il centro della storia rimane sempre la relazione tra Fitzcarraldo e le popolazioni indigene delle quali si avvale per completare il suo folle progetto. L’ostacolo più grande per il protagonista, e in parte per Herzog, è quello di convincere le persone intorno a lui dell’importanza dell’impresa, che rappresenta una prova per affermare la propria libertà e il profondo senso della vita.
Ma se da un lato l’ambientazione della storia assomiglia a un racconto fantastico, la messa in scena ricorda quella di un documentario, nel quale l’intenzione principale è ottenere uno stile essenziale e sobrio. Il processo è molto simile a quello adoperato in Aguirre, furore di Dio, che qualche anno prima aveva sancito la prima collaborazione tra Herzog e il suo attore feticcio Klaus Kinski. Anche in questo caso, si può osservare la ricerca di una messa in scena scarna per ampliare il respiro di un racconto epico. Nel film infatti si seguono le vicende di un conquistatore in cerca di fortuna, che come Fitzcarraldo si addentra nelle foreste amazzoniche per superare la migliore versione di se stesso. Questi due film costituiscono per certi versi la nascita di un nuovo genere cinematografico, capace di unire l’aspetto storico con un viaggio interiore dei protagonisti.
Dall’altro lato, quando Herzog affronta un documentario, non ha come obiettivo principale quello di riprodurre fedelmente la realtà, bensì di scovare una verità più profonda. Little Dieter Needs to Fly ne è forse l’esempio più lampante e riuscito. Il documentario racconta la storia di Dieter Dengler, un uomo nato con il sogno di volare che si è successivamente ritrovato pilota dell’aviazione americana nella guerra in Vietnam. In seguito a un incidente Dengler si ritrova solo e perso nel territorio nemico, dal quale riuscirà a scappare dopo venti lunghi giorni passati nella foresta, prigioniero dei nemici e infine liberato dagli americani stessi. Oltre alla storia che ha già di suo dell’incredibile, quello che colpisce è la personalità di Dengler al limite tra pazzia e recitazione, ogni cui gesto sembra dosato per conferire alla narrazione un respiro più ampio.
La genialità di Herzog in questo caso sta nell’assecondare, stimolare e cavalcare lo sguardo unico del protagonista sulla sua storia, e così decide di rivivere passo per passo la prigionia di Dengler seguendo e catturando con la camera quei venti lunghi giorni. Il risultato è un quadro più profondo, che strappa gli avvenimenti alla tirannia del tempo e li rende eterni, creando un forte contrasto con un periodo storico buio che ormai non esiste più. Quella foresta una volta animata dalla follia dell’uomo è ora un teatro desolato che si è evoluto, e questo rende la storia di Dengler un racconto senza tempo. Allo stesso modo, in altri documentari come Incontri alla fine del mondo o Into the abyss Herzog riesce a unire mondi apparentemente lontani e a creare connessioni che rendono quelle storie universali e allo stesso tempo portatrici di uno stile unico.
Incontri alla fine del mondo è esemplificativo della capacità di Herzog di rendere interessanti temi che in principio potrebbero risultare tecnici o non adatti al grande pubblico. Il documentario segue le vicende di una stazione scientifica in Antartide, raccontando le storie delle persone che vivono la loro quotidianità in un territorio così ostile all’uomo. La voce di Herzog, fitta di ragionamenti e digressioni sulla natura dell’essere umano, crea un filtro attraverso il quale si instaura un contatto diretto tra gli avvenimenti e le coscienze delle persone che lavorano nella stazione. Il regista bavarese riesce così a raccontare attraverso le immagini e la sua voce fuori campo il contatto reale che esiste tra uomo e natura, che solo si può avvertire ai confini del mondo.
In altri progetti come Grizzly Man e Happy People Herzog, lavorando con immagini non girate da lui in prima persona, dimostra al mondo che la perfezione tecnica di un’ inquadratura può essere fine a se stessa. In particolare, in Happy People, il regista acquisisce vari documentari già girati che seguono le vicende di alcuni cacciatori nella Taiga russa, trasformandoli in un viaggio alla scoperta della solitudine.
Quello che interessa a Herzog è il loro percorso nell’accettare i propri limiti, e descrive i cacciatori così: “Assomiglia a un uomo preistorico di una lontana età dei ghiacci… però qui fuori, il cacciatore è uno dei pochi testimoni della bellezza dello spazio freddo e silenzioso.” Insieme ai suoi altri documentari, questa storia condivide la necessità di spremere, distorcere e intagliare la realtà all’interno di una prospettiva estremamente personale, in modo da renderla una dimensione in grado di vivere e respirare a un ritmo tutto suo.
Ma al di là della sua mistica e della sua indiscutibile capacità di trasformare qualsiasi cosa gli passi davanti agli occhi in una storia, la grande eredità che Herzog lascerà non sarà circoscritta solamente alla tecnica, ma riguarderà anche la sua metodologia. Il saper porre un film all’interno di uno schema più grande, narrandolo però da una prospettiva estremamente personale, permeando la pellicola con l’epica delle imprese più grandi e quindi inutili. Perché in fondo, come afferma lo stesso Herzog, il cinema non è altro che “un susseguirsi di banalità, attraverso le quali gli esseri umani scoprono i propri limiti. Lo devono a loro stessi e a nessun altro”.
L’uomo che Truffaut definì il regista
più importante ancora in vita,
di Edoardo Torraca
TR-60
08.05.2022
Si dice che alcuni animali si trovino a proprio agio nella natura più estrema, quella più selvaggia. Natura che spesso e volentieri viene descritta all’interno di storie epiche come luogo idilliaco, erotico. Questa invece è la storia di un uomo che vede una natura piena di oscenità, casa di alberi in sofferenza, dove “gli uccelli non cantano ma stridulano dal dolore”. Dell’uomo che François Truffaut definì il cineasta più importante rimasto in vita, omaggiando così la purezza e la nobiltà della missione di un narratore di altri tempi che lotta per la sopravvivenza dei sogni. Un uomo chiamato Werner Herzog, che ha cercato attraverso i suoi film di raccontare tutto quello che succedeva al di fuori dell’inquadratura, creando un nuovo modo di intendere il ruolo del regista e cambiando per sempre la storia del cinema.
Nato a Monaco nel 1942, Herzog ama definirsi un “bavarese del tardo medioevo”. Cresciuto nella Germania del secondo dopoguerra, viene introdotto e preparato a professioni fisiche e per certi aspetti primitive. Così coltiva sin da bambino l’abitudine di viaggiare a piedi e il fascino per una vita al di fuori di ogni schema. Lo slogan della Rogue Film School, da lui fondata, esprime in modo chiaro e sintetico la sua visione della vita: "[questa scuola] è per coloro che hanno viaggiato a piedi, che hanno lavorato come buttafuori nei locali notturni o come guardiani in un manicomio... per coloro che sanno percepire la poesia. Per coloro che hanno un fuoco che brucia dentro. Per quelli che hanno un sogno”.
Per il regista bavarese, infatti, la vita continua a vibrare nei luoghi più remoti della terra e della nostra mente, lontani per certi aspetti dalle dinamiche della società civile moderna. Luoghi accomunati da uno spirito esistenzialista e dall’atto di ricerca, che diventa per Herzog un elemento necessario per la costruzione di un'epica: senza questa non può esserci una storia, e senza storie non può esserci vita. I suoi viaggi verso questi posti reconditi hanno contribuito negli anni a costruire una mitologia intorno alla sua figura, che è andata ben oltre il successo delle sue pellicole, trasformandolo lentamente in un oggetto di culto ma soprattutto in controcorrente con la concezione più tradizionale della figura del cineasta. Il suo modo di approcciare il racconto, nel senso più ampio del termine, è più vicino ai diari di Walter Bonatti o alle storie di Conrad, più che a qualsiasi altro regista.
Nell’analizzare a fondo la sua prolifica filmografia, composta da più di venti lungometraggi e altrettanti documentari, si possono notare due elementi che caratterizzano la sua visione del mondo e dell’arte di fare cinema. Il primo ha a che fare con l’ossessiva ricerca di un’epica all’interno delle sue storie, di persone che, cercando di raggiungere un obiettivo incomprensibile, scoprono la bellezza che circonda la conquista dell’inutile. Il secondo riguarda invece il modo in cui il regista mette in scena queste storie, invertendo a suo piacimento i canoni tradizionali del documentario e della finzione. Creando così un universo unico, indecifrabile, nel quale il contesto e la realtà sono concetti rielaborati da un punto di vista personale che confonde lo stile e la tecnica, la perspicacia e l’incoscienza, il fatto e la verità.
Nei suoi film Herzog ricerca storie di uomini e donne che conducono vite austere, ancestrali per certi aspetti, che rincorrono e inseguono il sogno proibito di un’esistenza libera. Tutti i suoi personaggi sono accomunati da un senso di incompletezza che deriva da una necessità di completarsi all’interno di un mondo che non li comprende. Nel contrapporre la visione utopistica dell’impresa a quella primordiale della quotidianità, in queste storie spesso ai limiti della condizione umana il regista spinge la sua voce ai confini dell’uomo contemporaneo, dove uomo e natura si fondono, dove la società civile lascia posto alla brutalità, dove per un istante si può scorgere quella che il regista ama definire una verità estatica. Ossia un sentimento universale al di fuori dei canoni del tempo, che si prova quando si legge una grande poesia o si osserva un quadro: in breve, quel sentimento che le parole non sono in grado di descrivere.
L’enigma di Kaspar Hauser è un ottimo esempio di tutto ciò. Nel film Herzog racconta la storia di Kaspar Hauser, un uomo realmente vissuto nel XIX secolo che per motivi misteriosi non sa parlare e non è in grado di comunicare con altre persone. Quest’uomo si trova a confronto con una società che non lo comprende e cerca di imporgli l’educazione che non ha mai ricevuto, creando così un forte dibattito sull’influenza che il collettivo ha sugli individui. Come nel Ragazzo selvaggio di Truffaut e Arancia Meccanica di Kubrick, Kaspar Hauser è un uomo candido, innocente, che le varie persone che incontra nel suo percorso cercano di malleare per portarlo a un comportamento più consono per la società civile. Un uomo che lotta per stabilire il suo diritto alla vita e alla costante ricerca di un posto all’interno di un mondo che sembra rifiutarlo.
Nel documentario Burden of Dreams di Les Blank, che segue le riprese del film Fitzcarraldo, Herzog descrive chiaramente il ruolo del cineasta dal suo punto di vista, spiegando che “ci sono dei sogni che appartengono a tutti, tutti abbiamo dei sogni. L’unica differenza è che io sono in grado di articolare quei sogni. Ho un obbligo nel raccontare le verità interne dell’uomo”. Il cinema diventa così un mezzo per raggiungere e raccontare altro, un tramite per esplorare una dimensione più ampia e profonda di quello che le immagini sono in grado di mostrare. Per fare ciò mette a dura prova se stesso e la sua squadra, ricreando nella realtà il set del suo film, donando, come faceva Visconti nei suoi set, verità all’arte della finzione. Il regista bavarese si trasforma così lentamente in un personaggio dei suoi migliori film, indomito nel tentare di compiere l’impresa per affermare se stesso.
Il documentario di Blank è forse il lascito più importante di Herzog, che seppur nelle vesti di attore racconta le sue più profonde necessità sia di cineasta che di uomo. Il tutto viene descritto all’interno di un contesto surreale, che ricorda in parte il travagliato making of di Apocalypse Now, con la differenza che Herzog ha o per lo meno millanta di avere una profondità di spirito riservata ai grandi filosofi o poeti. Ogni sua riflessione, come ogni suo film, mantiene sempre una visione estremamente nitida della realtà che lo circonda, andando a scovare nei più insignificanti dettagli la materializzazione di un qualcosa di mistico. Il documentario racchiude alla perfezione il processo di creazione e il tentativo di Herzog di raccontare un sogno insensato, che mette a rischio la vita di centinaia di persone per poter dimostrare al mondo che le idee e le speranze sono l’unica cosa che ci differenzia dalle bestie.
Oltre alle tematiche che accomunano i progetti del regista, si può notare come il suo approccio ai documentari e al cinema di finzione sia l’elemento più distintivo e singolare della sua visione. Herzog infatti racconta e sviluppa le sue storie in modo non convenzionale, arrivando a invertire i canoni classici del documentario e della finzione. Tutto ciò nasce dal principio secondo il quale la realtà è estremamente soggettiva, è un’essenza che si forma a partire dai nostri ricordi. Siamo noi attraverso la nostra percezione a costruire la realtà. Perciò nel raccontare i suoi documentari tralascia del tutto, o nella maggior parte dei casi, un’esposizione limpida dei fatti, contamindola invece con suggestioni, metafore, allegorie e l’inesorabile scorrere del tempo. L’assenza di epica richiede un lavoro autoriale, che scandito dalla sua voce avvolgente ci porta a immaginare mondi e imprese dentro la semplicità dell’essere umano.
La finzione e l’avventura, che per Herzog assomigliano ai canti di Omero o ai racconti di London, non hanno bisogno di essere incensati, non necessitano di alcun ornamento, perchè è la storia stessa a contenere l’epica tanto ricercata dal regista bavarese. In questi casi Herzog si limita a documentare e a rendere il più reale possibile i contesti nei quali i suoi personaggi si muovono, all’interno di un quadro più ampio ai limiti del surreale. In Fitzcarraldo per esempio, considerato dal regista come il suo miglior documentario anche se si tratta chiaramente di un film di finzione, si percepisce la necessità di ricostruire passo per passo una realtà che non esiste, che Herzog ha il grande merito non solo di immaginare, ma di preservare affinché non svanisca nei ricordi del passato.
Il film racconta la storia di un uomo chiamato Fitzcarraldo che ha un sogno, quello di portare l’opera lirica nel cuore della foresta amazzonica. Armato di un giradischi dal quale fa risuonare le note di Caruso in un territorio ostile all’uomo moderno, si avventura all’interno della natura con un piano ben preciso, ovvero attraversare una montagna che separa due fiumi per trasportare una barca verso un territorio di fortune. Al di là delle varie disavventure nel quale il protagonista si imbatte, il centro della storia rimane sempre la relazione tra Fitzcarraldo e le popolazioni indigene delle quali si avvale per completare il suo folle progetto. L’ostacolo più grande per il protagonista, e in parte per Herzog, è quello di convincere le persone intorno a lui dell’importanza dell’impresa, che rappresenta una prova per affermare la propria libertà e il profondo senso della vita.
Ma se da un lato l’ambientazione della storia assomiglia a un racconto fantastico, la messa in scena ricorda quella di un documentario, nel quale l’intenzione principale è ottenere uno stile essenziale e sobrio. Il processo è molto simile a quello adoperato in Aguirre, furore di Dio, che qualche anno prima aveva sancito la prima collaborazione tra Herzog e il suo attore feticcio Klaus Kinski. Anche in questo caso, si può osservare la ricerca di una messa in scena scarna per ampliare il respiro di un racconto epico. Nel film infatti si seguono le vicende di un conquistatore in cerca di fortuna, che come Fitzcarraldo si addentra nelle foreste amazzoniche per superare la migliore versione di se stesso. Questi due film costituiscono per certi versi la nascita di un nuovo genere cinematografico, capace di unire l’aspetto storico con un viaggio interiore dei protagonisti.
Dall’altro lato, quando Herzog affronta un documentario, non ha come obiettivo principale quello di riprodurre fedelmente la realtà, bensì di scovare una verità più profonda. Little Dieter Needs to Fly ne è forse l’esempio più lampante e riuscito. Il documentario racconta la storia di Dieter Dengler, un uomo nato con il sogno di volare che si è successivamente ritrovato pilota dell’aviazione americana nella guerra in Vietnam. In seguito a un incidente Dengler si ritrova solo e perso nel territorio nemico, dal quale riuscirà a scappare dopo venti lunghi giorni passati nella foresta, prigioniero dei nemici e infine liberato dagli americani stessi. Oltre alla storia che ha già di suo dell’incredibile, quello che colpisce è la personalità di Dengler al limite tra pazzia e recitazione, ogni cui gesto sembra dosato per conferire alla narrazione un respiro più ampio.
La genialità di Herzog in questo caso sta nell’assecondare, stimolare e cavalcare lo sguardo unico del protagonista sulla sua storia, e così decide di rivivere passo per passo la prigionia di Dengler seguendo e catturando con la camera quei venti lunghi giorni. Il risultato è un quadro più profondo, che strappa gli avvenimenti alla tirannia del tempo e li rende eterni, creando un forte contrasto con un periodo storico buio che ormai non esiste più. Quella foresta una volta animata dalla follia dell’uomo è ora un teatro desolato che si è evoluto, e questo rende la storia di Dengler un racconto senza tempo. Allo stesso modo, in altri documentari come Incontri alla fine del mondo o Into the abyss Herzog riesce a unire mondi apparentemente lontani e a creare connessioni che rendono quelle storie universali e allo stesso tempo portatrici di uno stile unico.
Incontri alla fine del mondo è esemplificativo della capacità di Herzog di rendere interessanti temi che in principio potrebbero risultare tecnici o non adatti al grande pubblico. Il documentario segue le vicende di una stazione scientifica in Antartide, raccontando le storie delle persone che vivono la loro quotidianità in un territorio così ostile all’uomo. La voce di Herzog, fitta di ragionamenti e digressioni sulla natura dell’essere umano, crea un filtro attraverso il quale si instaura un contatto diretto tra gli avvenimenti e le coscienze delle persone che lavorano nella stazione. Il regista bavarese riesce così a raccontare attraverso le immagini e la sua voce fuori campo il contatto reale che esiste tra uomo e natura, che solo si può avvertire ai confini del mondo.
In altri progetti come Grizzly Man e Happy People Herzog, lavorando con immagini non girate da lui in prima persona, dimostra al mondo che la perfezione tecnica di un’ inquadratura può essere fine a se stessa. In particolare, in Happy People, il regista acquisisce vari documentari già girati che seguono le vicende di alcuni cacciatori nella Taiga russa, trasformandoli in un viaggio alla scoperta della solitudine.
Quello che interessa a Herzog è il loro percorso nell’accettare i propri limiti, e descrive i cacciatori così: “Assomiglia a un uomo preistorico di una lontana età dei ghiacci… però qui fuori, il cacciatore è uno dei pochi testimoni della bellezza dello spazio freddo e silenzioso.” Insieme ai suoi altri documentari, questa storia condivide la necessità di spremere, distorcere e intagliare la realtà all’interno di una prospettiva estremamente personale, in modo da renderla una dimensione in grado di vivere e respirare a un ritmo tutto suo.
Ma al di là della sua mistica e della sua indiscutibile capacità di trasformare qualsiasi cosa gli passi davanti agli occhi in una storia, la grande eredità che Herzog lascerà non sarà circoscritta solamente alla tecnica, ma riguarderà anche la sua metodologia. Il saper porre un film all’interno di uno schema più grande, narrandolo però da una prospettiva estremamente personale, permeando la pellicola con l’epica delle imprese più grandi e quindi inutili. Perché in fondo, come afferma lo stesso Herzog, il cinema non è altro che “un susseguirsi di banalità, attraverso le quali gli esseri umani scoprono i propri limiti. Lo devono a loro stessi e a nessun altro”.