TR-95
16.03.2024
Una ragazza si unisce a un gruppo di donne nude che danzano intorno a un falò nel cuore della foresta; due uomini, uno più giovane e uno più anziano, si alzano e danzano ubriachi intorno a un tavolo dentro un faro in mezzo al nulla; un gruppo di guerrieri con teste da lupo urlano e si muovono frenetici intorno a un enorme fuoco, pronti a morire con onore. Sono i protagonisti dei tre film di Robert Eggers: Thomasin di The Witch, Ephraim Winslow e Thomas Wake di The Lighthouse e il principe Amleth di The Northman. C’è qualcosa che lega le figure che si aggirano nello spazio filmico di Eggers, fatto di storia e di mito, di oggetti resi reliquie dallo scorrere del tempo e di racconti fatti di parole e della saliva delle lingue che le hanno tramandate. Si tratta della centralità del rito nelle loro esistenze, di quei movimenti rituali che si trasformano e assumono nuove fisionomie nel momento in cui oltrepassano il confine, nel loro passaggio dall’interno all’esterno, dal centro alla periferia, dal nucleo al margine.
Thomasin (Anya Taylor Joy) e la sua famiglia siedono attorno al tavolo per cenare: al centro una candela che illumina a fatica i visi dei commensali e il loro umile pasto. Il padre guida la preghiera, spezza il pane e lo dà al resto della famiglia. Katherine, la madre di Thomasin, la accusa di aver perso un prezioso calice d’argento appartenuto al padre, fino a sbottare: “Che succede in questa casa? Non è normale”. Le crepe si sono insidiate e hanno incrinato le mura della roccaforte familiare. Il padre di famiglia cerca di rimediare, di allontanare l’oscurità che incombe su di loro attraverso l’unico strumento che possiede: i passi della Bibbia, la preghiera, i salmi e le lodi. Ma le formule rituali codificate, i canti imparati a memoria, le parole messe in fila in modo automatico per invocare una salvezza certa non servono più: la luce nella tenebra non è che il tremolio di una fiammella insignificante. Il bambino è stato portato via da un lupo, oppure da una strega; la natura sta accerchiando la piccola casa.
Nel film d’esordio di Robert Eggers, The Witch (2015), folklore e religione si mescolano per delineare il ritratto di un sostrato popolare dominato dalla superstizione e dalla paura. Il cinema di Eggers non si limita a usare il passato come chiave di lettura del presente, ma ne evidenzia la persistenza. Riesuma i relitti delle credenze e delle paure antiche che animano il subconscio della contemporaneità e mostra il canale che li connette e li unisce in un unico flusso continuo: il fantastico, il soprannaturale che invitiamo nella nostra vita attraverso il racconto, la favola, la leggenda popolare, la superstizione.
Ma il fantastico di Eggers non è un territorio vergine: è un fantastico mostruoso, destabilizzante e terrificante che altro non è che l’emanazione di paranoie millenarie. Non è un fantastico astratto, ma corporale e territoriale: è nel corpo e nella sua perdita di controllo che ricerca la sua fonte di terrore, in un corpo storicamente e geograficamente definito, così come in un territorio e in un periodo costruiti appositamente per potenziare lo sgomento nel vederli insidiati dalle crepe dell’inspiegabile, dell’ultraterreno, del viscerale, del demoniaco.
La famiglia diventa il punto di snodo di queste interazioni: è all’interno dell’istituzione su cui si fonda l’ordine sociale e morale, nella culla della repressione e della sua interiorizzazione che si formano e prosperano le dissidenze e i pericoli che la faranno esplodere dall’interno. Queste interazioni vengono raccontate attraverso la formula del rito, concetto presente tanto come oggetto del discorso quanto come costruttore della narrazione.
La famiglia di Thomasin è un’unità che si sgretola lentamente. Eggers ne mostra i tentativi di arroccarsi dietro un sistema di norme e di tradizioni davanti al male che avanza. Ma il Diavolo non è un’entità sconosciuta che viene dall’esterno: è una creatura che si forma e si nutre in seno alla piccola fattoria, tra i legami logori dei membri di una famiglia che si affanna nella difesa folle di qualcosa che non conosce né comprende fino in fondo.
I rituali di The Witch sono movimenti futili, ritmi cristallizzati, gesti esangui privi della potenza che dovrebbero trarre dalla connessione con l’umano. Dove non esiste più una comunità coesa, il rito diventa un feticcio, un gesto scaramantico, un debole tentativo di allontanare ciò che risiede dentro di noi, quel ciclo ininterrotto di desiderio e paura che si nutrono a vicenda.
Non è un caso se il rito, sia nelle sue valenze positive che in quelle negative, sia centrale nel cinema di Eggers: la questione del rito come rappresentazione pervade le strutture del cinema nella sua forma puramente narrativa, quel tipo di cinema che mantiene dentro di sé la vocazione della tragedia classica e letteraria. Cos’è il rito se non un tentativo di comunicare con qualcosa all’infuori dell’umano, in grado di salvare chi è in grado di implorarlo?
In Eggers lo spazio e il tempo rituale non sono solo il tentativo di concretizzare presenze soprannaturali evanescenti, di portare al livello dell’umano entità immense e sfuggenti: il rito diventa un tentativo di scoprire il soprannaturale che abita dentro di noi, il mistero che muove le cose più umane, la sacralità nascosta dietro la fede, il profano che si cela nelle preghiere. Ma nella sua forma più degradata, dove non sussiste né un “noi” che comunica né un “altro” con cui comunicare, diventa anche una sterile difesa contro ciò che prima abbiamo così tanto disperatamente invocato, un tentativo di arrestare ciò che non si può più fermare, di abortire ciò che abbiamo immaginato e creato con tanta dovizia di particolari.
“Siamo tutti figli del peccato, ma posso dirvi con certezza che non ho allevato streghe in questa casa. Ora preghiamo, così non avremo nulla da temere” esclama il padre prima di tentare di salvare suo figlio dai demoni che lo hanno posseduto. Lo dice con un tono imperioso, ma il suo tentativo di ristabilire il controllo con ostentata sicurezza tradisce un’esitazione difficile da tenere a bada, un’incertezza incompatibile con la fede ostinata. Ritorna la preghiera come rituale che tenta di arginare qualcosa di incomprensibile e di incontrollabile. Ma a tornare è anche la negazione di fronte all’eventualità che la minaccia non derivi dall’esterno, ma nasca in seno alla famiglia: il padre di Thomasin si rifiuta di credere che la figlia possa essere un’adepta di Satana.
Thomasin diventa una creatura liminale, la cui posizione è ambigua e incerta: frutto al contempo dell’educazione ricevuta e del suo rifiuto totale, plasmata dalla struttura in cui è nata e da cui viene espulsa. La sua presenza è tollerata dalla madre, difesa debolmente dal padre, entrambi disposti a disfarsene alla prima occasione utile per avere qualche guadagno e mantenere la famiglia. La giovane è il punto di rottura, la frattura che introduce il flusso di dissidenza: nella sua figura le formule rituali assumono un’altra fisionomia e funzione. Nella scena finale Thomasin, guidata dal caprone Black Philip, si unisce a un gruppo di donne che si muovono in maniera convulsa davanti a un falò, in movimenti che potrebbero a malapena essere riconosciuti come parte di una danza: i corpi nudi di Thomasin e delle altre streghe cominciano a fluttuare nell'aria, con il suono della foresta di sottofondo.
In The Lighthouse (2019) la forza controllante e repressiva è incarnata dall’archetipo del padre, che non si manifesta attraverso una vera e propria figura paterna ma si trasfigura nel rapporto di potere tra il giovane Ephraim Winslow (Robert Pattinson) e Thomas Wake (Willem Dafoe). Rapporto schiavo-padrone, discepolo-maestro, figlio-padre: ogni interazione tra i due guardiani del faro è uno strumento per asserire dominanza. Il film si regge su questa tensione e si compie con il rovesciamento finale, in cui la dinamica di controllo sembra sbilanciarsi. Ma il rovesciamento non comporta una vittoria del figlio sul padre: nel tentativo di prenderne il posto e di accedere con la forza alla conoscenza che gli era preclusa, Ephraim andrà incontro alla stessa sorte a cui ha condannato Thomas, come sotto l’influsso di una maledizione ancestrale.
Come nel caso di The Witch, la dinamica che anima i rapporti di forza non è rappresentata come un fossile anacronistico o un fenomeno neutrale: The Lighthouse è pervaso dalla volontà di mostrare un certo tipo di mascolinità portato alle estreme conseguenze. La mitologia e il folklore pervadono anche The Lighthouse raggiungendo forse i suoi punti più sublimi: l’atmosfera è quella di un oscuro presagio, cadenzata dagli anatemi e dalle superstizioni del vecchio Wake (“bad luck to kill a seabird”) e dall’apparizione di sirene mostruose che si collocano nello spazio allucinatorio tra realtà fantastica e delirio.
Gli elementi soprannaturali rispetto a The Witch non sono infatti parte integrante della realtà quotidiana, ma corpo estraneo: vengono presentati all’interno delle storie di Wake e accolti con scetticismo e disprezzo da Winslow, che li interpreta come farneticazioni di un vecchio, superstizioni antiquate, incompatibili con la sua contemporaneità. Demitizzate ulteriormente assumono così un’accezione più individuale e meno collettiva rispetto alla dimensione folkloristica di The Witch e, nel diventare manifestazione della discesa di Winslow nella follia, acquisiscono il valore di un’indagine psicologica.
Rispetto a The Witch, dove assistiamo al crollo delle sovrastrutture sociali e religiose del Seicento puritano del New England per lasciare spazio a un’umanità così in contatto con le proprie radici da risultare demoniaca, in The Northman (2022), passando per il segno paterno di The Lighthouse, si torna indietro nel tempo, arrivando al punto di congiunzione tra la ritualità arcaica e la nascita delle prime strutture sociali che sarebbero diventate i capisaldi della società organizzata. Siamo tra la fine del IX e gli inizi del X secolo d.C.: il giovane principe vichingo Amleth giura vendetta contro lo zio Fjolnir, colui che ha ucciso il padre Aurvandil e sposato la madre Gudrùn usurpando il trono.
Se in The Lighthouse il padre simbolico, l’autorità, la figura che sorveglia, controlla e punisce è una presenza ossessiva, The Northman nasce nell’assenza del padre: Aurvandil muore quasi subito, vittima di un’imboscata di Fjolnir, ed è da qui che avviene la formazione di Amleth: la sua identità si consolida intorno a quest’assenza, e ne assorbe tutte le mancanze, le fragilità da occultare, la sete di sangue che nasconde una profonda e abissale consapevolezza di un mondo che è sul punto di scomparire. Ma, pur nell’assenza, il padre si fa presenza come un fantasma di carne, un’ossessione che si fa materia nella brama di sangue, nel fiume d’odio che scorre nelle vene di Amleth.
“Sarà una spada a darmi la morte. Io morirò con onore” dice Aurvandil alla moglie, prima di portare il figlio davanti a un sacerdote per renderlo il suo erede: morire in battaglia è l’unico modo per accedere al Valhalla, l’oltretomba degli eroi. Un bracciale intriso di sangue davanti a un rudimentale altare dove è raffigurata l’immagine stilizzata di Odino; rituali animalistici dove gli uomini assumono le sembianze di “lupi dell’Eccelso” o di “cani del villaggio”. Un rituale per diventare uomini degni di morire sotto i colpi del ferro, per poter avere accesso agli abbracci delle Valchirie nel Valhalla, per vivere con onore.
L’ultimo film di Eggers riprende le fila dei discorsi presenti nei primi film precedenti e li riannoda intorno al loro nucleo originario: le costruzioni della mascolinità, della femminilità e della famiglia come luogo conservatore di riti, misteri e imperativi morali, ma anche come primo luogo dove si origina il conflitto, le pulsioni distruttive e rinnovatrici. “Difendi il sangue della tua famiglia” è il monito ripetuto più volte durante il rito di passaggio affrontato da Amleth insieme al padre Aurvandil: questo imperativo guiderà il ragazzo per tutta la vita. “Se dovessi cadere sotto la spada del nemico dovrai vendicarmi o vivrai per sempre nella vergogna” sono le parole del padre; “il tuo destino è segnato e non potrai sfuggirgli” gli fa eco Heimir il Folle, colui che presiede la cerimonia.
Onore, vergogna, vendetta: questi sono i termini del patto di sangue in cui Amleth si ritrova invischiato, il prezzo da pagare per poter essere considerato un degno erede del padre. La scena del passaggio di consegne, così spirituale e così carnale al tempo stesso, termina con il corpo di Amleth sospeso per aria: sotto i suoi piedi vediamo l’antro oscuro illuminato dal fuoco, una sequenza che richiama quella di chiusura di The Witch. Ma se lì ci trovavamo di fronte al momento in cui Thomasin accetta l’offerta del diavolo e diventa la strega del titolo rifiutando l’educazione religiosa ricevuta, qui Amleth accoglie il suo destino di erede, di guerriero che dispone il suo corpo, il suo cuore e la sua mente al servizio del sangue, in perfetta continuità con la missione del padre.
The Northman è il film dove la questione della ritualità è esplicitata e tematizzata: la storia di Amleth pullula di riti, cerimonie, momenti di passaggio codificati da un insieme di gesti, movimenti, maschere e formule. Come le teste di lupo indossate dai soldati che ballano selvaggiamente agitando le lance e gli scudi intorno a un enorme falò che lotta contro la pioggia. O come la strega senza occhi interpretata da Bjork, che accusa Amleth di aver “perso il proprio destino” non perseguendo abbastanza il proposito di vendicare la morte del padre, di non sfuggire al destino che le “Norne hanno tessuto”. Una creatura senza occhi ma capace di vedere oltre, proprio come Heimir il Folle, che diventa una testa senza lingua e senza occhi, in una sorta di reincarnazione del dio Mimir, che parla attraverso il divampare di una fiamma e la mediazione di un nuovo stregone che lo invoca attraverso il suono di un tamburo. Olga e Amleth fanno l’amore nella foresta: Olga prega Madre Terra, promettendo a Amleth che la “magia della sua terra” accenderà le “fiamme della sua spada”.
Gli elementi soprannaturali convivono con la quotidianità: questa era la vita comune delle persone nel IX secolo, a costante contatto con l’inspiegabile, sempre in commercio con il regno dei morti, degli spiriti e degli dei. “Abbiamo lavorato con archeologie e storici, cercando di ricreare le minuzie del mondo fisico ma anche cercando di catturare senza alcun giudizio il mondo interiore dei Vichinghi: le loro credenze, la mitologia, e la vita rituale. Questo significa che la vita sovrannaturale doveva essere realistica tanto quanto quella quotidiana in questo film, dato che per loro era così” rivela Eggers.
Il punto di partenza è il mito: quello del principe Amleth, un personaggio probabilmente mai davvero esistito, ma il cui impatto sulla configurazione culturale dei secoli a venire è stato concreto e tangibile. Amleth compare in una versione medievale del mito conservata nel terzo e quarto libro del Gesta Danorum dello storico Saxo Grammaticus: un enorme lavoro che presenta una grande eterogeneità di fonti, dalla letteratura classica alla tradizione orale ai racconti fantastici. La versione riportata da Grammaticus sarà la fonte del ben più noto Amleto shakespeariano: il racconto del principe raggiungerà lo scrittore inglese attraverso le Histoires Tragiques di François de Belleforest.
Come si pone The Northman rispetto a queste fonti sparse lungo le diverse epoche della storia umana? Riduce la trama ai minimi termini, mantenendo solo gli aspetti umani, culturali e spirituali fondamentali: la famiglia distrutta dalla brama di potere, l’ossessione per il sangue, quello versato dei nemici e quello familiare da proteggere; la prossimità con il mondo animale, del quale si prende in prestito l’aspetto più bestiale, istintuale e feroce. Una bestialità che va incanalata in una struttura gerarchica mantenuta attraverso un sistema di simboli, maschere e rituali. Un insieme di terrori ancestrali da disciplinare e sottomettere attraverso la promessa di un paradiso per guerrieri.
Amleth deve vendicare la morte del padre: uccidere lo zio usurpatore, trarre in salvo la madre prigioniera, ristabilire il nucleo familiare originario e riportarlo sul trono. La vendetta è un sentimento univoco, semplice, privo di sfumature o di chiaroscuri, ed è un motore di storie vecchie come il mondo, come afferma A.O. Scott nel suo commento a The Northman per il New York Times: “Nei film moderni, e ancora di più negli spettacoli inglesi del XVII secolo, la vendetta sembra il movente più credibile, forse addirittura l’unico, di azioni eroiche. Basta chiedere a Batman. Verità e giustizia sono astrazioni divisive, troppo facilmente decostruite o mascherate da pacchiani toni ideologici. L’amore è problematico. La vendetta, al contrario, è limpida e inconfutabile anche se lascia un disastro dopo il suo risveglio. ‘Vendica il padre. Salva la madre. Uccidi lo zio’ si ripete il giovane Amleth mentre scappa dal luogo dove è stato ucciso il padre. Queste parole lo spingono verso l’età virile, mentre passa dall’essere il ragazzo ingenuo interpretato da Oscar Novak al predatore dallo sguardo gelido interpretato da Alexander Skarsgard”.
Ma cosa succede quando la madre non vuole essere salvata? Gudrùn diventa un personaggio emblematico in quanto manda in frantumi tutta la potenza del rituale, del passaggio di consegne da padre a figlio: un passaggio che non ha avuto nessun significato perché il regno del padre è crollato sotto i colpi del fratello usurpatore e della moglie traditrice. Nelle parole di Gudrùn il re Aurvandil diventa un ingenuo, un vigliacco, un avido e uno schiavista. Gudrùn squarcia il velo della favola che prevede un re valoroso e coraggioso difensore del sangue del suo sangue che viene colto di sorpresa e pugnalato alle spalle da un manipolo di uomini infidi e vili. Seppur presentata come una donna ambigua e astuta, pronta a manipolare gli eventi e le circostanze per trarne beneficio, le affermazioni della regina creano una crepa nella torre esistenziale di Amleth.
L’Aurvandil che viene raccontato da Gudrùn ha ben poco onore: stupra la donna ed è costretto a sposarla solo perché rimane incinta di Amleth. Una rivelazione terribile, che renderebbe la ricerca di vendetta di Amleth del tutto vana: l’unico modo per digerire quelle parole è interpretarle come bugie frutto di una mente malvagia. Gudrùn non è più la madre amorevole, la regina austera, la damigella da portare in salvo, ma una creatura mostruosa, che non è più possibile concepire all’interno del nucleo familiare reale. Gudrùn diventa un segno di ciò che proviene dall’esterno: e quello che proviene dall’esterno può essere soltanto una minaccia, un nemico portatore di morte e distruzione.
All’interno della logica che domina il mondo così arcaico e al tempo stesso così moderno di Amleth l’unico modo per rispondere alla minaccia di distruzione è la distruzione stessa: Amleth non può far altro che imbracciare la spada, uccidere la madre e proseguire sulla sua strada fatta di sangue e teste mozzate. Da “vendica il padre, salva la madre” a “vendica il padre, uccidi la madre”: uccidere la madre per salvare la reputazione del padre morto, per preservare quel simbolo identitario, per proteggere il sangue. Ma quale sangue rimane da proteggere quando è stato tutto versato?
The Northman è il trionfo di un mondo ridotto in cenere: nel finale non rimane più nulla di vivo, solo la lava pulsante del vulcano dove si consuma il duello finale tra Amleth e Fjordil. È il punto di arrivo della lenta implosione delle strutture familiari: dalla famiglia puritana di The Witch che si distrugge dall’interno, al precario equilibrio del legame con un padre vicario in The Lighthouse, fino alla famiglia reale vichinga di The Northman che perisce sotto il colpo della sua stessa spada.
Riti spezzati e famiglie esplose
nella filmografia di Robert Eggers,
di Sofia Racco
TR-95
16.03.2024
Una ragazza si unisce a un gruppo di donne nude che danzano intorno a un falò nel cuore della foresta; due uomini, uno più giovane e uno più anziano, si alzano e danzano ubriachi intorno a un tavolo dentro un faro in mezzo al nulla; un gruppo di guerrieri con teste da lupo urlano e si muovono frenetici intorno a un enorme fuoco, pronti a morire con onore. Sono i protagonisti dei tre film di Robert Eggers: Thomasin di The Witch, Ephraim Winslow e Thomas Wake di The Lighthouse e il principe Amleth di The Northman. C’è qualcosa che lega le figure che si aggirano nello spazio filmico di Eggers, fatto di storia e di mito, di oggetti resi reliquie dallo scorrere del tempo e di racconti fatti di parole e della saliva delle lingue che le hanno tramandate. Si tratta della centralità del rito nelle loro esistenze, di quei movimenti rituali che si trasformano e assumono nuove fisionomie nel momento in cui oltrepassano il confine, nel loro passaggio dall’interno all’esterno, dal centro alla periferia, dal nucleo al margine.
Thomasin (Anya Taylor Joy) e la sua famiglia siedono attorno al tavolo per cenare: al centro una candela che illumina a fatica i visi dei commensali e il loro umile pasto. Il padre guida la preghiera, spezza il pane e lo dà al resto della famiglia. Katherine, la madre di Thomasin, la accusa di aver perso un prezioso calice d’argento appartenuto al padre, fino a sbottare: “Che succede in questa casa? Non è normale”. Le crepe si sono insidiate e hanno incrinato le mura della roccaforte familiare. Il padre di famiglia cerca di rimediare, di allontanare l’oscurità che incombe su di loro attraverso l’unico strumento che possiede: i passi della Bibbia, la preghiera, i salmi e le lodi. Ma le formule rituali codificate, i canti imparati a memoria, le parole messe in fila in modo automatico per invocare una salvezza certa non servono più: la luce nella tenebra non è che il tremolio di una fiammella insignificante. Il bambino è stato portato via da un lupo, oppure da una strega; la natura sta accerchiando la piccola casa.
Nel film d’esordio di Robert Eggers, The Witch (2015), folklore e religione si mescolano per delineare il ritratto di un sostrato popolare dominato dalla superstizione e dalla paura. Il cinema di Eggers non si limita a usare il passato come chiave di lettura del presente, ma ne evidenzia la persistenza. Riesuma i relitti delle credenze e delle paure antiche che animano il subconscio della contemporaneità e mostra il canale che li connette e li unisce in un unico flusso continuo: il fantastico, il soprannaturale che invitiamo nella nostra vita attraverso il racconto, la favola, la leggenda popolare, la superstizione.
Ma il fantastico di Eggers non è un territorio vergine: è un fantastico mostruoso, destabilizzante e terrificante che altro non è che l’emanazione di paranoie millenarie. Non è un fantastico astratto, ma corporale e territoriale: è nel corpo e nella sua perdita di controllo che ricerca la sua fonte di terrore, in un corpo storicamente e geograficamente definito, così come in un territorio e in un periodo costruiti appositamente per potenziare lo sgomento nel vederli insidiati dalle crepe dell’inspiegabile, dell’ultraterreno, del viscerale, del demoniaco.
La famiglia diventa il punto di snodo di queste interazioni: è all’interno dell’istituzione su cui si fonda l’ordine sociale e morale, nella culla della repressione e della sua interiorizzazione che si formano e prosperano le dissidenze e i pericoli che la faranno esplodere dall’interno. Queste interazioni vengono raccontate attraverso la formula del rito, concetto presente tanto come oggetto del discorso quanto come costruttore della narrazione.
La famiglia di Thomasin è un’unità che si sgretola lentamente. Eggers ne mostra i tentativi di arroccarsi dietro un sistema di norme e di tradizioni davanti al male che avanza. Ma il Diavolo non è un’entità sconosciuta che viene dall’esterno: è una creatura che si forma e si nutre in seno alla piccola fattoria, tra i legami logori dei membri di una famiglia che si affanna nella difesa folle di qualcosa che non conosce né comprende fino in fondo.
I rituali di The Witch sono movimenti futili, ritmi cristallizzati, gesti esangui privi della potenza che dovrebbero trarre dalla connessione con l’umano. Dove non esiste più una comunità coesa, il rito diventa un feticcio, un gesto scaramantico, un debole tentativo di allontanare ciò che risiede dentro di noi, quel ciclo ininterrotto di desiderio e paura che si nutrono a vicenda.
Non è un caso se il rito, sia nelle sue valenze positive che in quelle negative, sia centrale nel cinema di Eggers: la questione del rito come rappresentazione pervade le strutture del cinema nella sua forma puramente narrativa, quel tipo di cinema che mantiene dentro di sé la vocazione della tragedia classica e letteraria. Cos’è il rito se non un tentativo di comunicare con qualcosa all’infuori dell’umano, in grado di salvare chi è in grado di implorarlo?
In Eggers lo spazio e il tempo rituale non sono solo il tentativo di concretizzare presenze soprannaturali evanescenti, di portare al livello dell’umano entità immense e sfuggenti: il rito diventa un tentativo di scoprire il soprannaturale che abita dentro di noi, il mistero che muove le cose più umane, la sacralità nascosta dietro la fede, il profano che si cela nelle preghiere. Ma nella sua forma più degradata, dove non sussiste né un “noi” che comunica né un “altro” con cui comunicare, diventa anche una sterile difesa contro ciò che prima abbiamo così tanto disperatamente invocato, un tentativo di arrestare ciò che non si può più fermare, di abortire ciò che abbiamo immaginato e creato con tanta dovizia di particolari.
“Siamo tutti figli del peccato, ma posso dirvi con certezza che non ho allevato streghe in questa casa. Ora preghiamo, così non avremo nulla da temere” esclama il padre prima di tentare di salvare suo figlio dai demoni che lo hanno posseduto. Lo dice con un tono imperioso, ma il suo tentativo di ristabilire il controllo con ostentata sicurezza tradisce un’esitazione difficile da tenere a bada, un’incertezza incompatibile con la fede ostinata. Ritorna la preghiera come rituale che tenta di arginare qualcosa di incomprensibile e di incontrollabile. Ma a tornare è anche la negazione di fronte all’eventualità che la minaccia non derivi dall’esterno, ma nasca in seno alla famiglia: il padre di Thomasin si rifiuta di credere che la figlia possa essere un’adepta di Satana.
Thomasin diventa una creatura liminale, la cui posizione è ambigua e incerta: frutto al contempo dell’educazione ricevuta e del suo rifiuto totale, plasmata dalla struttura in cui è nata e da cui viene espulsa. La sua presenza è tollerata dalla madre, difesa debolmente dal padre, entrambi disposti a disfarsene alla prima occasione utile per avere qualche guadagno e mantenere la famiglia. La giovane è il punto di rottura, la frattura che introduce il flusso di dissidenza: nella sua figura le formule rituali assumono un’altra fisionomia e funzione. Nella scena finale Thomasin, guidata dal caprone Black Philip, si unisce a un gruppo di donne che si muovono in maniera convulsa davanti a un falò, in movimenti che potrebbero a malapena essere riconosciuti come parte di una danza: i corpi nudi di Thomasin e delle altre streghe cominciano a fluttuare nell'aria, con il suono della foresta di sottofondo.
In The Lighthouse (2019) la forza controllante e repressiva è incarnata dall’archetipo del padre, che non si manifesta attraverso una vera e propria figura paterna ma si trasfigura nel rapporto di potere tra il giovane Ephraim Winslow (Robert Pattinson) e Thomas Wake (Willem Dafoe). Rapporto schiavo-padrone, discepolo-maestro, figlio-padre: ogni interazione tra i due guardiani del faro è uno strumento per asserire dominanza. Il film si regge su questa tensione e si compie con il rovesciamento finale, in cui la dinamica di controllo sembra sbilanciarsi. Ma il rovesciamento non comporta una vittoria del figlio sul padre: nel tentativo di prenderne il posto e di accedere con la forza alla conoscenza che gli era preclusa, Ephraim andrà incontro alla stessa sorte a cui ha condannato Thomas, come sotto l’influsso di una maledizione ancestrale.
Come nel caso di The Witch, la dinamica che anima i rapporti di forza non è rappresentata come un fossile anacronistico o un fenomeno neutrale: The Lighthouse è pervaso dalla volontà di mostrare un certo tipo di mascolinità portato alle estreme conseguenze. La mitologia e il folklore pervadono anche The Lighthouse raggiungendo forse i suoi punti più sublimi: l’atmosfera è quella di un oscuro presagio, cadenzata dagli anatemi e dalle superstizioni del vecchio Wake (“bad luck to kill a seabird”) e dall’apparizione di sirene mostruose che si collocano nello spazio allucinatorio tra realtà fantastica e delirio.
Gli elementi soprannaturali rispetto a The Witch non sono infatti parte integrante della realtà quotidiana, ma corpo estraneo: vengono presentati all’interno delle storie di Wake e accolti con scetticismo e disprezzo da Winslow, che li interpreta come farneticazioni di un vecchio, superstizioni antiquate, incompatibili con la sua contemporaneità. Demitizzate ulteriormente assumono così un’accezione più individuale e meno collettiva rispetto alla dimensione folkloristica di The Witch e, nel diventare manifestazione della discesa di Winslow nella follia, acquisiscono il valore di un’indagine psicologica.
Rispetto a The Witch, dove assistiamo al crollo delle sovrastrutture sociali e religiose del Seicento puritano del New England per lasciare spazio a un’umanità così in contatto con le proprie radici da risultare demoniaca, in The Northman (2022), passando per il segno paterno di The Lighthouse, si torna indietro nel tempo, arrivando al punto di congiunzione tra la ritualità arcaica e la nascita delle prime strutture sociali che sarebbero diventate i capisaldi della società organizzata. Siamo tra la fine del IX e gli inizi del X secolo d.C.: il giovane principe vichingo Amleth giura vendetta contro lo zio Fjolnir, colui che ha ucciso il padre Aurvandil e sposato la madre Gudrùn usurpando il trono.
Se in The Lighthouse il padre simbolico, l’autorità, la figura che sorveglia, controlla e punisce è una presenza ossessiva, The Northman nasce nell’assenza del padre: Aurvandil muore quasi subito, vittima di un’imboscata di Fjolnir, ed è da qui che avviene la formazione di Amleth: la sua identità si consolida intorno a quest’assenza, e ne assorbe tutte le mancanze, le fragilità da occultare, la sete di sangue che nasconde una profonda e abissale consapevolezza di un mondo che è sul punto di scomparire. Ma, pur nell’assenza, il padre si fa presenza come un fantasma di carne, un’ossessione che si fa materia nella brama di sangue, nel fiume d’odio che scorre nelle vene di Amleth.
“Sarà una spada a darmi la morte. Io morirò con onore” dice Aurvandil alla moglie, prima di portare il figlio davanti a un sacerdote per renderlo il suo erede: morire in battaglia è l’unico modo per accedere al Valhalla, l’oltretomba degli eroi. Un bracciale intriso di sangue davanti a un rudimentale altare dove è raffigurata l’immagine stilizzata di Odino; rituali animalistici dove gli uomini assumono le sembianze di “lupi dell’Eccelso” o di “cani del villaggio”. Un rituale per diventare uomini degni di morire sotto i colpi del ferro, per poter avere accesso agli abbracci delle Valchirie nel Valhalla, per vivere con onore.
L’ultimo film di Eggers riprende le fila dei discorsi presenti nei primi film precedenti e li riannoda intorno al loro nucleo originario: le costruzioni della mascolinità, della femminilità e della famiglia come luogo conservatore di riti, misteri e imperativi morali, ma anche come primo luogo dove si origina il conflitto, le pulsioni distruttive e rinnovatrici. “Difendi il sangue della tua famiglia” è il monito ripetuto più volte durante il rito di passaggio affrontato da Amleth insieme al padre Aurvandil: questo imperativo guiderà il ragazzo per tutta la vita. “Se dovessi cadere sotto la spada del nemico dovrai vendicarmi o vivrai per sempre nella vergogna” sono le parole del padre; “il tuo destino è segnato e non potrai sfuggirgli” gli fa eco Heimir il Folle, colui che presiede la cerimonia.
Onore, vergogna, vendetta: questi sono i termini del patto di sangue in cui Amleth si ritrova invischiato, il prezzo da pagare per poter essere considerato un degno erede del padre. La scena del passaggio di consegne, così spirituale e così carnale al tempo stesso, termina con il corpo di Amleth sospeso per aria: sotto i suoi piedi vediamo l’antro oscuro illuminato dal fuoco, una sequenza che richiama quella di chiusura di The Witch. Ma se lì ci trovavamo di fronte al momento in cui Thomasin accetta l’offerta del diavolo e diventa la strega del titolo rifiutando l’educazione religiosa ricevuta, qui Amleth accoglie il suo destino di erede, di guerriero che dispone il suo corpo, il suo cuore e la sua mente al servizio del sangue, in perfetta continuità con la missione del padre.
The Northman è il film dove la questione della ritualità è esplicitata e tematizzata: la storia di Amleth pullula di riti, cerimonie, momenti di passaggio codificati da un insieme di gesti, movimenti, maschere e formule. Come le teste di lupo indossate dai soldati che ballano selvaggiamente agitando le lance e gli scudi intorno a un enorme falò che lotta contro la pioggia. O come la strega senza occhi interpretata da Bjork, che accusa Amleth di aver “perso il proprio destino” non perseguendo abbastanza il proposito di vendicare la morte del padre, di non sfuggire al destino che le “Norne hanno tessuto”. Una creatura senza occhi ma capace di vedere oltre, proprio come Heimir il Folle, che diventa una testa senza lingua e senza occhi, in una sorta di reincarnazione del dio Mimir, che parla attraverso il divampare di una fiamma e la mediazione di un nuovo stregone che lo invoca attraverso il suono di un tamburo. Olga e Amleth fanno l’amore nella foresta: Olga prega Madre Terra, promettendo a Amleth che la “magia della sua terra” accenderà le “fiamme della sua spada”.
Gli elementi soprannaturali convivono con la quotidianità: questa era la vita comune delle persone nel IX secolo, a costante contatto con l’inspiegabile, sempre in commercio con il regno dei morti, degli spiriti e degli dei. “Abbiamo lavorato con archeologie e storici, cercando di ricreare le minuzie del mondo fisico ma anche cercando di catturare senza alcun giudizio il mondo interiore dei Vichinghi: le loro credenze, la mitologia, e la vita rituale. Questo significa che la vita sovrannaturale doveva essere realistica tanto quanto quella quotidiana in questo film, dato che per loro era così” rivela Eggers.
Il punto di partenza è il mito: quello del principe Amleth, un personaggio probabilmente mai davvero esistito, ma il cui impatto sulla configurazione culturale dei secoli a venire è stato concreto e tangibile. Amleth compare in una versione medievale del mito conservata nel terzo e quarto libro del Gesta Danorum dello storico Saxo Grammaticus: un enorme lavoro che presenta una grande eterogeneità di fonti, dalla letteratura classica alla tradizione orale ai racconti fantastici. La versione riportata da Grammaticus sarà la fonte del ben più noto Amleto shakespeariano: il racconto del principe raggiungerà lo scrittore inglese attraverso le Histoires Tragiques di François de Belleforest.
Come si pone The Northman rispetto a queste fonti sparse lungo le diverse epoche della storia umana? Riduce la trama ai minimi termini, mantenendo solo gli aspetti umani, culturali e spirituali fondamentali: la famiglia distrutta dalla brama di potere, l’ossessione per il sangue, quello versato dei nemici e quello familiare da proteggere; la prossimità con il mondo animale, del quale si prende in prestito l’aspetto più bestiale, istintuale e feroce. Una bestialità che va incanalata in una struttura gerarchica mantenuta attraverso un sistema di simboli, maschere e rituali. Un insieme di terrori ancestrali da disciplinare e sottomettere attraverso la promessa di un paradiso per guerrieri.
Amleth deve vendicare la morte del padre: uccidere lo zio usurpatore, trarre in salvo la madre prigioniera, ristabilire il nucleo familiare originario e riportarlo sul trono. La vendetta è un sentimento univoco, semplice, privo di sfumature o di chiaroscuri, ed è un motore di storie vecchie come il mondo, come afferma A.O. Scott nel suo commento a The Northman per il New York Times: “Nei film moderni, e ancora di più negli spettacoli inglesi del XVII secolo, la vendetta sembra il movente più credibile, forse addirittura l’unico, di azioni eroiche. Basta chiedere a Batman. Verità e giustizia sono astrazioni divisive, troppo facilmente decostruite o mascherate da pacchiani toni ideologici. L’amore è problematico. La vendetta, al contrario, è limpida e inconfutabile anche se lascia un disastro dopo il suo risveglio. ‘Vendica il padre. Salva la madre. Uccidi lo zio’ si ripete il giovane Amleth mentre scappa dal luogo dove è stato ucciso il padre. Queste parole lo spingono verso l’età virile, mentre passa dall’essere il ragazzo ingenuo interpretato da Oscar Novak al predatore dallo sguardo gelido interpretato da Alexander Skarsgard”.
Ma cosa succede quando la madre non vuole essere salvata? Gudrùn diventa un personaggio emblematico in quanto manda in frantumi tutta la potenza del rituale, del passaggio di consegne da padre a figlio: un passaggio che non ha avuto nessun significato perché il regno del padre è crollato sotto i colpi del fratello usurpatore e della moglie traditrice. Nelle parole di Gudrùn il re Aurvandil diventa un ingenuo, un vigliacco, un avido e uno schiavista. Gudrùn squarcia il velo della favola che prevede un re valoroso e coraggioso difensore del sangue del suo sangue che viene colto di sorpresa e pugnalato alle spalle da un manipolo di uomini infidi e vili. Seppur presentata come una donna ambigua e astuta, pronta a manipolare gli eventi e le circostanze per trarne beneficio, le affermazioni della regina creano una crepa nella torre esistenziale di Amleth.
L’Aurvandil che viene raccontato da Gudrùn ha ben poco onore: stupra la donna ed è costretto a sposarla solo perché rimane incinta di Amleth. Una rivelazione terribile, che renderebbe la ricerca di vendetta di Amleth del tutto vana: l’unico modo per digerire quelle parole è interpretarle come bugie frutto di una mente malvagia. Gudrùn non è più la madre amorevole, la regina austera, la damigella da portare in salvo, ma una creatura mostruosa, che non è più possibile concepire all’interno del nucleo familiare reale. Gudrùn diventa un segno di ciò che proviene dall’esterno: e quello che proviene dall’esterno può essere soltanto una minaccia, un nemico portatore di morte e distruzione.
All’interno della logica che domina il mondo così arcaico e al tempo stesso così moderno di Amleth l’unico modo per rispondere alla minaccia di distruzione è la distruzione stessa: Amleth non può far altro che imbracciare la spada, uccidere la madre e proseguire sulla sua strada fatta di sangue e teste mozzate. Da “vendica il padre, salva la madre” a “vendica il padre, uccidi la madre”: uccidere la madre per salvare la reputazione del padre morto, per preservare quel simbolo identitario, per proteggere il sangue. Ma quale sangue rimane da proteggere quando è stato tutto versato?
The Northman è il trionfo di un mondo ridotto in cenere: nel finale non rimane più nulla di vivo, solo la lava pulsante del vulcano dove si consuma il duello finale tra Amleth e Fjordil. È il punto di arrivo della lenta implosione delle strutture familiari: dalla famiglia puritana di The Witch che si distrugge dall’interno, al precario equilibrio del legame con un padre vicario in The Lighthouse, fino alla famiglia reale vichinga di The Northman che perisce sotto il colpo della sua stessa spada.