Kathryn Bigelow
e la guerra al terrore,
di Paolo Rissicini
TR-109
29.09.2024
All’alba dell'11 settembre, la guerra promossa dall’amministrazione di George Bush - con le invasioni militari in Afghanistan, nel 2001, e in Iraq nel 2003 - è stata sin dagli albori un conflitto spiccatamente mediatico per l’attenzione giornalistico-televisiva e la produzione cinematografica. È ad esempio noto il cosiddetto «Beverly Hills Summit», in cui funzionari del governo americano e delegati degli studios di Hollywood avrebbero discusso la possibilità di ideare una linea ufficiale di propaganda con cui l’industria hollywoodiana avrebbe supportato la guerra al terrore. Nonostante non si possa considerare il rapporto tra il cinema e la guerra in Medio Oriente alla stregua di una sistematizzazione diffusa della propaganda bellica all’interno dello spazio dell’immaginario filmico, la copertura della guerra al terrore è stata ampia su tutte le piattaforme mediatiche.
Nel cinema, questa copertura non è stata messa in pratica unicamente a livello etico-politico (né solo propagandistico e neanche critico), ma in modalità sfumate o eterogenee. Così come sfumati sono i film della regista che, più di tutti dalle parti di Hollywood, ha riportato all’immagine la complessità di una stagione politica e militare senza precedenti: Kathryn Bigelow.
I. L’11 settembre e una nuova frontiera
È il 7 marzo 2010 quando, per la prima volta, il premio Oscar alla miglior regia viene assegnato ad una donna. «From among the five gifted nominees tonight, the winner could be, for the first time, a woman», dichiara Barbra Streisand presentando la categoria. Dopo aver controllato la busta ed essersi concessa una piccola pausa, annuncia Kathryn Bigelow come vincitrice. La regista sale sul palco del Kodak Theatre di Los Angeles e nel suo discorso di accettazione non tocca nemmeno per un istante il tema del genere. Nonostante ciò, mentre lascia il palco risuona I Am a Woman di Helen Reddy, un inno del movimento femminista anni Settanta
Pur essendo una delle registe più importanti della cinematografia statunitense, Kathryn Bigelow ha sin da sempre evitato il ruolo e l’etichetta della regista femminista, sia in relazione ai suoi film che alla sua posizione all’interno dell’industria. La ripetuta insistenza sulla sua apparente neutralità di genere è stata strettamente intrecciata con discorsi critici che hanno caratterizzato il suo cinema come muscolare, per la sua inclinazione a lavorare all’interno di presunti generi "maschili". Come riporta Katarzyna Paszkiewicz nel saggio Hollywood Transvestite: Kathryn Bigelow’s The Hurt Locker, lo status di Kathryn Bigelow è stato frutto di una forte negoziazione da parte di critici e accademici durante la sua, ormai quarantennale, carriera. E se per molto tempo la sua propensione per presunti generi cinematografici maschili, principalmente d’azione, è stata vista come un modo per scardinarli da dentro e destabilizzarne gli stereotipi - posizionando in questo modo la regista californiana come una Hollywood Transgressor - dopo il successo avuto agli Oscar con The Hurt Locker (2008) questa sua inclinazione è stata vista sempre più in maniera negativa.
La complessità dell’opera di Bigelow è sempre risieduta, in termini di creazione artistica, di produzione, di industria e infine di ricezione del pubblico, in un rifiuto della divisione netta tra cinema mainstream e cinema autoriale. Nondimeno, molto probabilmente a causa della impopolarità politico-morale della guerra in Iraq nell’area progressista dell’opinione pubblica americana, il trionfo di un film come The Hurt Locker è stato letto, da critici e studiosi, come un pretesto per la Bigelow di allinearsi (o di ri-allinearsi) all’imperialismo americano, annoverando l’opera come la prova manifesta del suo conformismo politico alle azioni militari statunitensi in Medio Oriente. Un buon numero di commentatori progressisti hanno infatti lamentato come The Hurt Locker eviti deliberatamente il contesto politico più ampio, quello della guerra in Iraq nel suo complesso, concentrandosi invece sulla celebrazione dell’individualismo eroico classico della tradizione narrativa hollywoodiana.
D’altronde è vero che, sotto molti aspetti, The Hurt Locker può essere considerato un film di guerra convenzionale; è indubbio che accolga in sé temi stereotipati e associati al genere: la rappresentazione esplicita di corpi feriti o deceduti, la costruzione di un legame tra commilitoni attraverso la violenza, il tema della paternità e la descrizione del nemico come altro da sé dal punto di vista religioso e culturale. Ma soprattutto, ciò che Bigelow mette in scena attraverso il suo protagonista solitario e fuori dagli schemi, è conforme a regole visuali e narrative tipiche dei film hollywoodiani d’azione: un eroe solitario salva una comunità (in questo caso soldati americani e iracheni innocenti) sconfiggendo i suoi nemici (gli iracheni ribelli). Il sergente James (Jeremy Renner) assume infatti il comando dell’unità di artificieri in Iraq, la Compagnia Bravo, per sostituire il predecessore morto durante un’operazione di bonifica. Il suo arrivo non è però ben accolto dai subordinati per via di un metodo solitario e al di fuori dalle regole: rifiuta l’utilizzo del robot a controllo remoto per disinnescare le mine anti-uomo, preferendo farlo manualmente; si sveste della tuta di protezione che dovrebbe indossare; taglia le comunicazioni con il team durante le operazioni. In sostanza si isola dal resto del gruppo, assumendo le vesti di un militare spavaldo e individualistico, che non ha paura di mettere a rischio la sua vita e quella dei suoi compagni pur di portare a conclusione la missione: la sua sembra essere una figura ricalcata pedissequamente su quella di un eroe western.
L’allusione al genere western in The Hurt Locker gioca un ruolo vitale nell’economia del film, e non solo tramite la figura del sergente James. In primo luogo, Bigelow opera una vera e propria trasformazione visiva del territorio iracheno in un Far West di frontiera: nell’ultima inquadratura, James si allontana verso l’orizzonte, camminando su di una strada deserta come farebbe un cowboy mentre lascia la cittadina sul dorso del suo destriero – in un calco del finale di Shane (Il Cavaliere della valle solitaria, 1953) di George Stevens. Tutto il film utilizza il paesaggio e le città irachene alla stregua di un western hollywoodiano classico, ovvero come qualcosa da dominare; Baghdad sembra essere una terra caotica, estremamente pericolosa, il luogo di una wilderness contemporanea (ovvero, aggiornata alla «guerra al terrore») che può essere solamente conquistata, controllata con la forza. Bigelow dissemina inoltre The Hurt Locker di opposizioni binarie e manichee, una vera e propria dialettica tematica che vige nel genere così come si è strutturato internamente: civilizzazione e wilderness, natura e cultura, deboli contro forti, buoni contro cattivi.
La forte caratterizzazione western del cinema di guerra post 11 settembre sembra poter tenere il passo, da un punto di vista simbolico, con un elemento che ha sottolineato Klaus Dodds, professore di Geopolitica all’Università di Londra, in una macroanalisi intitolata Hollywood and the Popular Geopolitics of the War on Terror: ovvero la perdita della virilità maschile statunitense causata dall’impotenza di fronte agli attacchi dell’11 settembre. Dodds ha infatti evidenziato come molte delle rappresentazioni culturali incentrate sulla mascolinità americana siano state di primo piano all’alba dell’attentato alle Torri Gemelle: forse perché durante quegli attacchi terroristici è stata negata, agli uomini statunitensi, l’opportunità di dimostrare il proprio coraggio di fronte al pericolo. Il conflitto insito in quell’episodio è stato asimmetrico e, sostiene Dodds, ciò ha negato la possibilità di una risposta "ad armi pari", di per sé una predisposizione della cultura statunitense tout court: «to conceive [...] conflicts as tests of strength between two combatants playing by the same rules, as in the stereotypical western gunfight». Ciò che era mancato, durante l’11 settembre, era stata una sparatoria western, o un suo sostituto simbolico. Ed ecco che anche The Hurt Locker tiene i piedi ben saldi nel West (nel genere, nei suoi simboli): per ritrovare, forse, una dignità perduta e un Eroe che sembrava essere stato per sempre annichilito da quel «cielo che crollava, striato di sangue», parafrasando lo Springsteen di Into the fire.
II. We’ve got a lot of eyes on us
Ma più ci si avvicina a The Hurt Locker, più si scorge una complessità che ha del vertiginoso. Sin dalla prima sequenza, Bigelow mette in scena un sottile ma perpetuo gioco visivo, incentrato sul ruolo dello sguardo della macchina da presa, costruendo prospettive multiple che durante tutto lo svolgimento del film operano un denudamento critico del ruolo dei militari protagonisti (e, con un salto metaforico, degli Stati Uniti stessi) nella guerra al terrore. The Hurt Locker si apre infatti in medias res, senza alcun preambolo narrativo e portando lo spettatore direttamente in Iraq, in un ambiente urbano in cui le strade hanno assunto lo status di campi minati e i negozi sono stati trasformati in rifugi per cecchini.
L’organizzazione spaziale è così, e sin da subito, disorientante ed esplicitamente non unitaria, in contrasto con quella che dovrebbe essere l’efficienza (militaresca) dei protagonisti. La prima sequenza potrebbe suggerire come l’interesse principale di Bigelow sia in realtà una riflessione sullo sguardo occidentale (in questo senso è significativo il ruolo del monitor da cui viene pilotato il robot); più precisamente, una riflessione sulla ricerca di un controllo tecnologico-militare nell’ambito della guerra al terrore: un controllo che però, così come la grammatica del cinema ci suggerisce, è sottoposto a una esposizione continua e a una fragilità che sembra essere teorizzata (da Kathryn Bigelow stessa) come intrinseca alla guerra in sé e per sé. Il racconto dell’eroismo individualizzato tipicamente statunitense (un racconto che, bisogna ricordarlo, c’è ed è ben presente come primo fuoco dell’identificazione tra lo spettatore e i personaggi), è da qui in avanti messo alla prova dallo sguardo della macchina da presa, che grazie a una grande eterogeneità - primissimi piani, campi medi o lunghi da più angolazioni, zoomate repentine, nervosità dei movimenti di macchina e montaggio frenetico - seziona il corpo di James come farebbe un chirurgo. Ribaltando la centralità cinematografica dell’Eroe occidentale, il protagonista si configura non come soggetto ma come oggetto dello sguardo della macchina da presa.
La strategia estetica di Bigelow, fondata su di una ricchezza espressiva smodata della regia (una strategia che Katarzyna Paszkiewicz chiama «ipertrofia del visuale»), nega un orientamento spaziale tanto allo spettatore quanto al Sergente James, privando l’eroe di un qualsivoglia controllo sullo spazio circostante, così come su ciò che gli accade intorno: la regista moltiplica la visione, ma al contempo si rifiuta di offrire una pienezza visiva di ciò che si può vedere in scena, e allo stesso modo di ciò che il personaggio vede. La Compagnia Bravo raramente sembra comprendere fino in fondo ciò che succede, e questo - compiendo un facile salto metaforico - mette in discussione la missione statunitense in Iraq nel suo complesso. La profonda sensazione di incertezza e perfino di fallimento di tutto il progetto americano è, ad esempio, sintetizzata in immagini dalla sequenza in cui James, dopo aver disinnescato un ordigno, scopre un’altra serie di cavi a cui sono collegate molte più mine nascoste intorno a lui. E anche in questa scena il protagonista viene inquadrato da lontano, come oggetto dello sguardo vigile che per i personaggi, così come per gli spettatori, è privo di un’appartenenza distinguibile. La fonte (invisibile) non può che essere quella di un nemico non chiaramente identificabile: fonte, perciò, capace di dislocare percettivamente ed eticamente il soggetto (i personaggi e gli spettatori, occidentali e imperialisti) che ne risulta schiavo, in quanto oggetto di una visione esterna.
III. The American Woman Warrior
La lunga missione della CIA che ha portato all’uccisione del leader di Al Qaida Osama bin Laden è il secondo capitolo di questa ricognizione storica, politica, etica (ed estetica prima di tutto) sulla guerra al terrore, operata da Bigelow a cavallo degli anni dieci del nuovo millennio. L’uscita nei cinema americani di Zero Dark Thirty, nel 2012, ha riacceso un dibattito nato ormai un decennio prima intorno alla condizione dei detainees nel carcere di Guantanamo: quello sul controverso e duraturo utilizzo dello strumento della tortura da parte degli Stati Uniti. Un dibattito poi divampato quando furono rivelate al mondo alcune fotografie scattate dentro il carcere di Abu Ghraib, in Iraq, che testimoniavano l’uso massiccio della tortura da parte dell’esercito statunitense. Guantanamo e Abu Ghraib: aree franche, esponenti di una cultura normalizzata dell’abuso e della deumanizzazione favorita convintamente dalla prima amministrazione Bush e messa in campo in ambito normativo da una risoluzione come l’Authorization for Use of Military Force e dallo USA PATRIOT Act, l’insieme di leggi speciali emanate il 26 ottobre 2001 che diedero ampio mandato alle forze dell’ordine di mettere in atto tecniche di interrogatorio cosiddette "potenziate" (la dicitura ufficiale recitava «enhanced interrogation techniques»), prime fra tutte la nota pratica del waterboarding.
Zero Dark Thirty, immergendosi in queste pratiche, ha suscitato uno scontro intellettuale accesissimo. Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal hanno affermato che la rappresentazione della tortura nel film, - la cui sceneggiatura è il frutto di un lavoro di fusione tra l’autobiografia di un membro dei Navy SEALS e i documenti riservati a cui hanno avuto accesso - fosse un aspetto importante di esso, in quanto parte della storia della cattura di Bin Laden, e che la sua rappresentazione non fosse per forza un endorsement. Ma i dubbi su queste affermazioni di Bigelow e Boal si sono susseguite tra critici e analisti; la posizione di Agnieszka Soltysik Monnet, professoressa di Letteratura e cultura americana all’Università di Losanna, è ad esempio molto netta, e arriva a smentire la regista e lo sceneggiatore sostenendo con forza come la tortura in Zero Dark Thirty sia rappresentata come necessaria ed efficace per proteggere gli Stati Uniti dal terrorismo e per arrivare alla cattura di bin Laden.
D’altronde, la prima sequenza figurativa del film è un interrogatorio ai danni di un prigioniero in un black site, una base segreta statunitense in Medio Oriente. Ed è preceduta da una apertura a schermo nero con le registrazioni sonore delle vittime dell’11 settembre, che chiamano le persone più care o i numeri d’emergenza. È chiaro come qui venga creata una relazione causale tra le due sequenze, e che qualsiasi tipo di abuso ai danni del prigioniero Ammar (a cui viene in tal modo data, esplicitamente e pretestuosamente, la responsabilità diretta dell’agonia delle persone coinvolte negli attentati), sia giustificato nel lungometraggioattraverso la creazione di uno spazio-tempo eccezionale: quello della guerra al terrorismo, in cui i valori etici sono sospesi pur di soddisfare il sentimento di vendetta di una nazione. La colpevolezza di Ammar non è messa in dubbio in alcun modo durante il proseguimento della storia, anzi è avvalorata dal comportamento di Maya, l’agente dei servizi segreti interpretata da Jessica Chastain.
Imperturbabile alle violenze, Maya accetta, impara e poi mette in atto le tecniche di interrogatorio, dimostrando ai colleghi e agli spettatori autonomia e forza. La lettura femminista transnazionale di Agnieszka Soltysik Monnet ha suggerito nel film della Bigelow la nascita di un nuovo tipo di «American warrior»: nel suo saggio, The American Woman Warrior: A Transnational Feminist Look at War, Imperialism, and Gender, Soltysik Monnet asserisce infatti come Maya incarni una inedita (perché donna) guerriera americana nell’era della guerra digitalizzata al terrorismo, le cui azioni di fatto non conducono ad altro che alla promozione dell’egemonia statunitense e al suopotere militare nel mondo. La caratterizzazione di Maya sembra essere (anche qui) quella di un cowboy solitario che persegue il giusto anche e soprattutto con la forza – in questo caso, attraverso l’esercitazione di una violenza "necessaria" sui "cattivi", ovvero i colpevoli dell’11 settembre. In questo aggiornamento al femminile della figura dell’Eroe americano non c’è però traccia di femminismo: oltre a esprimersi verbalmente attraverso codici di linguaggio maschili («The motherfucker who found the place», così si auto-appellerà la protagonista nel momento apicale del processo decisionale che porterà alla cosiddetta Operazione Lancia di Nettuno), Maya corrisponde a un soggetto femminile che Angela McRobbie chiamerebbe «top girl», la giovane donna a cui nel mondo neoliberale sono aperte le porte del successo in cambio di una trascuratezza della solidarietà femminile e dell’uguaglianza di genere. D’altronde il personaggio di Maya, ed è questo forse l’aspetto più interessante dell’analisi di Soltysik Monnet, opera attraverso una logica di vita parareligiosa: il suo unico scopo è quello della guerra al terrorismo e la sua esistenza appare una crociata in cui mantiene un alone di purità, anche sessuale: in contrasto con quelle fotografie del carcere di Abu Ghraib, in cui le immagini sadico-sessuali erano state le componenti più sconvolgenti per l’opinione pubblica, proprio per la presenza, in esse, di militari donne.
IV. There’s no shame if you want to watch from the monitor
Ma la tortura, in Zero Dartk Thirty, si presta ad altre letture, nelle quali, ancora una volta, la sintassi cinematografica stimola il discorso etico. La prima, programmatica sequenza, costruita per dare al pubblico la sensazione di poter illuminare qualcosa che di solito non può vedere (e infatti un fascio di luce ci accoglie nella stanza oscura del black site), è girata con una camera a mano, così da enfatizzare la partecipazione e l’esperienza dello spettatore. Il punto di vista dell’agente della CIA Dan, il supervisore di Maya, è in semi soggettiva, come se lo sguardo dello spettatore ricadesse sul detenuto Ammar da sopra le spalle dell’agente stesso; basata solo inizialmente su questa prospettiva, la sequenza mostra lo status ineguale tra i personaggi: mentre Maya ha il viso ancora coperto dal passamontagna, Dan viene presentato da Bigelow come in una posizione di potere più alta di Ammar, come se svettasse fisicamente sul prigioniero, essendo ripreso dal basso in un contre-plongée. Ma con il passare dei minuti, Maya si trasforma da testimone senza volto ad agente che coadiuva le operazioni, pur restando in disparte, in uno spazio di giudizio e di scelta che equivale all’assenza di compartecipazione alla brutalità di Dan ma anche ad una non-contestazione dei suoi metodi: bensì, al loro sfruttamento. Il senso di coinvolgimento a questo punto dipende totalmente da Maya, con la macchina da presa che indugia sul suo sguardo e sulle sue reazioni facciali, diventando così un surrogato dello spettatore.
Gabi Schlag, nello scritto Representing torture in Zero Dark Thirty (2012): Popular culture as a site of norm contestation, sottolinea opportunamente l’ambiguità del rapporto che il film innesca tra lo spettatore, Maya e la visualizzazione della tortura: Maya, che coincide con lo sguardo che allinea lo spettatore alla storia, non mette mai in discussione la necessità della tortura, anche se - almeno inizialmente - non ne condivide i metodi, e sicuramente non partecipa al senso di vendetta e di abuso fisico che risiede nella violenza che i suoi superiori esercitano. Si erge dunque a occhio superiore, quello dello spettatore, sebbene, da quel piedistallo, non contesti l’utilizzo delle tecniche di interrogatorio cosiddette «potenziate». L’assenza di (auto)riflessione sulla condotta dei personaggi, insieme all’assenza di implicazioni per le loro azioni e per le violazioni delle norme anti-tortura, è effettivamente un leitmotiv presente per tutto il film. Ciò è una prova del fatto che la rappresentazione della tortura in Zero Dark Thirty sembra essere una riflessione su ciò che essa significa per lo spettatore, in particolare lo spettatore statunitense: è la sua violenza, quella del pubblico, il suo desiderio di vendetta, che non sono legalmente sanzionate ma sono, tuttavia, moralmente giustificate. E ciò viene espresso, nel film, da un gioco propriamente cinematografico, incentrato sulla visione della tortura: da parte dei personaggi, da parte dello spettatore e da parte della macchina da presa.
Subito dopo questo primo interrogatorio e poco prima di continuare la seduta di tortura, a Maya viene chiesto se vuole guardare dal monitor ciò che avviene dentro la stanza: Dan le ricorda che non deve provare vergogna se preferisce non essere presente. La frase «There’s no shame if you want to watch from the monitor» assume significati molto rilevanti in questa sede. Non solo implica una sfida nei confronti della protagonista, ma ne imbastisce una seconda, speculare, per lo spettatore: la scelta tra guardare dal vivo o attraverso una tecnologia che media la realtà; tra l’essere attivo oppure passivo nella complicità. Ma può essere interpretata anche come un promemoria per lo spettatore stesso, una notazione che ci ricorda come la guerra al terrore sia presente sui nostri schermi, sui monitor che ci circondano, tutti i giorni. «There’s no shame if you want to watch from the monitor» è l’attestazione verbale di una realtà inquietante, quella della sfera pubblica americana dove la guerra al terrorismo (della cui esposizione mediatica, a riguardo della prima guerra del Golfo, già Jean Baudrillard denunciava la pervasività) è osservata quotidianamente e, per l’appunto, senza alcuna vergogna.
V. Un asse perduto?
Maya siede su di un aereo da trasporto militare, da sola; il pilota le chiede dove vuole recarsi ma lei non riesce a rispondere: una lacrima le scende sul viso, sebbene la sua espressione non tradisca alcuna emozione. Così si chiude Zero Dark Thirty. L’Operazione Lancia di Nettuno, interpretazione filmica dell’assedio realmente avvenuto alla dimora di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, occupa una grande fetta dell’ultima parte dell’opera. È l’apice dell’azione militare, del proceduralismo sui cui si sostiene il lavoro della CIA (e che guida Maya nella sua caccia ossessiva) e del data gathering - che, compiuto in quest’ultima sequenza non tramite la tortura ma in un raid, rispecchia ogni azione e scelta dei personaggi. Azioni e scelte che non fanno che dipendere dalla ricerca senza fine di dati, con l’effetto di ridurre la guerra e la politica a meri calcoli probabilistici.
Forse proprio per questo (ma in contrasto con ciò che si potrebbe immaginare da un film statunitense che insegue il più importante terrorista internazionale, reo di aver orchestrato uno degli attacchi più feroci all’America), non c’è alcun sentimento di catarsi, di redenzione, nell’aver trovato e ucciso il capo di Al Qaida. Ciò detto, rimangono delle lacrime misteriose quelle che scendono sulla guancia di Maya. Anche qui, l’orizzonte narrativo ed etico è ambiguo. Rimane un forte senso di insicurezza su ciò che pensa e prova la protagonista, su ciò che dovrebbe pensare e provare lo spettatore. Si potrebbe credere che questo finale sia un finale critico nei confronti della politica estera e di spionaggio degli Stati Uniti; che ci voglia mostrare come l’America, simboleggiata da Maya, abbia perso per strada i suoi valori fondanti nella caccia al terrore, e per questo ora si trovi in uno spazio vuoto, che non conosce più: come se il personaggio e ciò che rappresenta si trovassero dislocati dal proprio asse valoriale.
Eppure, c’è un altro spazio che il film percorre chiaramente, ed è quello della deresponsabilizzazione, della negazione e dell’occultamento della guerra al terrore, e contemporaneamente della naturalizzazione della guerra permanente, vista come la nuova normalità nelle strategie geopolitiche statunitensi. Una strada da cui Bigelow non accenna a deviare, forse perché percorsa, prima di lei, da tutta la politica americana: non solo dal presidente Bush, ma anche dal suo immediato successore, Barack Obama, il quale nel discorso in cui annunciò la morte di bin Laden glissò sulle violenze di Stato e su tutte le uccisioni di civili causate dalla guerra al terrore, appellandosi a quelli che genericamente chiamò come «i costi della guerra».
Kathryn Bigelow
e la guerra al terrore,
di Paolo Rissicini
TR-109
29.09.2024
All’alba dell'11 settembre, la guerra promossa dall’amministrazione di George Bush - con le invasioni militari in Afghanistan, nel 2001, e in Iraq nel 2003 - è stata sin dagli albori un conflitto spiccatamente mediatico per l’attenzione giornalistico-televisiva e la produzione cinematografica. È ad esempio noto il cosiddetto «Beverly Hills Summit», in cui funzionari del governo americano e delegati degli studios di Hollywood avrebbero discusso la possibilità di ideare una linea ufficiale di propaganda con cui l’industria hollywoodiana avrebbe supportato la guerra al terrore. Nonostante non si possa considerare il rapporto tra il cinema e la guerra in Medio Oriente alla stregua di una sistematizzazione diffusa della propaganda bellica all’interno dello spazio dell’immaginario filmico, la copertura della guerra al terrore è stata ampia su tutte le piattaforme mediatiche.
Nel cinema, questa copertura non è stata messa in pratica unicamente a livello etico-politico (né solo propagandistico e neanche critico), ma in modalità sfumate o eterogenee. Così come sfumati sono i film della regista che, più di tutti dalle parti di Hollywood, ha riportato all’immagine la complessità di una stagione politica e militare senza precedenti: Kathryn Bigelow.
I. L’11 settembre e una nuova frontiera
È il 7 marzo 2010 quando, per la prima volta, il premio Oscar alla miglior regia viene assegnato ad una donna. «From among the five gifted nominees tonight, the winner could be, for the first time, a woman», dichiara Barbra Streisand presentando la categoria. Dopo aver controllato la busta ed essersi concessa una piccola pausa, annuncia Kathryn Bigelow come vincitrice. La regista sale sul palco del Kodak Theatre di Los Angeles e nel suo discorso di accettazione non tocca nemmeno per un istante il tema del genere. Nonostante ciò, mentre lascia il palco risuona I Am a Woman di Helen Reddy, un inno del movimento femminista anni Settanta
Pur essendo una delle registe più importanti della cinematografia statunitense, Kathryn Bigelow ha sin da sempre evitato il ruolo e l’etichetta della regista femminista, sia in relazione ai suoi film che alla sua posizione all’interno dell’industria. La ripetuta insistenza sulla sua apparente neutralità di genere è stata strettamente intrecciata con discorsi critici che hanno caratterizzato il suo cinema come muscolare, per la sua inclinazione a lavorare all’interno di presunti generi "maschili". Come riporta Katarzyna Paszkiewicz nel saggio Hollywood Transvestite: Kathryn Bigelow’s The Hurt Locker, lo status di Kathryn Bigelow è stato frutto di una forte negoziazione da parte di critici e accademici durante la sua, ormai quarantennale, carriera. E se per molto tempo la sua propensione per presunti generi cinematografici maschili, principalmente d’azione, è stata vista come un modo per scardinarli da dentro e destabilizzarne gli stereotipi - posizionando in questo modo la regista californiana come una Hollywood Transgressor - dopo il successo avuto agli Oscar con The Hurt Locker (2008) questa sua inclinazione è stata vista sempre più in maniera negativa.
La complessità dell’opera di Bigelow è sempre risieduta, in termini di creazione artistica, di produzione, di industria e infine di ricezione del pubblico, in un rifiuto della divisione netta tra cinema mainstream e cinema autoriale. Nondimeno, molto probabilmente a causa della impopolarità politico-morale della guerra in Iraq nell’area progressista dell’opinione pubblica americana, il trionfo di un film come The Hurt Locker è stato letto, da critici e studiosi, come un pretesto per la Bigelow di allinearsi (o di ri-allinearsi) all’imperialismo americano, annoverando l’opera come la prova manifesta del suo conformismo politico alle azioni militari statunitensi in Medio Oriente. Un buon numero di commentatori progressisti hanno infatti lamentato come The Hurt Locker eviti deliberatamente il contesto politico più ampio, quello della guerra in Iraq nel suo complesso, concentrandosi invece sulla celebrazione dell’individualismo eroico classico della tradizione narrativa hollywoodiana.
D’altronde è vero che, sotto molti aspetti, The Hurt Locker può essere considerato un film di guerra convenzionale; è indubbio che accolga in sé temi stereotipati e associati al genere: la rappresentazione esplicita di corpi feriti o deceduti, la costruzione di un legame tra commilitoni attraverso la violenza, il tema della paternità e la descrizione del nemico come altro da sé dal punto di vista religioso e culturale. Ma soprattutto, ciò che Bigelow mette in scena attraverso il suo protagonista solitario e fuori dagli schemi, è conforme a regole visuali e narrative tipiche dei film hollywoodiani d’azione: un eroe solitario salva una comunità (in questo caso soldati americani e iracheni innocenti) sconfiggendo i suoi nemici (gli iracheni ribelli). Il sergente James (Jeremy Renner) assume infatti il comando dell’unità di artificieri in Iraq, la Compagnia Bravo, per sostituire il predecessore morto durante un’operazione di bonifica. Il suo arrivo non è però ben accolto dai subordinati per via di un metodo solitario e al di fuori dalle regole: rifiuta l’utilizzo del robot a controllo remoto per disinnescare le mine anti-uomo, preferendo farlo manualmente; si sveste della tuta di protezione che dovrebbe indossare; taglia le comunicazioni con il team durante le operazioni. In sostanza si isola dal resto del gruppo, assumendo le vesti di un militare spavaldo e individualistico, che non ha paura di mettere a rischio la sua vita e quella dei suoi compagni pur di portare a conclusione la missione: la sua sembra essere una figura ricalcata pedissequamente su quella di un eroe western.
L’allusione al genere western in The Hurt Locker gioca un ruolo vitale nell’economia del film, e non solo tramite la figura del sergente James. In primo luogo, Bigelow opera una vera e propria trasformazione visiva del territorio iracheno in un Far West di frontiera: nell’ultima inquadratura, James si allontana verso l’orizzonte, camminando su di una strada deserta come farebbe un cowboy mentre lascia la cittadina sul dorso del suo destriero – in un calco del finale di Shane (Il Cavaliere della valle solitaria, 1953) di George Stevens. Tutto il film utilizza il paesaggio e le città irachene alla stregua di un western hollywoodiano classico, ovvero come qualcosa da dominare; Baghdad sembra essere una terra caotica, estremamente pericolosa, il luogo di una wilderness contemporanea (ovvero, aggiornata alla «guerra al terrore») che può essere solamente conquistata, controllata con la forza. Bigelow dissemina inoltre The Hurt Locker di opposizioni binarie e manichee, una vera e propria dialettica tematica che vige nel genere così come si è strutturato internamente: civilizzazione e wilderness, natura e cultura, deboli contro forti, buoni contro cattivi.
La forte caratterizzazione western del cinema di guerra post 11 settembre sembra poter tenere il passo, da un punto di vista simbolico, con un elemento che ha sottolineato Klaus Dodds, professore di Geopolitica all’Università di Londra, in una macroanalisi intitolata Hollywood and the Popular Geopolitics of the War on Terror: ovvero la perdita della virilità maschile statunitense causata dall’impotenza di fronte agli attacchi dell’11 settembre. Dodds ha infatti evidenziato come molte delle rappresentazioni culturali incentrate sulla mascolinità americana siano state di primo piano all’alba dell’attentato alle Torri Gemelle: forse perché durante quegli attacchi terroristici è stata negata, agli uomini statunitensi, l’opportunità di dimostrare il proprio coraggio di fronte al pericolo. Il conflitto insito in quell’episodio è stato asimmetrico e, sostiene Dodds, ciò ha negato la possibilità di una risposta "ad armi pari", di per sé una predisposizione della cultura statunitense tout court: «to conceive [...] conflicts as tests of strength between two combatants playing by the same rules, as in the stereotypical western gunfight». Ciò che era mancato, durante l’11 settembre, era stata una sparatoria western, o un suo sostituto simbolico. Ed ecco che anche The Hurt Locker tiene i piedi ben saldi nel West (nel genere, nei suoi simboli): per ritrovare, forse, una dignità perduta e un Eroe che sembrava essere stato per sempre annichilito da quel «cielo che crollava, striato di sangue», parafrasando lo Springsteen di Into the fire.
II. We’ve got a lot of eyes on us
Ma più ci si avvicina a The Hurt Locker, più si scorge una complessità che ha del vertiginoso. Sin dalla prima sequenza, Bigelow mette in scena un sottile ma perpetuo gioco visivo, incentrato sul ruolo dello sguardo della macchina da presa, costruendo prospettive multiple che durante tutto lo svolgimento del film operano un denudamento critico del ruolo dei militari protagonisti (e, con un salto metaforico, degli Stati Uniti stessi) nella guerra al terrore. The Hurt Locker si apre infatti in medias res, senza alcun preambolo narrativo e portando lo spettatore direttamente in Iraq, in un ambiente urbano in cui le strade hanno assunto lo status di campi minati e i negozi sono stati trasformati in rifugi per cecchini.
L’organizzazione spaziale è così, e sin da subito, disorientante ed esplicitamente non unitaria, in contrasto con quella che dovrebbe essere l’efficienza (militaresca) dei protagonisti. La prima sequenza potrebbe suggerire come l’interesse principale di Bigelow sia in realtà una riflessione sullo sguardo occidentale (in questo senso è significativo il ruolo del monitor da cui viene pilotato il robot); più precisamente, una riflessione sulla ricerca di un controllo tecnologico-militare nell’ambito della guerra al terrore: un controllo che però, così come la grammatica del cinema ci suggerisce, è sottoposto a una esposizione continua e a una fragilità che sembra essere teorizzata (da Kathryn Bigelow stessa) come intrinseca alla guerra in sé e per sé. Il racconto dell’eroismo individualizzato tipicamente statunitense (un racconto che, bisogna ricordarlo, c’è ed è ben presente come primo fuoco dell’identificazione tra lo spettatore e i personaggi), è da qui in avanti messo alla prova dallo sguardo della macchina da presa, che grazie a una grande eterogeneità - primissimi piani, campi medi o lunghi da più angolazioni, zoomate repentine, nervosità dei movimenti di macchina e montaggio frenetico - seziona il corpo di James come farebbe un chirurgo. Ribaltando la centralità cinematografica dell’Eroe occidentale, il protagonista si configura non come soggetto ma come oggetto dello sguardo della macchina da presa.
La strategia estetica di Bigelow, fondata su di una ricchezza espressiva smodata della regia (una strategia che Katarzyna Paszkiewicz chiama «ipertrofia del visuale»), nega un orientamento spaziale tanto allo spettatore quanto al Sergente James, privando l’eroe di un qualsivoglia controllo sullo spazio circostante, così come su ciò che gli accade intorno: la regista moltiplica la visione, ma al contempo si rifiuta di offrire una pienezza visiva di ciò che si può vedere in scena, e allo stesso modo di ciò che il personaggio vede. La Compagnia Bravo raramente sembra comprendere fino in fondo ciò che succede, e questo - compiendo un facile salto metaforico - mette in discussione la missione statunitense in Iraq nel suo complesso. La profonda sensazione di incertezza e perfino di fallimento di tutto il progetto americano è, ad esempio, sintetizzata in immagini dalla sequenza in cui James, dopo aver disinnescato un ordigno, scopre un’altra serie di cavi a cui sono collegate molte più mine nascoste intorno a lui. E anche in questa scena il protagonista viene inquadrato da lontano, come oggetto dello sguardo vigile che per i personaggi, così come per gli spettatori, è privo di un’appartenenza distinguibile. La fonte (invisibile) non può che essere quella di un nemico non chiaramente identificabile: fonte, perciò, capace di dislocare percettivamente ed eticamente il soggetto (i personaggi e gli spettatori, occidentali e imperialisti) che ne risulta schiavo, in quanto oggetto di una visione esterna.
III. The American Woman Warrior
La lunga missione della CIA che ha portato all’uccisione del leader di Al Qaida Osama bin Laden è il secondo capitolo di questa ricognizione storica, politica, etica (ed estetica prima di tutto) sulla guerra al terrore, operata da Bigelow a cavallo degli anni dieci del nuovo millennio. L’uscita nei cinema americani di Zero Dark Thirty, nel 2012, ha riacceso un dibattito nato ormai un decennio prima intorno alla condizione dei detainees nel carcere di Guantanamo: quello sul controverso e duraturo utilizzo dello strumento della tortura da parte degli Stati Uniti. Un dibattito poi divampato quando furono rivelate al mondo alcune fotografie scattate dentro il carcere di Abu Ghraib, in Iraq, che testimoniavano l’uso massiccio della tortura da parte dell’esercito statunitense. Guantanamo e Abu Ghraib: aree franche, esponenti di una cultura normalizzata dell’abuso e della deumanizzazione favorita convintamente dalla prima amministrazione Bush e messa in campo in ambito normativo da una risoluzione come l’Authorization for Use of Military Force e dallo USA PATRIOT Act, l’insieme di leggi speciali emanate il 26 ottobre 2001 che diedero ampio mandato alle forze dell’ordine di mettere in atto tecniche di interrogatorio cosiddette "potenziate" (la dicitura ufficiale recitava «enhanced interrogation techniques»), prime fra tutte la nota pratica del waterboarding.
Zero Dark Thirty, immergendosi in queste pratiche, ha suscitato uno scontro intellettuale accesissimo. Bigelow e il suo sceneggiatore Mark Boal hanno affermato che la rappresentazione della tortura nel film, - la cui sceneggiatura è il frutto di un lavoro di fusione tra l’autobiografia di un membro dei Navy SEALS e i documenti riservati a cui hanno avuto accesso - fosse un aspetto importante di esso, in quanto parte della storia della cattura di Bin Laden, e che la sua rappresentazione non fosse per forza un endorsement. Ma i dubbi su queste affermazioni di Bigelow e Boal si sono susseguite tra critici e analisti; la posizione di Agnieszka Soltysik Monnet, professoressa di Letteratura e cultura americana all’Università di Losanna, è ad esempio molto netta, e arriva a smentire la regista e lo sceneggiatore sostenendo con forza come la tortura in Zero Dark Thirty sia rappresentata come necessaria ed efficace per proteggere gli Stati Uniti dal terrorismo e per arrivare alla cattura di bin Laden.
D’altronde, la prima sequenza figurativa del film è un interrogatorio ai danni di un prigioniero in un black site, una base segreta statunitense in Medio Oriente. Ed è preceduta da una apertura a schermo nero con le registrazioni sonore delle vittime dell’11 settembre, che chiamano le persone più care o i numeri d’emergenza. È chiaro come qui venga creata una relazione causale tra le due sequenze, e che qualsiasi tipo di abuso ai danni del prigioniero Ammar (a cui viene in tal modo data, esplicitamente e pretestuosamente, la responsabilità diretta dell’agonia delle persone coinvolte negli attentati), sia giustificato nel lungometraggioattraverso la creazione di uno spazio-tempo eccezionale: quello della guerra al terrorismo, in cui i valori etici sono sospesi pur di soddisfare il sentimento di vendetta di una nazione. La colpevolezza di Ammar non è messa in dubbio in alcun modo durante il proseguimento della storia, anzi è avvalorata dal comportamento di Maya, l’agente dei servizi segreti interpretata da Jessica Chastain.
Imperturbabile alle violenze, Maya accetta, impara e poi mette in atto le tecniche di interrogatorio, dimostrando ai colleghi e agli spettatori autonomia e forza. La lettura femminista transnazionale di Agnieszka Soltysik Monnet ha suggerito nel film della Bigelow la nascita di un nuovo tipo di «American warrior»: nel suo saggio, The American Woman Warrior: A Transnational Feminist Look at War, Imperialism, and Gender, Soltysik Monnet asserisce infatti come Maya incarni una inedita (perché donna) guerriera americana nell’era della guerra digitalizzata al terrorismo, le cui azioni di fatto non conducono ad altro che alla promozione dell’egemonia statunitense e al suopotere militare nel mondo. La caratterizzazione di Maya sembra essere (anche qui) quella di un cowboy solitario che persegue il giusto anche e soprattutto con la forza – in questo caso, attraverso l’esercitazione di una violenza "necessaria" sui "cattivi", ovvero i colpevoli dell’11 settembre. In questo aggiornamento al femminile della figura dell’Eroe americano non c’è però traccia di femminismo: oltre a esprimersi verbalmente attraverso codici di linguaggio maschili («The motherfucker who found the place», così si auto-appellerà la protagonista nel momento apicale del processo decisionale che porterà alla cosiddetta Operazione Lancia di Nettuno), Maya corrisponde a un soggetto femminile che Angela McRobbie chiamerebbe «top girl», la giovane donna a cui nel mondo neoliberale sono aperte le porte del successo in cambio di una trascuratezza della solidarietà femminile e dell’uguaglianza di genere. D’altronde il personaggio di Maya, ed è questo forse l’aspetto più interessante dell’analisi di Soltysik Monnet, opera attraverso una logica di vita parareligiosa: il suo unico scopo è quello della guerra al terrorismo e la sua esistenza appare una crociata in cui mantiene un alone di purità, anche sessuale: in contrasto con quelle fotografie del carcere di Abu Ghraib, in cui le immagini sadico-sessuali erano state le componenti più sconvolgenti per l’opinione pubblica, proprio per la presenza, in esse, di militari donne.
IV. There’s no shame if you want to watch from the monitor
Ma la tortura, in Zero Dartk Thirty, si presta ad altre letture, nelle quali, ancora una volta, la sintassi cinematografica stimola il discorso etico. La prima, programmatica sequenza, costruita per dare al pubblico la sensazione di poter illuminare qualcosa che di solito non può vedere (e infatti un fascio di luce ci accoglie nella stanza oscura del black site), è girata con una camera a mano, così da enfatizzare la partecipazione e l’esperienza dello spettatore. Il punto di vista dell’agente della CIA Dan, il supervisore di Maya, è in semi soggettiva, come se lo sguardo dello spettatore ricadesse sul detenuto Ammar da sopra le spalle dell’agente stesso; basata solo inizialmente su questa prospettiva, la sequenza mostra lo status ineguale tra i personaggi: mentre Maya ha il viso ancora coperto dal passamontagna, Dan viene presentato da Bigelow come in una posizione di potere più alta di Ammar, come se svettasse fisicamente sul prigioniero, essendo ripreso dal basso in un contre-plongée. Ma con il passare dei minuti, Maya si trasforma da testimone senza volto ad agente che coadiuva le operazioni, pur restando in disparte, in uno spazio di giudizio e di scelta che equivale all’assenza di compartecipazione alla brutalità di Dan ma anche ad una non-contestazione dei suoi metodi: bensì, al loro sfruttamento. Il senso di coinvolgimento a questo punto dipende totalmente da Maya, con la macchina da presa che indugia sul suo sguardo e sulle sue reazioni facciali, diventando così un surrogato dello spettatore.
Gabi Schlag, nello scritto Representing torture in Zero Dark Thirty (2012): Popular culture as a site of norm contestation, sottolinea opportunamente l’ambiguità del rapporto che il film innesca tra lo spettatore, Maya e la visualizzazione della tortura: Maya, che coincide con lo sguardo che allinea lo spettatore alla storia, non mette mai in discussione la necessità della tortura, anche se - almeno inizialmente - non ne condivide i metodi, e sicuramente non partecipa al senso di vendetta e di abuso fisico che risiede nella violenza che i suoi superiori esercitano. Si erge dunque a occhio superiore, quello dello spettatore, sebbene, da quel piedistallo, non contesti l’utilizzo delle tecniche di interrogatorio cosiddette «potenziate». L’assenza di (auto)riflessione sulla condotta dei personaggi, insieme all’assenza di implicazioni per le loro azioni e per le violazioni delle norme anti-tortura, è effettivamente un leitmotiv presente per tutto il film. Ciò è una prova del fatto che la rappresentazione della tortura in Zero Dark Thirty sembra essere una riflessione su ciò che essa significa per lo spettatore, in particolare lo spettatore statunitense: è la sua violenza, quella del pubblico, il suo desiderio di vendetta, che non sono legalmente sanzionate ma sono, tuttavia, moralmente giustificate. E ciò viene espresso, nel film, da un gioco propriamente cinematografico, incentrato sulla visione della tortura: da parte dei personaggi, da parte dello spettatore e da parte della macchina da presa.
Subito dopo questo primo interrogatorio e poco prima di continuare la seduta di tortura, a Maya viene chiesto se vuole guardare dal monitor ciò che avviene dentro la stanza: Dan le ricorda che non deve provare vergogna se preferisce non essere presente. La frase «There’s no shame if you want to watch from the monitor» assume significati molto rilevanti in questa sede. Non solo implica una sfida nei confronti della protagonista, ma ne imbastisce una seconda, speculare, per lo spettatore: la scelta tra guardare dal vivo o attraverso una tecnologia che media la realtà; tra l’essere attivo oppure passivo nella complicità. Ma può essere interpretata anche come un promemoria per lo spettatore stesso, una notazione che ci ricorda come la guerra al terrore sia presente sui nostri schermi, sui monitor che ci circondano, tutti i giorni. «There’s no shame if you want to watch from the monitor» è l’attestazione verbale di una realtà inquietante, quella della sfera pubblica americana dove la guerra al terrorismo (della cui esposizione mediatica, a riguardo della prima guerra del Golfo, già Jean Baudrillard denunciava la pervasività) è osservata quotidianamente e, per l’appunto, senza alcuna vergogna.
V. Un asse perduto?
Maya siede su di un aereo da trasporto militare, da sola; il pilota le chiede dove vuole recarsi ma lei non riesce a rispondere: una lacrima le scende sul viso, sebbene la sua espressione non tradisca alcuna emozione. Così si chiude Zero Dark Thirty. L’Operazione Lancia di Nettuno, interpretazione filmica dell’assedio realmente avvenuto alla dimora di Osama bin Laden ad Abbottabad, in Pakistan, occupa una grande fetta dell’ultima parte dell’opera. È l’apice dell’azione militare, del proceduralismo sui cui si sostiene il lavoro della CIA (e che guida Maya nella sua caccia ossessiva) e del data gathering - che, compiuto in quest’ultima sequenza non tramite la tortura ma in un raid, rispecchia ogni azione e scelta dei personaggi. Azioni e scelte che non fanno che dipendere dalla ricerca senza fine di dati, con l’effetto di ridurre la guerra e la politica a meri calcoli probabilistici.
Forse proprio per questo (ma in contrasto con ciò che si potrebbe immaginare da un film statunitense che insegue il più importante terrorista internazionale, reo di aver orchestrato uno degli attacchi più feroci all’America), non c’è alcun sentimento di catarsi, di redenzione, nell’aver trovato e ucciso il capo di Al Qaida. Ciò detto, rimangono delle lacrime misteriose quelle che scendono sulla guancia di Maya. Anche qui, l’orizzonte narrativo ed etico è ambiguo. Rimane un forte senso di insicurezza su ciò che pensa e prova la protagonista, su ciò che dovrebbe pensare e provare lo spettatore. Si potrebbe credere che questo finale sia un finale critico nei confronti della politica estera e di spionaggio degli Stati Uniti; che ci voglia mostrare come l’America, simboleggiata da Maya, abbia perso per strada i suoi valori fondanti nella caccia al terrore, e per questo ora si trovi in uno spazio vuoto, che non conosce più: come se il personaggio e ciò che rappresenta si trovassero dislocati dal proprio asse valoriale.
Eppure, c’è un altro spazio che il film percorre chiaramente, ed è quello della deresponsabilizzazione, della negazione e dell’occultamento della guerra al terrore, e contemporaneamente della naturalizzazione della guerra permanente, vista come la nuova normalità nelle strategie geopolitiche statunitensi. Una strada da cui Bigelow non accenna a deviare, forse perché percorsa, prima di lei, da tutta la politica americana: non solo dal presidente Bush, ma anche dal suo immediato successore, Barack Obama, il quale nel discorso in cui annunciò la morte di bin Laden glissò sulle violenze di Stato e su tutte le uccisioni di civili causate dalla guerra al terrore, appellandosi a quelli che genericamente chiamò come «i costi della guerra».