La trasformazione di una terra e di un genere
che sta cambiando con essa,
di Rodrigo Mella
TR-11
23.10.2020
È inverno. In un ranch da qualche parte nelle valli del Montana, la giovane Jamie stringe le cinghie attorno ai muscoli di un cavallo. Il tempo per lei trascorre in silenzio, un po’ per indole, e un po’ perché l’unica cosa che la circonda sono miglia e miglia di prati e neve. Una sera, passando per caso di fronte a una scuola della zona, Jamie si imbatte in un corso serale di giurisprudenza, tenuto da un assistente legale di nome Beth Travis. Jamie decide di rimanere, e a fine lezione accompagna Beth in un diner poco distante dalla scuola. Non hanno un granchè da dirsi, e presto Beth decide di rimettersi in cammino. Eppure, durante l’ordinaria irrilevanza della loro interazione, per Jamie qualcosa cambia, e come se fosse entrata a contatto con un altro essere umano per la prima volta nella vita, non ne può più fare a meno. Ogni settimana, Jamie torna per seguire le lezioni di Beth, e alla fine di ogni lezione le due si rifugiano prima in macchina e poi nel diner. Dopo qualche tempo, Jamie decide di sorprendere Beth, e al momento di andare a mangiare annuncia che questa volta tocca a lei guidare. Jamie mostra a Beth il suo cavallo, e dopo qualche momento di esitazione le due si dirigono verso il diner in groppa all’animale, attraversando l’autostrada, con le luci rosse delle macchine che gli sfrecciano accanto.
Questa è una delle tre storie raccolte in Certain Women, un film di Kelly Reichardt tratto da vari racconti di Maile Meloy. La scena di Jamie e Beth a cavallo è uno di quei momenti che hanno una risonanza difficile da descrivere a parole, un’immagine che risulta allo stesso tempo familiare ed estranea. A prima vista – due persone a cavallo, in viaggio nel desolato ovest americano – potrebbe trattarsi di un qualsiasi Western. È il suo contenuto più profondo – tra le due donne in sella all’animale esiste una forte tensione sessuale, e la desolazione non è quella di un deserto bensì di un’autostrada costruita su di esso – ad essere tutt’altro che conforme. È proprio questa dissonanza che rende la cinematografia di Reichardt così difficile da descrivere, e forse è giusto che i suoi film continuino ad esistere in un mondo a parte. O forse è il fatto che il cinema Western, come la terra che raccontava, è cambiato.
Kelly Reichardt nasce a Miami, Florida, un luogo che lei stessa descrive come un “abisso culturale”. Abbandonato il liceo all’età di sedici anni, e dopo qualche tempo trascorso a lavorare prima in un negozio di zoccoli e poi in uno di vinili, Reichardt decide di lasciarsi tutto alle spalle e di trasferirsi a Boston. Qui vede la neve per la prima volta, e passa mesi sui divani di vari conoscenti mentre frequenta corsi serali di cinema e fotografia. I vari progetti che realizza la portano prima alla School of the Museum of Fine Arts (di cui oggi è docente), e poi a New York, dove nel 1994 realizza il suo primo lungometraggio – River of Grass. Esaltato dalla critica, il film sbarca alla Berlinale e riceve la nomination per il Gran Premio della Giuria al Sundance, oltre ad altre tre nomination agli Independent Spirit Awards. Un film che ha ricevuto un responso critico di questo livello sarebbe stato un trampolino di lancio ideale per qualsiasi altro regista. Per Reichardt, invece, sarà l’inizio di uno iato artistico lungo dodici anni. Totalmente alienata dalle dinamiche di pitching e networking – le leggi di compravendita dell'industria cinematografica – di Los Angeles, Reichardt sparisce dalla scena, e passa più di un decennio tra altri divani e cortometraggi in super8. Ha inizio così un lungo percorso di ricerca interiore ed esteriore, che la porterà infine ad approcciare il grande schermo una seconda volta. Con un budget di 30 mila dollari, ricavato per lo più dall’eredità lasciatagli da una zia, Reichardt convince lo scrittore Jonathan Raymond a trasformare uno dei suoi racconti in un lungometraggio, e così nasce Old Joy (2006). Nonostante il New York Times ne parli come uno dei migliori dell’anno, il film passa relativamente in sordina rispetto al primo film, e viene escluso da tutti i grandi festival. E in effetti, fra i due progetti c'è un abisso. Dopo i dodici anni d’incubazione, Reichardt sembra essere una regista completamente diversa. In River of Grass, Reichardt metteva in mostra in modo quasi sfrontato la sua capacità innata di fare cinema, di costruire inquadrature perfette, e di sovvertire le convenzioni del genere. Eppure, dietro a tutto ciò, si sente un vuoto, il silenzio di qualcuno che conosce il linguaggio cinematografico alla perfezione, ma non ha idea di cosa farsene. In Old Joy, il film viene spogliato da qualsiasi formalismo, fino a rimanere completamente nudo. La cinepresa non tocca quasi mai terra, mentre la narrativa e i dialoghi si fondono in un flusso quieto e uniforme, come se sgorgassero da una sorgente. E nella calma nasce la voce (o meglio, il sussurro) di un’autrice consapevole di ciò che vede, e ciò che vuole dire, una regista disposta a fare cinema solo alle proprie condizioni.
Reichardt ha una sensibilità particolare per il rapporto che esiste tra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda. I suoi personaggi sono sempre soggetti alla loro terra, e le loro vite una piccola frazione di una realtà ben più ampia. Ispirata dai racconti di Jonathan Raymond e dalle fotografie di Justine Kurland, con Old Joy Reichardt rivolge lo sguardo verso una terra in cui il rapporto conflittuale tra uomo e natura ha radici molto profonde – l’Oregon, un luogo che nella storia del cinema è sinonimo soprattutto di Western.
Per la posizione geografica e le ostili condizioni ambientali, l’Oregon fu uno degli ultimi territori ad essere insediati dai coloni europei. Ufficialmente entrò a far parte degli Stati Uniti già nel 1819, ma solo nel 1842 ebbero inizio gli sforzi di popolare l'area, con la creazione della Pista dell’Oregon (Oregon Trail). Questa rotta migratoria, usata da coloni, cowboy, minatori e uomini d’affari, in viaggio alla ricerca di una vita migliore, divenne presto sinonimo di opportunità. Il processo di popolamento dell’Oregon ebbe luogo a discapito dei popoli nativi che già abitavano la zona, vittime degli obiettivi di “civilizzazione” posti dai coloni. Non è difficile capire perchè questa terra sia poi diventata un caposaldo del cinema Western, un genere creato appositamente con l'obiettivo di raccontare la nascita di una nazione, dando così forma ad una mitologia propriamente statunitense. Da Il grande sentiero a Là dove scende il fiume, la storia della colonizzazione dell’Oregon rappresenta una delle narrative più efficaci nel creare un’identità nazionale uniforme, laddove l’uniformità non aveva ragione di esistere. L’ideologia alla base del Western, e dunque dell’America come nazione, è la superiorità assoluta della civiltà rispetto alla natura selvaggia, e con questa il dovere morale di liberare la terra dal primitivismo. In questo senso, non c’è luogo più esemplificativo dell’Oregon, dove la guerra tra l’esercito statunitense e le tribù Sioux durò quasi 40 anni. L’unico vero cittadino americano diventa dunque una figura eroica senza nome – un uomo bianco, maschilista e xenofobo, che si contraddistingue per la sua innata capacità di fare giustizia. Di fronte alla vasta mitologia per lo più propagandistica che ha riscritto la storia di queste terre, il presente passa in secondo piano. Ed è qui che si crea un vuoto nell’immaginario americano, un vuoto che ora Kelly Reichardt sta provando a riempire.
In genere, i film Western presentano una versione manipolata dei fatti, in cui la vittoria dei coloni sulle tribù native segna la fine del conflitto, e l’inizio della prospera civiltà americana. Se è vero che in questo senso già dagli anni ‘50 si inizia a vedere un'evoluzione importante nel Western (vedi John Ford e Nicholas Ray, per citarne due), Reichardt è forse la prima a percepire questo momento storico in maniera opposta. Per Reichardt questa è la nascita di un conflitto, e non la risoluzione – l’infliggere di una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. Ed è con il suo terzo film Wendy e Lucy che Reichardt inizia a scavare nell’eredità lasciata da quella ferita. Partendo nuovamente da un racconto di Jonathan Raymond, il film racconta la storia di Wendy (Michelle Williams) e il suo cane Lucy. Rimaste sfollate dopo un forte alluvione, le due decidono di mettersi in viaggio verso l’Alaska, in cerca di una vita migliore. Arrivata in una cittadina dell’Oregon, Wendy perde la macchina per un problema al motore, e poco dopo, mentre cerca di rubare delle provviste dal supermercato, Lucy sparisce. Il film non si preoccupa nè dell’inizio nè della fine del viaggio, ma solamente dei giorni in cui Wendy, senza soldi e senza cellulare, si trova a setacciare questo limbo di desolazione alla ricerca di Lucy. Reichardt propone una rivisitazione moderna di un pellegrino in viaggio attraverso la Pista dell’Oregon, in cui il viaggiatore, invece di subire le imboscate dei nativi, diventa ostaggio della burocrazia e della povertà istituzionalizzata. Negli occhi di Reichardt, il vuoto del parcheggio del centro commerciale è lo stesso vuoto del deserto, coperto da un sottile strato d’asfalto che si sta lentamente sgretolando. Il personaggio di Wendy non è poi così lontano dai vari Clint Eastwood – uno straniero in cerca di fortuna, che arrivato in una cittadina sperduta e dimenticata, rimane incastrato nelle dinamiche locali. Da un lato però, Eastwood rappresenta la legge, o meglio la giustizia assoluta al di là della legge. Wendy invece è vittima delle legge, dell’assurda burocrazia delle legge che con la giustizia ha ben poco a che fare. Il filo che li collega è sottile, eppure basta poco a rendersi conto che il sistema che oggi attanaglia la vita di Wendy è conseguenza diretta della fondazione di quell’America, basata sul principio che la giustizia non sarebbe mai stata uguale per tutti. Perché nonostante la costituzione dica il contrario, la realtà dei fatti è che l’uomo bianco, Clint Eastwood o John Wayne che sia, non ne è soggetto. Dunque è questa la civiltà che raccontava il mito – un sistema di oppressione dal quale è impossibile fuggire, e che continua ogni giorno a scavare le proprie radici in una terra tenuta in ostaggio. E se il ruolo del Western è quello di raccontare il rapporto tra la nazione americana e il territorio americano, allora Wendy e Lucy è un Western. Femminista, contemporaneo e antisistema, ma pur sempre un Western.
Con l’approdo di Wendy e Lucy a Cannes, quattordici anni dopo il debutto, Reichardt si guadagna finalmente la possibilità di iniziare a pensare in ‘grande’, e di farlo a modo suo. Con Raymond nuovamente alla scrittura, il quarto film Meek’s Cutoff è, non a caso, un Western in tutto o per tutto (o quasi). Ispirato ad una storia vera, il film racconta il viaggio della carovana guidata da Stephen Meek (Bruce Greenwood) attraverso il deserto dell’Oregon nel 1845. Arrivate notizie di varie imboscate per mano dei nativi sulle Blue Mountains, Meek convince un gruppo di coloni a seguirlo per una via alternativa alla Pista dell’Oregon, che gli permetterebbe di raggiungere le valli senza dover attraversare la temuta catena montuosa. Il viaggio sarebbe dovuto durare due settimane, e il film ha inizio quando la carovana si trova in cammino già da tre, e la paura di essersi persi nel deserto inizia a guadagnare terreno. Le cose cambiano quando i coloni si imbattono in un nativo (Rod Rondeaux), la cui presenza dà inizio a un gioco di potere che finirà per motivare l'ammutinamento di Emily Tetherow (Michelle Williams) e del resto della carovana nei confronti di Meek. Quello messo in scena da Reichardt è un vero e proprio quadro politico – non poi troppo distante dalla realtà odierna – in cui gli uomini si ostinano a negare la realtà dei fatti mettendo a rischio le loro stesse vite, pur di non ammettere di aver sbagliato. In una delle scene più riuscite del film, quando ormai è chiaro a tutti che il sentiero è stato smarrito, gli uomini si riuniscono attorno a Meek per decidere sul da farsi. Nel frattempo, le donne (e lo spettatore con esse) guardano da lontano, a braccia incrociate, in attesa di scoprire il loro destino. Non si riesce mai a sentire bene cosa gli uomini si stiano dicendo, le voci sono coperte dal vento e dalla distanza fisica tra loro e la cinepresa, ed è proprio questa distanza che Reichardt vuole evidenziare. Reichardt non si interessa ai personaggi che prendono le decisioni e che dunque guidano l’azione, ma a quelli che ne vengono esclusi. In pochi secondi, Reichardt riesce a riassumere la natura fallace del mito americano, mettendo a giudizio una nazione fondata sull’esclusione della donna. Pur rispettando i canoni Western per quanto riguarda l’ambientazione storica e la struttura narrativa, Meek’s Cutoff è un tentativo di sovvertire la bussola morale del genere e, con questa, la coscienza storica americana in generale. L’ostilità del deserto si mantiene tale durante tutta la durata del film, e più passano i minuti, più risulta chiaro che questa è una realtà che non gli appartiene, e che forse non gli apparterrà mai. Reichardt non concede ai propri personaggi la soddisfazione di arrivare a destinazione, e tanto meno la speranza di poter sopravvivere. Al contrario, è la sensazione di totale smarrimento il punto centrale del viaggio.
Il fotografo Robert Adams, che ha dedicato gran parte della sua carriera a documentare la trasformazione dei paesaggi dell’Ovest Americano, sulla ‘civilizzazione’ di queste terre dice: “L’Ovest è scomparso. Che cosa ne ha abbiamo fatto? Con cosa abbiamo sostituito queste grandi foreste? Cosa ci abbiamo guadagnato?”. Sono le stesse domande che si pone Reichardt, ed i suoi film sono spesso proprio questo – una domanda più che una risposta. La magnifica presenza dei paesaggi viene messa a confronto con la violenza architettonica causata dalla costante espansione degli esseri umani, e per Reichardt non è chiaro se queste due realtà riusciranno mai a coesistere. Nel 2013, esce quello che in certi sensi è il film più atipico nella filmografia della regista: Night Moves. In competizione alla settantesima edizione del festival di Venezia e, scritto ancora una volta da Raymond, il film vede un trio di ambientalisti (Jesse Eisenberg, Dakota Fanning, e Peter Sarsgaard) alla prese con l’esecuzione e le conseguenze di un attacco terroristico ad una diga nelle montagne Klamath, Oregon. L'esplosione della diga – che ricorda quella del ponte in Giù la Testa di Sergio Leone – dovrebbe essere un momento catartico per i tre attivisti, e invece si trasforma in un’asfissiante paranoia, quando la mattina dopo i giornali annunciano la scomparsa di un campeggiatore che si trovava nei paraggi durante l’attacco. Nel film la violenza umana, anche se motivata dalle giuste intenzioni, serve solo a continuare il ciclo di distruzione iniziato qualche secolo prima, e Reichardt sembra denunciare l’impossibilità di risolvere quel conflitto. L’obiettivo degli ambientalisti è quello di dare inizio alla ‘decivilizzazione’ dell’Ovest, un processo che possa restituire il potere alla terra stessa. Per Reichardt il problema va ben oltre, e ciò che mette in discussione non è il ruolo, ma la presenza in assoluto dell’essere umano tra quelle montagne.
E poi c’è Certain Women. Forse il film più riuscito della regista americana, con un cast di A-listers, premi e nomination un po’ ovunque, e in generale una maturità artistica travolgente. Il film racconta tre storie che, pur entrando in contatto tra di loro solo in maniera sporadica e casuale, mantengono una forte coesione tematica. Reichardt, che per la prima volta da River of Grass lascia l’Oregon, decide di cimentarsi in un’analisi del ruolo della donna all’interno, piuttosto che ai margini, della società americana. Le tre storie si svolgono attorno alla cittadina di Livingston, nel Montana, e oltre a quella di Jamie (Lily Gladstone) e Beth (Kristen Stewart) citata all’inizio dell’articolo, le altre due prendono come punto di partenza altri due dei pilastri tematici del Western: la giustizia, e la differenza tra questa e la legge; e l’appropriazione della terra. Il primo racconto segue Laura Wells (Laura Dern), un avvocato alle prese con un certo Fuller, un uomo vittima di un incidente sul posto di lavoro. Nonostante Laura gli spieghi varie volte che, avendo accettato un patteggiamento di poco valore subito dopo il fatto, Fuller ha perso qualsiasi tipo di leva legale, è costretta a riferirlo a un suo collega, questa volta uomo, perché finalmente Fuller gli creda. Fuller decide dunque di infiltrarsi negli uffici della sua ditta, prendendo in ostaggio prima un agente della sicurezza, e poi Laura. Ancora una volta, Reichardt mette in mostra un sistema giuridico creato appositamente per proteggere le dinamiche di sfruttamento che diedero inizio a questa nazione. Laura non può fare nulla per il suo cliente, ed è l’ultima persona ad avere una colpa, eppure è lei che finisce per essere presa in ostaggio. Non importa ciò che giusto e ciò che non lo è, alla fine il ciclo di sofferenza finisce per colpire sempre le stesse persone.
Più metaforico è invece il secondo racconto, con protagonista Michelle Williams (chi altri) nei panni di Gina. Gina, il marito Ryan (James LeGros) e la loro figlia adolescente (Sara Rodier) sono alle prese con la costruzione della loro nuova casa, in mezzo alle valli del Montana. Per farlo, Gina vuole convincere un vecchio residente della zona di nome Albert a vendergli la pietra arenaria in suo possesso. Durante la trattativa, Albert non sembra avere nessuna intenzione di parlare con Gina, e decide invece di rivolgersi sempre a Ryan. Albert accetta alla fine di vendergli la pietra, ma quando Gina torna con il furgone per caricarla, e prova a salutare l’uomo, lui la ignora ancora una volta. In questo segmento Reichardt mette in evidenza come nonostante Gina sia quella che prende le decisioni all’interno del nucleo familiare, la sua autorità non si estenda alla realtà circostante. Gina manca di capacità di acquisto, non perchè non se lo possa permettere economicamente, ma perché il suo essere donna non gli permette di accedere al sistema di cui è obbligata a fare parte. Non è chiaro come la pietra arenaria sia finita nel giardino di Albert, l’importante è che sia lui ad avere il potere di venderla. L’appropriazione dell’Ovest è simbolicamente riassunta in un ammasso di pietre, di cui, tra l’altro, Albert non fa nessun uso. Per Reichardt è chiaro che coloro che possiedono questa terra non sono gli stessi a cui appartiene veramente.
Che si tratti effettivamente di Western o meno, i film di Kelly Reichardt stanno ridefinendo il panorama cinematografico dell’American West. È come se le cineprese che erano solite inquadrare John Wayne e Gary Cooper fossero state dimenticate lì nel deserto, ancora in posizione, in attesa che il mondo cambiasse attorno ad esse, e che qualcuno tornasse a farle funzionare. Kelly Reichardt ha messo fine a quell’attesa, e ora, che piaccia o meno, ci sta raccontando l’eredità di quel mondo. Un'eredità che, per quanto distante dal sogno delle carovane che attraversarono la Pista dell’Oregon, finalmente sta prendendo coscienza delle proprie colpe. Il suo nuovo film First Cow sembrerebbe essere per temi e ambientazione l’erede diretto di Meek’s Cutoff, e dopo l’uscita negli Stati Uniti siamo in attesa che arrivi anche in Italia. Come Reichardt stessa, i suoi film non parlano ad alta voce, ma per chi fosse disposto a tendere l’orecchio sarà difficile smettere di ascoltare.
La trasformazione di una terra e di un genere che sta cambiando con essa,
di Rodrigo Mella
TR-11
23.10.2020
È inverno. In un ranch da qualche parte nelle valli del Montana, la giovane Jamie stringe le cinghie attorno ai muscoli di un cavallo. Il tempo per lei trascorre in silenzio, un po’ per indole, e un po’ perché l’unica cosa che la circonda sono miglia e miglia di prati e neve. Una sera, passando per caso di fronte a una scuola della zona, Jamie si imbatte in un corso serale di giurisprudenza, tenuto da un assistente legale di nome Beth Travis. Jamie decide di rimanere, e a fine lezione accompagna Beth in un diner poco distante dalla scuola. Non hanno un granchè da dirsi, e presto Beth decide di rimettersi in cammino. Eppure, durante l’ordinaria irrilevanza della loro interazione, per Jamie qualcosa cambia, e come se fosse entrata a contatto con un altro essere umano per la prima volta nella vita, non ne può più fare a meno. Ogni settimana, Jamie torna per seguire le lezioni di Beth, e alla fine di ogni lezione le due si rifugiano prima in macchina e poi nel diner. Dopo qualche tempo, Jamie decide di sorprendere Beth, e al momento di andare a mangiare annuncia che questa volta tocca a lei guidare. Jamie mostra a Beth il suo cavallo, e dopo qualche momento di esitazione le due si dirigono verso il diner in groppa all’animale, attraversando l’autostrada, con le luci rosse delle macchine che gli sfrecciano accanto.
Questa è una delle tre storie raccolte in Certain Women, un film di Kelly Reichardt tratto da vari racconti di Maile Meloy. La scena di Jamie e Beth a cavallo è uno di quei momenti che hanno una risonanza difficile da descrivere a parole, un’immagine che risulta allo stesso tempo familiare ed estranea. A prima vista – due persone a cavallo, in viaggio nel desolato ovest americano – potrebbe trattarsi di un qualsiasi Western. È il suo contenuto più profondo – tra le due donne in sella all’animale esiste una forte tensione sessuale, e la desolazione non è quella di un deserto bensì di un’autostrada costruita su di esso – ad essere tutt’altro che conforme. È proprio questa dissonanza che rende la cinematografia di Reichardt così difficile da descrivere, e forse è giusto che i suoi film continuino ad esistere in un mondo a parte. O forse è il fatto che il cinema Western, come la terra che raccontava, è cambiato.
Kelly Reichardt nasce a Miami, Florida, un luogo che lei stessa descrive come un “abisso culturale”. Abbandonato il liceo all’età di sedici anni, e dopo qualche tempo trascorso a lavorare prima in un negozio di zoccoli e poi in uno di vinili, Reichardt decide di lasciarsi tutto alle spalle e di trasferirsi a Boston. Qui vede la neve per la prima volta, e passa mesi sui divani di vari conoscenti mentre frequenta corsi serali di cinema e fotografia. I vari progetti che realizza la portano prima alla School of the Museum of Fine Arts (di cui oggi è docente), e poi a New York, dove nel 1994 realizza il suo primo lungometraggio – River of Grass. Esaltato dalla critica, il film sbarca alla Berlinale e riceve la nomination per il Gran Premio della Giuria al Sundance, oltre ad altre tre nomination agli Independent Spirit Awards. Un film che ha ricevuto un responso critico di questo livello sarebbe stato un trampolino di lancio ideale per qualsiasi altro regista. Per Reichardt, invece, sarà l’inizio di uno iato artistico lungo dodici anni. Totalmente alienata dalle dinamiche di pitching e networking – le leggi di compravendita dell'industria cinematografica – di Los Angeles, Reichardt sparisce dalla scena, e passa più di un decennio tra altri divani e cortometraggi in super8. Ha inizio così un lungo percorso di ricerca interiore ed esteriore, che la porterà infine ad approcciare il grande schermo una seconda volta. Con un budget di 30 mila dollari, ricavato per lo più dall’eredità lasciatagli da una zia, Reichardt convince lo scrittore Jonathan Raymond a trasformare uno dei suoi racconti in un lungometraggio, e così nasce Old Joy (2006). Nonostante il New York Times ne parli come uno dei migliori dell’anno, il film passa relativamente in sordina rispetto al primo film, e viene escluso da tutti i grandi festival. E in effetti, fra i due progetti c'è un abisso. Dopo i dodici anni d’incubazione, Reichardt sembra essere una regista completamente diversa. In River of Grass, Reichardt metteva in mostra in modo quasi sfrontato la sua capacità innata di fare cinema, di costruire inquadrature perfette, e di sovvertire le convenzioni del genere. Eppure, dietro a tutto ciò, si sente un vuoto, il silenzio di qualcuno che conosce il linguaggio cinematografico alla perfezione, ma non ha idea di cosa farsene. In Old Joy, il film viene spogliato da qualsiasi formalismo, fino a rimanere completamente nudo. La cinepresa non tocca quasi mai terra, mentre la narrativa e i dialoghi si fondono in un flusso quieto e uniforme, come se sgorgassero da una sorgente. E nella calma nasce la voce (o meglio, il sussurro) di un’autrice consapevole di ciò che vede, e ciò che vuole dire, una regista disposta a fare cinema solo alle proprie condizioni.
Reichardt ha una sensibilità particolare per il rapporto che esiste tra gli esseri umani e l’ambiente che li circonda. I suoi personaggi sono sempre soggetti alla loro terra, e le loro vite una piccola frazione di una realtà ben più ampia. Ispirata dai racconti di Jonathan Raymond e dalle fotografie di Justine Kurland, con Old Joy Reichardt rivolge lo sguardo verso una terra in cui il rapporto conflittuale tra uomo e natura ha radici molto profonde – l’Oregon, un luogo che nella storia del cinema è sinonimo soprattutto di Western.
Per la posizione geografica e le ostili condizioni ambientali, l’Oregon fu uno degli ultimi territori ad essere insediati dai coloni europei. Ufficialmente entrò a far parte degli Stati Uniti già nel 1819, ma solo nel 1842 ebbero inizio gli sforzi di popolare l'area, con la creazione della Pista dell’Oregon (Oregon Trail). Questa rotta migratoria, usata da coloni, cowboy, minatori e uomini d’affari, in viaggio alla ricerca di una vita migliore, divenne presto sinonimo di opportunità. Il processo di popolamento dell’Oregon ebbe luogo a discapito dei popoli nativi che già abitavano la zona, vittime degli obiettivi di “civilizzazione” posti dai coloni. Non è difficile capire perchè questa terra sia poi diventata un caposaldo del cinema Western, un genere creato appositamente con l'obiettivo di raccontare la nascita di una nazione, dando così forma ad una mitologia propriamente statunitense. Da Il grande sentiero a Là dove scende il fiume, la storia della colonizzazione dell’Oregon rappresenta una delle narrative più efficaci nel creare un’identità nazionale uniforme, laddove l’uniformità non aveva ragione di esistere. L’ideologia alla base del Western, e dunque dell’America come nazione, è la superiorità assoluta della civiltà rispetto alla natura selvaggia, e con questa il dovere morale di liberare la terra dal primitivismo. In questo senso, non c’è luogo più esemplificativo dell’Oregon, dove la guerra tra l’esercito statunitense e le tribù Sioux durò quasi 40 anni. L’unico vero cittadino americano diventa dunque una figura eroica senza nome – un uomo bianco, maschilista e xenofobo, che si contraddistingue per la sua innata capacità di fare giustizia. Di fronte alla vasta mitologia per lo più propagandistica che ha riscritto la storia di queste terre, il presente passa in secondo piano. Ed è qui che si crea un vuoto nell’immaginario americano, un vuoto che ora Kelly Reichardt sta provando a riempire.
In genere, i film Western presentano una versione manipolata dei fatti, in cui la vittoria dei coloni sulle tribù native segna la fine del conflitto, e l’inizio della prospera civiltà americana. Se è vero che in questo senso già dagli anni ‘50 si inizia a vedere un'evoluzione importante nel Western (vedi John Ford e Nicholas Ray, per citarne due), Reichardt è forse la prima a percepire questo momento storico in maniera opposta. Per Reichardt questa è la nascita di un conflitto, e non la risoluzione – l’infliggere di una ferita che non ha mai smesso di sanguinare. Ed è con il suo terzo film Wendy e Lucy che Reichardt inizia a scavare nell’eredità lasciata da quella ferita. Partendo nuovamente da un racconto di Jonathan Raymond, il film racconta la storia di Wendy (Michelle Williams) e il suo cane Lucy. Rimaste sfollate dopo un forte alluvione, le due decidono di mettersi in viaggio verso l’Alaska, in cerca di una vita migliore. Arrivata in una cittadina dell’Oregon, Wendy perde la macchina per un problema al motore, e poco dopo, mentre cerca di rubare delle provviste dal supermercato, Lucy sparisce. Il film non si preoccupa nè dell’inizio nè della fine del viaggio, ma solamente dei giorni in cui Wendy, senza soldi e senza cellulare, si trova a setacciare questo limbo di desolazione alla ricerca di Lucy. Reichardt propone una rivisitazione moderna di un pellegrino in viaggio attraverso la Pista dell’Oregon, in cui il viaggiatore, invece di subire le imboscate dei nativi, diventa ostaggio della burocrazia e della povertà istituzionalizzata. Negli occhi di Reichardt, il vuoto del parcheggio del centro commerciale è lo stesso vuoto del deserto, coperto da un sottile strato d’asfalto che si sta lentamente sgretolando. Il personaggio di Wendy non è poi così lontano dai vari Clint Eastwood – uno straniero in cerca di fortuna, che arrivato in una cittadina sperduta e dimenticata, rimane incastrato nelle dinamiche locali. Da un lato però, Eastwood rappresenta la legge, o meglio la giustizia assoluta al di là della legge. Wendy invece è vittima delle legge, dell’assurda burocrazia delle legge che con la giustizia ha ben poco a che fare. Il filo che li collega è sottile, eppure basta poco a rendersi conto che il sistema che oggi attanaglia la vita di Wendy è conseguenza diretta della fondazione di quell’America, basata sul principio che la giustizia non sarebbe mai stata uguale per tutti. Perché nonostante la costituzione dica il contrario, la realtà dei fatti è che l’uomo bianco, Clint Eastwood o John Wayne che sia, non ne è soggetto. Dunque è questa la civiltà che raccontava il mito – un sistema di oppressione dal quale è impossibile fuggire, e che continua ogni giorno a scavare le proprie radici in una terra tenuta in ostaggio. E se il ruolo del Western è quello di raccontare il rapporto tra la nazione americana e il territorio americano, allora Wendy e Lucy è un Western. Femminista, contemporaneo e antisistema, ma pur sempre un Western.
Con l’approdo di Wendy e Lucy a Cannes, quattordici anni dopo il debutto, Reichardt si guadagna finalmente la possibilità di iniziare a pensare in ‘grande’, e di farlo a modo suo. Con Raymond nuovamente alla scrittura, il quarto film Meek’s Cutoff è, non a caso, un Western in tutto o per tutto (o quasi). Ispirato ad una storia vera, il film racconta il viaggio della carovana guidata da Stephen Meek (Bruce Greenwood) attraverso il deserto dell’Oregon nel 1845. Arrivate notizie di varie imboscate per mano dei nativi sulle Blue Mountains, Meek convince un gruppo di coloni a seguirlo per una via alternativa alla Pista dell’Oregon, che gli permetterebbe di raggiungere le valli senza dover attraversare la temuta catena montuosa. Il viaggio sarebbe dovuto durare due settimane, e il film ha inizio quando la carovana si trova in cammino già da tre, e la paura di essersi persi nel deserto inizia a guadagnare terreno. Le cose cambiano quando i coloni si imbattono in un nativo (Rod Rondeaux), la cui presenza dà inizio a un gioco di potere che finirà per motivare l'ammutinamento di Emily Tetherow (Michelle Williams) e del resto della carovana nei confronti di Meek. Quello messo in scena da Reichardt è un vero e proprio quadro politico – non poi troppo distante dalla realtà odierna – in cui gli uomini si ostinano a negare la realtà dei fatti mettendo a rischio le loro stesse vite, pur di non ammettere di aver sbagliato. In una delle scene più riuscite del film, quando ormai è chiaro a tutti che il sentiero è stato smarrito, gli uomini si riuniscono attorno a Meek per decidere sul da farsi. Nel frattempo, le donne (e lo spettatore con esse) guardano da lontano, a braccia incrociate, in attesa di scoprire il loro destino. Non si riesce mai a sentire bene cosa gli uomini si stiano dicendo, le voci sono coperte dal vento e dalla distanza fisica tra loro e la cinepresa, ed è proprio questa distanza che Reichardt vuole evidenziare. Reichardt non si interessa ai personaggi che prendono le decisioni e che dunque guidano l’azione, ma a quelli che ne vengono esclusi. In pochi secondi, Reichardt riesce a riassumere la natura fallace del mito americano, mettendo a giudizio una nazione fondata sull’esclusione della donna. Pur rispettando i canoni Western per quanto riguarda l’ambientazione storica e la struttura narrativa, Meek’s Cutoff è un tentativo di sovvertire la bussola morale del genere e, con questa, la coscienza storica americana in generale. L’ostilità del deserto si mantiene tale durante tutta la durata del film, e più passano i minuti, più risulta chiaro che questa è una realtà che non gli appartiene, e che forse non gli apparterrà mai. Reichardt non concede ai propri personaggi la soddisfazione di arrivare a destinazione, e tanto meno la speranza di poter sopravvivere. Al contrario, è la sensazione di totale smarrimento il punto centrale del viaggio.
Il fotografo Robert Adams, che ha dedicato gran parte della sua carriera a documentare la trasformazione dei paesaggi dell’Ovest Americano, sulla ‘civilizzazione’ di queste terre dice: “L’Ovest è scomparso. Che cosa ne ha abbiamo fatto? Con cosa abbiamo sostituito queste grandi foreste? Cosa ci abbiamo guadagnato?”. Sono le stesse domande che si pone Reichardt, ed i suoi film sono spesso proprio questo – una domanda più che una risposta. La magnifica presenza dei paesaggi viene messa a confronto con la violenza architettonica causata dalla costante espansione degli esseri umani, e per Reichardt non è chiaro se queste due realtà riusciranno mai a coesistere. Nel 2013, esce quello che in certi sensi è il film più atipico nella filmografia della regista: Night Moves. In competizione alla settantesima edizione del festival di Venezia e, scritto ancora una volta da Raymond, il film vede un trio di ambientalisti (Jesse Eisenberg, Dakota Fanning, e Peter Sarsgaard) alla prese con l’esecuzione e le conseguenze di un attacco terroristico ad una diga nelle montagne Klamath, Oregon. L'esplosione della diga – che ricorda quella del ponte in Giù la Testa di Sergio Leone – dovrebbe essere un momento catartico per i tre attivisti, e invece si trasforma in un’asfissiante paranoia, quando la mattina dopo i giornali annunciano la scomparsa di un campeggiatore che si trovava nei paraggi durante l’attacco. Nel film la violenza umana, anche se motivata dalle giuste intenzioni, serve solo a continuare il ciclo di distruzione iniziato qualche secolo prima, e Reichardt sembra denunciare l’impossibilità di risolvere quel conflitto. L’obiettivo degli ambientalisti è quello di dare inizio alla ‘decivilizzazione’ dell’Ovest, un processo che possa restituire il potere alla terra stessa. Per Reichardt il problema va ben oltre, e ciò che mette in discussione non è il ruolo, ma la presenza in assoluto dell’essere umano tra quelle montagne.
E poi c’è Certain Women. Forse il film più riuscito della regista americana, con un cast di A-listers, premi e nomination un po’ ovunque, e in generale una maturità artistica travolgente. Il film racconta tre storie che, pur entrando in contatto tra di loro solo in maniera sporadica e casuale, mantengono una forte coesione tematica. Reichardt, che per la prima volta da River of Grass lascia l’Oregon, decide di cimentarsi in un’analisi del ruolo della donna all’interno, piuttosto che ai margini, della società americana. Le tre storie si svolgono attorno alla cittadina di Livingston, nel Montana, e oltre a quella di Jamie (Lily Gladstone) e Beth (Kristen Stewart) citata all’inizio dell’articolo, le altre due prendono come punto di partenza altri due dei pilastri tematici del Western: la giustizia, e la differenza tra questa e la legge; e l’appropriazione della terra. Il primo racconto segue Laura Wells (Laura Dern), un avvocato alle prese con un certo Fuller, un uomo vittima di un incidente sul posto di lavoro. Nonostante Laura gli spieghi varie volte che, avendo accettato un patteggiamento di poco valore subito dopo il fatto, Fuller ha perso qualsiasi tipo di leva legale, è costretta a riferirlo a un suo collega, questa volta uomo, perché finalmente Fuller gli creda. Fuller decide dunque di infiltrarsi negli uffici della sua ditta, prendendo in ostaggio prima un agente della sicurezza, e poi Laura. Ancora una volta, Reichardt mette in mostra un sistema giuridico creato appositamente per proteggere le dinamiche di sfruttamento che diedero inizio a questa nazione. Laura non può fare nulla per il suo cliente, ed è l’ultima persona ad avere una colpa, eppure è lei che finisce per essere presa in ostaggio. Non importa ciò che giusto e ciò che non lo è, alla fine il ciclo di sofferenza finisce per colpire sempre le stesse persone.
Più metaforico è invece il secondo racconto, con protagonista Michelle Williams (chi altri) nei panni di Gina. Gina, il marito Ryan (James LeGros) e la loro figlia adolescente (Sara Rodier) sono alle prese con la costruzione della loro nuova casa, in mezzo alle valli del Montana. Per farlo, Gina vuole convincere un vecchio residente della zona di nome Albert a vendergli la pietra arenaria in suo possesso. Durante la trattativa, Albert non sembra avere nessuna intenzione di parlare con Gina, e decide invece di rivolgersi sempre a Ryan. Albert accetta alla fine di vendergli la pietra, ma quando Gina torna con il furgone per caricarla, e prova a salutare l’uomo, lui la ignora ancora una volta. In questo segmento Reichardt mette in evidenza come nonostante Gina sia quella che prende le decisioni all’interno del nucleo familiare, la sua autorità non si estenda alla realtà circostante. Gina manca di capacità di acquisto, non perchè non se lo possa permettere economicamente, ma perché il suo essere donna non gli permette di accedere al sistema di cui è obbligata a fare parte. Non è chiaro come la pietra arenaria sia finita nel giardino di Albert, l’importante è che sia lui ad avere il potere di venderla. L’appropriazione dell’Ovest è simbolicamente riassunta in un ammasso di pietre, di cui, tra l’altro, Albert non fa nessun uso. Per Reichardt è chiaro che coloro che possiedono questa terra non sono gli stessi a cui appartiene veramente.
Che si tratti effettivamente di Western o meno, i film di Kelly Reichardt stanno ridefinendo il panorama cinematografico dell’American West. È come se le cineprese che erano solite inquadrare John Wayne e Gary Cooper fossero state dimenticate lì nel deserto, ancora in posizione, in attesa che il mondo cambiasse attorno ad esse, e che qualcuno tornasse a farle funzionare. Kelly Reichardt ha messo fine a quell’attesa, e ora, che piaccia o meno, ci sta raccontando l’eredità di quel mondo. Un'eredità che, per quanto distante dal sogno delle carovane che attraversarono la Pista dell’Oregon, finalmente sta prendendo coscienza delle proprie colpe. Il suo nuovo film First Cow sembrerebbe essere per temi e ambientazione l’erede diretto di Meek’s Cutoff, e dopo l’uscita negli Stati Uniti siamo in attesa che arrivi anche in Italia. Come Reichardt stessa, i suoi film non parlano ad alta voce, ma per chi fosse disposto a tendere l’orecchio sarà difficile smettere di ascoltare.