NC-148
09.05.2023
Thriller come forte emozione, eccitazione visiva, adrenalina, elettricità. Il corpo umano è perlopiù gestito dal corpo eterico: un campo aurico formato da strutture sottili che gestiscono le nostre altalenanti emozioni. Il cinema, fin dai suoi albori - e più precisamente dal 1895, quando i fratelli Lumière filmarono il treno della stazione di La Ciotat che si avvicinava minaccioso, pronto a bucare il telo dello schermo per finire in braccio agli spettatori - fissava già le fondamenta del meccanismo thrilling, l’anima della settima arte e di tutti i suoi generi a venire. Thrilling sta per emozione suscitata, una sorta d’innesto capace di toccare il sistema nervoso, condizionandolo. Quando siamo seduti su una poltrona, intenti a goderci lo spettacolo d’immagini e suoni che scorre sul grande schermo, abbiamo l’impressione di un moto interiore, inconsciamente ci spostiamo pur rimanendo fermi. Trattasi di una sensazione impercettibile eppure perfettamente centrata sul fulcro del film. Con il tempo, la narrazione di ordine drammaturgico sviluppa una consapevolezza tale dei meccanismi insiti nella suspense, da produrre delle sortite sensoriali ben oliate.
Si racconta che in quella sala, al Boulevard Des Capucines a Parigi, dove vennero proiettati i primi, brevissimi, filmati dei famigerati fratelli francesi, una buona parte del pubblico si alzò terrorizzata e fuggì via, preda della sensazione di venir travolta da un disastro ferroviario di proporzioni spettacolari. Il treno destò una netta sensazione, innescando il brivido dell’imminente impatto tra macchina e corpo (quello del voyeur che già comprende a livello psicofisico, di poter essere parte integrante del grande show). La paura, prima ancora che i film dell’orrore venissero inventati , aveva già mietuto le prime vittime. Il potenziale del vedere film in sala, non a caso, è un continuo sentirsi travolti dalla variabile di emozioni incontrollabili. Il pubblico comincia a somatizzare e reagisce saltando sulla poltrona, tremando, sbottando, piangendo, ridendo per tentare di esorcizzare, commentando nel tentativo di anticipare le mosse dell’elemento di pericolo o dell’anomalia, con il vicino di posto o la propria coscienza.
Con il tempo, grazie soprattutto ad un certo Alfred Hitchcock - sulla breccia dal 1925 al 1976, una carriera che clamorosamente fende tutte le innovazioni cinematografiche - l’etimologia thriller viene codificata come genere a sé stante. A seguito della nascita del maestro per eccellenza, tutti i cineasti della storia del cinema, chi più e chi meno, dichiarano apertamente, dimostrandolo attraverso le loro opere e in alcuni casi anche per mezzo della loro voce, di essergli debitori. S’innesca così una vera e propria decodificazione delle caratteristiche del genere, un’estremizzazione del giallo e/o noir, capace di produrre forti emozioni non limitate solo da un morbido intrigo inteso a scoprire il colpevole o l’assassino (vedi il giallo), ma una moltiplicazione di moltissimi sottogeneri capaci di esaltarne la vitalità. Prendono forma così il thriller-horror, il fanta-thriller, lo spy-thriller, l’action-thriller, il legal-thriller, romantic-thriller, techno-thriller e via espandendo fino ai giorni nostri, in sempre maggiori aperture verso altri generi e sottogeneri, in un’infinita, e inevitabile, contaminazione di temi universali quali la deriva politica e i danni di ordine medico-scientifico.
Prenderemo come esempio dei film che essenzialmente rappresentano le caratteristiche dei sottogeneri sopracitati. Ma non si può, in primis, non comprendere il cuore nevralgico dell’ideologia che sta dietro al cinema di Hitchcock, lo stratagemma invadente. Per mezzo del MacGuffin, un espediente ideato da Angus MacPhail (uno degli sceneggiatori del regista), si fa in modo che l’attenzione degli spettatori si sposti ripetutamente sul percorso che un oggetto - che compare in scena e sul quale l’occhio del regista dispone la propria lente d’ingrandimento per indirizzare il plot - compie. Pensiamo alla busta con i 40.000 dollari visibile in Psycho (1960), o al mistero della valigetta in Pulp Fiction (1994), o ancora alla canzone di Sea of Love - titolo da noi tradotto in Seduzione pericolosa (1989), film misconosciuto a torto, trattandosi di uno dei migliori thriller di sempre - presente su quel vinile che il killer ascolta ogni volta che compie i suoi brutali omicidi. La cosa fondamentale del McGuffin è l’effetto che deve produrre nel compimento delle azioni dei personaggi. Non è la sua natura ad essere fondamentale, tant’è che spesso e volentieri scompare dalla scena per lasciare il posto ad altri indizi o particolari. Una trovata ingegnosa che caratterizza gran parte dei film. Una scoperta che risulta essere come un tesoro da individuare nel corso della narrazione e che sorprendentemente fa avvicinare, talvolta, ai meccanismi del thriller, persino i film sentimentali e alcune commedie.
Pensiamo, ad esempio, al bellissimo finale (non finale o finale aperto) del capolavoro di Mike Nichols The Graduate (Il Laureato, 1967), in cui Benjamin, interpretato da un Dustin Hoffman al suo esordio come protagonista, irrompe in chiesa durante il matrimonio della sua amata, per portarsela via da tutte le convenzioni e ipocrisie borghesi di cui sono intessuti gli atteggiamenti degli adulti, per fuggire lestamente su un autobus, verso lidi sconosciuti, sotto lo sguardo curioso di una serie di passeggeri increduli. Un film che s’innesta perfettamente nei tumulti sessantottini dell’epoca. Il modo in cui Benjamin corre contro (e incontro) quella che sembra essere la sua unica ragione di vita, non può non attivare una tensione che creativamente lotta con la confusione d’ideali ben raccontati. Finali come questo vengono spesso citati in diverse altre commedie romantiche degli anni ‘80, come Secret Admirer (1985) di David Greenwalt, spassoso e dal finale emozionante, che si conclude con un tuffo in mare a seguito di una lunga rincorsa verso colei che si scopre essere, dopo una serie di gag tipiche delle commedie degli equivoci, l’innamorata. Oppure Love and Other Drugs – Amore e altri rimedi (2010) dove il personaggio interpretato da Jake Gyllenhaal ferma addirittura l’autobus dove l’oggetto dei suoi desideri è tra i passeggeri, citazione ancora più esplicita. Le commedie assurde e grottesche dei fratelli Coen, sono dei veri e propri esemplari di gioco e seduzione con i meccanismi del thriller, a partire già dall’esordio, l’ironico e beffardo Blood Simple (1984), ispirato al romanzo Il postino suona sempre due volte. Nei loro film, i personaggi dicono e fanno cose fuori dell’ordinario, inconsapevoli delle conseguenze che producono. Gli idioti al centro dello spassoso Burn After Reading (2008) sono l’emblema di una frenetica follia, strascicata da tutta una serie di eventi catastrofici tali da sconvolgere i piani alti del potere.
In Hitchcock permane invece una vana consapevolezza che fa compiere dei rischi, celando la verità del disagio di natura interiore dietro azioni apparentemente confortanti (vedi la figura del misterioso zio in Shadow of a Doubt). Il McGuffin in realtà è il nulla. Un espediente che depista le attenzioni del pubblico per ingannarlo. In Mulholland Drive (David Lynch, 2001) è una misteriosa scatola blu. In Il mistero del falco (John Huston, 1941) - lungometraggio capostipite del noir - è una statuetta di falcone maltese d’inestimabile valore, in Citizen Kane (Quarto potere, 1941) si tratta di una palla di vetro che, in punto di morte, il magnate della stampa Kane, interpretato dallo stesso gigione-regista Orson Welles, tiene in mano mentre pronuncia la parola “Rosebud”. Sono forme iconiche astute, utili a ribaltare i fatti e a far sì che la storia rimbalzi avanti e indietro nello spazio e nel tempo (flashback e flashforward), affinché la sorpresa finale possa poi sortire il suo atteso e affilato effetto.
Su questo frangente, Brian De Palma è un altro fuoriclasse, il figliastro spudorato del maestro, che nei suoi film riscrive letteralmente le sue dinamiche di racconto. A partire proprio dal geniale capolavoro Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) - vera e propria metafora del costruire storie con lo sguardo del regista, autore sul proscenio di un immaginario teatrale di partenza - dal quale De Palma parte, prendendolo come punto di riferimento in Body Double (Omicidio a luci rosse, 1984), per spostare poi la sua attenzione sul tema del doppio, filtrato da un’estetica anni ‘80 fatta di hit musicali che cavalcano l’onda della seduzione, finanche dell’erotismo. I brividi si rincorrono susseguendosi ai virtuosismi tecnici, denotati da lunghi piani sequenza e movimenti di macchina di esorbitante centratura. Il travestimento, per De Palma, è uno stratagemma piuttosto efficace sin da Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980), maggiormente influenzato dalle prime opere di Dario Argento (altro innovatore del genere), fino al bizzarro pastrocchio Raising Cain (Doppia personalità, 1992), tutto sommato divertente ma che, nell’amalgama dei diversi elementi di cui De Palma si è sempre avvalso, implode nella confusione e nella reiterazione delle costanti invertite. L’anno successivo De Palma, conscio dell’ultimo fallimento, cambia direzione e registro firmando quello che è probabilmente il suo capolavoro: Carlito’s Way (1993), con un Al Pacino in stato di grazia e una struttura narrativa a spirale, rivelatrice di una fatalità inconsciamente adombrata, ammantata di utopici sogni.
Ma veniamo ad una breve disamina di film emblematici, quei sottogeneri sopracitati, fondamentali per comprendere la natura profonda del thriller. Angel Heart (Alan Parker, 1987) mette in scena in maniera viscerale, traendo spunto a livello d’iconografia dagli stilemi dei film noir, una spirale demoniaca nella quale Harry Angel, il detective protagonista magnificamente interpretato da Mickey Rourke, sembra viaggiare in terapia con se stesso e una memoria ballerina. La capacità del regista e di un cast formato anche da Robert De Niro (Louise Cypher), Charlotte Rampling e Lisa Bonet, è quella di far sì che l’occhio dello spettatore si addentri a poco a poco, con piccoli dettagli e palesi indizi rivelatori, nello psicodramma nel quale si trova catapultata la sofferente anima del protagonista, si direbbe un angelo caduto dentro una realtà parallela da lui stesso generata (invero creata dal suo alias Johnny Favorite). La credibilità della narrazione, avvincente e ricca di tensione, che ti acchiappa a livello nervoso, è talmente alta da trascendere sia gli stilemi noir che quelli horror, attingendovi per mezzo di abbigliamento, ambientazioni, ruoli predefiniti secondo matrice, Lucifero, peccati, sanguigni rimorsi e spruzzi di grand guignol.
Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, Don Siegel, 1956) è un thriller fantascientifico che al pari del suo encomiabile remake - Terrore dallo spazio profondo (Philip Kaufman, 1978) - che vira in maniera più decisa sul frangente fanta-horror, crea suspense avvalendosi delle caratteristiche di un thriller dove la minaccia aliena viene vista come il tentativo di scuotere le coscienze di un’umanità sempre più preda del cinismo e della rincorsa ad ideali alienanti. C’è chi vi ha visto dietro ideologie politiche, ma l’obiettivo fu quello, in verità, di criticare fermamente un’abulica concezione della vita. Realizzato a basso costo e quasi del tutto privo di effetti speciali, il film si fa ammirare per l’atmosfera attanagliante che Siegel riesce a generare, tessendo una trama di fughe costanti da una minaccia che si direbbe essere praticamente invisibile - gli ultracorpi non sono altro che doppioni degli stessi esseri umani - o presente, per l’appunto, soltanto nel proprio Sé. Uomini in fuga da loro stessi, dalle loro stesse figure o sembianze. Una riflessione decisamente più morale che politica. Il film è considerato uno dei migliori esempi di fantascienza, quella cosiddetta di serie B dell’epoca, in seguito oggetto anche di un ulteriore remake - meno riuscito dell’azzeccato, e forse ancor più inquietante, lungometraggio originale - ad opera di Abel Ferrara.
I tre giorni del condor (Sydney Pollack, 1975) è invece un capolavoro di spionaggio che si incastona perfettamente nel mezzo degli anni Settanta, dentro quella paranoia, tutta americana, che aveva cominciato a cogliere nel segno, figlia di avvenimenti politici catalizzatori e di una serie di disordini di natura sociale (o per meglio dire, sociopatica). Joseph Turner, detto il Condor, che rivela una delle interpretazioni (se non la) più convincenti di Robert Redford, è un impiegato che lavora in una delle sedi newyorkesi dei Servizi Segreti Americani. A seguito di un’irruzione da parte di alcuni misteriosi individui che uccidono praticamente tutti gli impiegati dell’ufficio (per una pura coincidenza, Joseph è l’unico a salvarsi), si mette in fuga, letteralmente braccato, da un meticoloso sicario (impersonato dal glaciale Max Von Sydow) che gli dà la caccia. La sensazione di non essere al sicuro in qualsiasi situazione, che sia interna, nell’apparente riparo di un inavvertito focolare domestico (la casa rifugio della donna), o esterna, per le strade di una New York minacciosa, viene perfettamente restituita grazie ad una sceneggiatura (Lorenzo Semple Jr. e David Rayfiel) e una regia esemplari, connaturate da intensa emotività nervosa e sequenze di raffinata e non stilizzata violenza.
Ronin (John Frankenheimer, 1997), thriller d’azione, è un vero e proprio schizzo, veloce e adrenalinico, di caratteri in corsa per la parvenza di una gloria economica. Il classico colpo (o heist-movie). Le sequenze di azione sono state ottimamente girate con accelerazioni e stringatezze tipiche della vecchia scuola, e la narrazione sa prendersi le sue pause utili ad approfondire le motivazioni dietro ai personaggi, ben resi dalle interpretazioni di un cast di livello: De Niro, Jean Reno, Natasha McElhone, Stellan Skarsgard, Sean Bean, Michael Lonsdale. Anche in questo caso, come per molti altri film, una valigetta diviene il fulcro dell’azione, il motivo scatenante. Una valigetta protetta da sofisticati sistemi di sicurezza. Il film è scritto da David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore, anche regista, non a caso di discreti thriller psicologici come House of Games (1987), Homicide (1991), Heist (2001).
Codice d’onore (Rob Reiner, 1992) si lascia ricordare, oltre che per una sceneggiatura di ferro, per le straordinarie interpretazioni di Tom Cruise, Jack Nicholson e Demi Moore. L’ambito è quello del thriller legale, generatore anche di altri film thriller, impastoiati con il giallo, come Suspect (Peter Yates, 1987), o la commedia, My Cousin Vinny (Jonathan Lynn, 1992), il cui padrino è pur sempre l’ennesimo Hitchcock de Il caso Paradine (1947). Il film di Reiner si svolge in un ambiente opprimente, facilitato da un impianto di ascendenza teatrale, che ci dice tanto riguardo le dure regole militari e la spietatezza ideologica della Corte Marziale. Si deve far luce sul caso dell’omicidio di un marine all’interno della base americana di Guantanamo, frutto di un’azione disciplinare denominata “codice rosso”, ordinata da uno spietato colonnello. Il film si lascia ammirare a colpi di difese astutamente preparate e disposte dal protagonista, il tenente Daniel Kaffee (Tom Cruise) che con coraggio e determinazione arriva a scontrarsi con la corruzione e l’ingiustizia. Si ha costantemente la sensazione di un controllo perverso che arriva dall’alto, dai piani di potere, e si inizia presto a parteggiare con una gradevole sensazione di giustizia. Ci si mette nelle mani di Daniel, convinti che grazie alla sua incorreggibile tenacia, si possa riuscire a far luce sul caso. E sulla fiducia, non ci si può sbagliare. Ammirabili anche le parti più riflessive, quelle nelle quali i difensori del povero innocente, cercano privatamente, nel prepararsi al processo, di studiare strategicamente le soluzioni migliori dalla difesa. Una solidissima struttura e un affiatato gioco di squadra, contribuiscono simultaneamente alla esemplare riuscita del film, forse il più potente fra quelli appartenenti al sottogenere processuale.
Attrazione fatale (Adrian Lyne, 1987) rientra energicamente nella trama di disordine romantico. La classica storia d’amore, nella quale due coniugi entrano in crisi a seguito del tradimento di lui con una squinternata, ma seducente, dirigente editoriale conosciuta ad un party. Inconsapevole dei pericoli scaturiti dall’incontro con un’anima irrequieta e severamente in pena, Dan Gallagher (Michael Douglas al meglio delle sue capacità), procuratore legale di un importante studio di New York, si troverà ad affrontare gravi conseguenze. Dan crede che si tratti soltanto della classica avventura passeggera, ma la traumatizzata Alex è di parere opposto. Comincia a perseguitarlo, mettendo a rischio la sua incolumità e quella dei suoi familiari. Si solidarizza rapidamente con la famiglia, come la stessa Alex sembra voglia fare, rivelandosi poi il malcelato tentativo di provocare e sottomettere Dan. È attraverso questa dinamica che si può riconoscere una sottile e acida critica nei riguardi della credibilità e rapidità con la quale, oggi ancor più di allora, si mette in piedi una famiglia.
The Lawnmower Man (Il tagliaerbe, Brett Leonard, 1992), liberamente tratto da un racconto di Stephen King, nell’ambito del particolare techno-thriller (thriller tecnologico), narra la storia di un medico dei laboratori per la ricerca della tecnologia cibernetica rapportata al funzionamento del cervello umano, che decide di sperimentare i frutti delle sue assidue ricerche nei riguardi di un, diversamente abile, giardiniere di mestiere. Gli effetti saranno devastanti, mettendo a repentaglio la vita di diverse persone e di conseguenza, persino la sua stessa salute. Mente umana e tecnologia sono due binari che si scontrano in maniera sconvolgente, tramutando le, tutto sommato, tranquille esistenze di due uomini e di coloro che sono loro vicini, in un incubo ad occhi letteralmente sbarrati.
Per North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) occorre fare un ultimo salto indietro in modo da riassumere, e focalizzare, l’essenza della dinamica thrilling nella storia dei film. In un plot ben ingegnato, di mascherature e doppi, l’agente di pubblicità Roger Thornhill, interpretato da Cary Grant, si rende conto di essere stato catapultato in una girandola impazzita di avvenimenti. E lo stesso si può dire del pubblico, che ammira la maestria con cui Hitchcock riesce a coinvolgerlo raccontando una storia che è un abilissimo intrigo di suspense, mistero e spionaggio.
Non è l’unico film con cui il cineasta si dà all’avventura. Gli esempi sono innumerevoli e si tratta sempre di vicissitudini diverse. Quello che però rende, più di ogni altra cosa, l’esempio migliore di film di genere thriller, è l’esercizio del brivido, innescato da contesti ambientali che ne esaltano le strategie della suspense. Si parte dal mistero, per giungere poi ad uno svelamento. La verità viene a galla a poco a poco, e le conseguenze sono piuttosto elettrizzanti. Roger viene scaraventato su più piani in diversi contesti figurativamente rappresentativi ed esemplari. Si passa da una prateria, inseguito da un biplano che prende lunghe rincorse (una vera e propria strategia della suspense che fa leva sul tempo e sul silenzio), per arrivare ad una spettacolare arrampicata finale sui ritratti dei presidenti americani scolpiti sui monti Rushmore.
Questi continui spostamenti dell'azione fanno capire chiaramente che è il contesto nel quale l’uomo si trova, a innescare il meccanismo del brivido. E può valere tanto per una grande casa nel quale si viene intrappolati, quanto per un spazio vasto, apparentemente privo d’insidie. Un po' il discorso che fa Christopher Nolan nel suo sottovalutato Insomnia (2002), nel quale è l’Alaska, con la sua assenza di oscurità, a donar vigore a quel che proprio nel buio della notte, rintraccia occasioni svisceranti. Torbide e sconvolgenti reazioni/emozioni, nevralgie di un genere ponte che dissemina molecole, come schegge impazzite, di tutti i generi esistenti.
NC-148
09.05.2023
Thriller come forte emozione, eccitazione visiva, adrenalina, elettricità. Il corpo umano è perlopiù gestito dal corpo eterico: un campo aurico formato da strutture sottili che gestiscono le nostre altalenanti emozioni. Il cinema, fin dai suoi albori - e più precisamente dal 1895, quando i fratelli Lumière filmarono il treno della stazione di La Ciotat che si avvicinava minaccioso, pronto a bucare il telo dello schermo per finire in braccio agli spettatori - fissava già le fondamenta del meccanismo thrilling, l’anima della settima arte e di tutti i suoi generi a venire. Thrilling sta per emozione suscitata, una sorta d’innesto capace di toccare il sistema nervoso, condizionandolo. Quando siamo seduti su una poltrona, intenti a goderci lo spettacolo d’immagini e suoni che scorre sul grande schermo, abbiamo l’impressione di un moto interiore, inconsciamente ci spostiamo pur rimanendo fermi. Trattasi di una sensazione impercettibile eppure perfettamente centrata sul fulcro del film. Con il tempo, la narrazione di ordine drammaturgico sviluppa una consapevolezza tale dei meccanismi insiti nella suspense, da produrre delle sortite sensoriali ben oliate.
Si racconta che in quella sala, al Boulevard Des Capucines a Parigi, dove vennero proiettati i primi, brevissimi, filmati dei famigerati fratelli francesi, una buona parte del pubblico si alzò terrorizzata e fuggì via, preda della sensazione di venir travolta da un disastro ferroviario di proporzioni spettacolari. Il treno destò una netta sensazione, innescando il brivido dell’imminente impatto tra macchina e corpo (quello del voyeur che già comprende a livello psicofisico, di poter essere parte integrante del grande show). La paura, prima ancora che i film dell’orrore venissero inventati , aveva già mietuto le prime vittime. Il potenziale del vedere film in sala, non a caso, è un continuo sentirsi travolti dalla variabile di emozioni incontrollabili. Il pubblico comincia a somatizzare e reagisce saltando sulla poltrona, tremando, sbottando, piangendo, ridendo per tentare di esorcizzare, commentando nel tentativo di anticipare le mosse dell’elemento di pericolo o dell’anomalia, con il vicino di posto o la propria coscienza.
Con il tempo, grazie soprattutto ad un certo Alfred Hitchcock - sulla breccia dal 1925 al 1976, una carriera che clamorosamente fende tutte le innovazioni cinematografiche - l’etimologia thriller viene codificata come genere a sé stante. A seguito della nascita del maestro per eccellenza, tutti i cineasti della storia del cinema, chi più e chi meno, dichiarano apertamente, dimostrandolo attraverso le loro opere e in alcuni casi anche per mezzo della loro voce, di essergli debitori. S’innesca così una vera e propria decodificazione delle caratteristiche del genere, un’estremizzazione del giallo e/o noir, capace di produrre forti emozioni non limitate solo da un morbido intrigo inteso a scoprire il colpevole o l’assassino (vedi il giallo), ma una moltiplicazione di moltissimi sottogeneri capaci di esaltarne la vitalità. Prendono forma così il thriller-horror, il fanta-thriller, lo spy-thriller, l’action-thriller, il legal-thriller, romantic-thriller, techno-thriller e via espandendo fino ai giorni nostri, in sempre maggiori aperture verso altri generi e sottogeneri, in un’infinita, e inevitabile, contaminazione di temi universali quali la deriva politica e i danni di ordine medico-scientifico.
Prenderemo come esempio dei film che essenzialmente rappresentano le caratteristiche dei sottogeneri sopracitati. Ma non si può, in primis, non comprendere il cuore nevralgico dell’ideologia che sta dietro al cinema di Hitchcock, lo stratagemma invadente. Per mezzo del MacGuffin, un espediente ideato da Angus MacPhail (uno degli sceneggiatori del regista), si fa in modo che l’attenzione degli spettatori si sposti ripetutamente sul percorso che un oggetto - che compare in scena e sul quale l’occhio del regista dispone la propria lente d’ingrandimento per indirizzare il plot - compie. Pensiamo alla busta con i 40.000 dollari visibile in Psycho (1960), o al mistero della valigetta in Pulp Fiction (1994), o ancora alla canzone di Sea of Love - titolo da noi tradotto in Seduzione pericolosa (1989), film misconosciuto a torto, trattandosi di uno dei migliori thriller di sempre - presente su quel vinile che il killer ascolta ogni volta che compie i suoi brutali omicidi. La cosa fondamentale del McGuffin è l’effetto che deve produrre nel compimento delle azioni dei personaggi. Non è la sua natura ad essere fondamentale, tant’è che spesso e volentieri scompare dalla scena per lasciare il posto ad altri indizi o particolari. Una trovata ingegnosa che caratterizza gran parte dei film. Una scoperta che risulta essere come un tesoro da individuare nel corso della narrazione e che sorprendentemente fa avvicinare, talvolta, ai meccanismi del thriller, persino i film sentimentali e alcune commedie.
Pensiamo, ad esempio, al bellissimo finale (non finale o finale aperto) del capolavoro di Mike Nichols The Graduate (Il Laureato, 1967), in cui Benjamin, interpretato da un Dustin Hoffman al suo esordio come protagonista, irrompe in chiesa durante il matrimonio della sua amata, per portarsela via da tutte le convenzioni e ipocrisie borghesi di cui sono intessuti gli atteggiamenti degli adulti, per fuggire lestamente su un autobus, verso lidi sconosciuti, sotto lo sguardo curioso di una serie di passeggeri increduli. Un film che s’innesta perfettamente nei tumulti sessantottini dell’epoca. Il modo in cui Benjamin corre contro (e incontro) quella che sembra essere la sua unica ragione di vita, non può non attivare una tensione che creativamente lotta con la confusione d’ideali ben raccontati. Finali come questo vengono spesso citati in diverse altre commedie romantiche degli anni ‘80, come Secret Admirer (1985) di David Greenwalt, spassoso e dal finale emozionante, che si conclude con un tuffo in mare a seguito di una lunga rincorsa verso colei che si scopre essere, dopo una serie di gag tipiche delle commedie degli equivoci, l’innamorata. Oppure Love and Other Drugs – Amore e altri rimedi (2010) dove il personaggio interpretato da Jake Gyllenhaal ferma addirittura l’autobus dove l’oggetto dei suoi desideri è tra i passeggeri, citazione ancora più esplicita. Le commedie assurde e grottesche dei fratelli Coen, sono dei veri e propri esemplari di gioco e seduzione con i meccanismi del thriller, a partire già dall’esordio, l’ironico e beffardo Blood Simple (1984), ispirato al romanzo Il postino suona sempre due volte. Nei loro film, i personaggi dicono e fanno cose fuori dell’ordinario, inconsapevoli delle conseguenze che producono. Gli idioti al centro dello spassoso Burn After Reading (2008) sono l’emblema di una frenetica follia, strascicata da tutta una serie di eventi catastrofici tali da sconvolgere i piani alti del potere.
In Hitchcock permane invece una vana consapevolezza che fa compiere dei rischi, celando la verità del disagio di natura interiore dietro azioni apparentemente confortanti (vedi la figura del misterioso zio in Shadow of a Doubt). Il McGuffin in realtà è il nulla. Un espediente che depista le attenzioni del pubblico per ingannarlo. In Mulholland Drive (David Lynch, 2001) è una misteriosa scatola blu. In Il mistero del falco (John Huston, 1941) - lungometraggio capostipite del noir - è una statuetta di falcone maltese d’inestimabile valore, in Citizen Kane (Quarto potere, 1941) si tratta di una palla di vetro che, in punto di morte, il magnate della stampa Kane, interpretato dallo stesso gigione-regista Orson Welles, tiene in mano mentre pronuncia la parola “Rosebud”. Sono forme iconiche astute, utili a ribaltare i fatti e a far sì che la storia rimbalzi avanti e indietro nello spazio e nel tempo (flashback e flashforward), affinché la sorpresa finale possa poi sortire il suo atteso e affilato effetto.
Su questo frangente, Brian De Palma è un altro fuoriclasse, il figliastro spudorato del maestro, che nei suoi film riscrive letteralmente le sue dinamiche di racconto. A partire proprio dal geniale capolavoro Rear Window (La finestra sul cortile, 1954) - vera e propria metafora del costruire storie con lo sguardo del regista, autore sul proscenio di un immaginario teatrale di partenza - dal quale De Palma parte, prendendolo come punto di riferimento in Body Double (Omicidio a luci rosse, 1984), per spostare poi la sua attenzione sul tema del doppio, filtrato da un’estetica anni ‘80 fatta di hit musicali che cavalcano l’onda della seduzione, finanche dell’erotismo. I brividi si rincorrono susseguendosi ai virtuosismi tecnici, denotati da lunghi piani sequenza e movimenti di macchina di esorbitante centratura. Il travestimento, per De Palma, è uno stratagemma piuttosto efficace sin da Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980), maggiormente influenzato dalle prime opere di Dario Argento (altro innovatore del genere), fino al bizzarro pastrocchio Raising Cain (Doppia personalità, 1992), tutto sommato divertente ma che, nell’amalgama dei diversi elementi di cui De Palma si è sempre avvalso, implode nella confusione e nella reiterazione delle costanti invertite. L’anno successivo De Palma, conscio dell’ultimo fallimento, cambia direzione e registro firmando quello che è probabilmente il suo capolavoro: Carlito’s Way (1993), con un Al Pacino in stato di grazia e una struttura narrativa a spirale, rivelatrice di una fatalità inconsciamente adombrata, ammantata di utopici sogni.
Ma veniamo ad una breve disamina di film emblematici, quei sottogeneri sopracitati, fondamentali per comprendere la natura profonda del thriller. Angel Heart (Alan Parker, 1987) mette in scena in maniera viscerale, traendo spunto a livello d’iconografia dagli stilemi dei film noir, una spirale demoniaca nella quale Harry Angel, il detective protagonista magnificamente interpretato da Mickey Rourke, sembra viaggiare in terapia con se stesso e una memoria ballerina. La capacità del regista e di un cast formato anche da Robert De Niro (Louise Cypher), Charlotte Rampling e Lisa Bonet, è quella di far sì che l’occhio dello spettatore si addentri a poco a poco, con piccoli dettagli e palesi indizi rivelatori, nello psicodramma nel quale si trova catapultata la sofferente anima del protagonista, si direbbe un angelo caduto dentro una realtà parallela da lui stesso generata (invero creata dal suo alias Johnny Favorite). La credibilità della narrazione, avvincente e ricca di tensione, che ti acchiappa a livello nervoso, è talmente alta da trascendere sia gli stilemi noir che quelli horror, attingendovi per mezzo di abbigliamento, ambientazioni, ruoli predefiniti secondo matrice, Lucifero, peccati, sanguigni rimorsi e spruzzi di grand guignol.
Invasion of the Body Snatchers (L’invasione degli ultracorpi, Don Siegel, 1956) è un thriller fantascientifico che al pari del suo encomiabile remake - Terrore dallo spazio profondo (Philip Kaufman, 1978) - che vira in maniera più decisa sul frangente fanta-horror, crea suspense avvalendosi delle caratteristiche di un thriller dove la minaccia aliena viene vista come il tentativo di scuotere le coscienze di un’umanità sempre più preda del cinismo e della rincorsa ad ideali alienanti. C’è chi vi ha visto dietro ideologie politiche, ma l’obiettivo fu quello, in verità, di criticare fermamente un’abulica concezione della vita. Realizzato a basso costo e quasi del tutto privo di effetti speciali, il film si fa ammirare per l’atmosfera attanagliante che Siegel riesce a generare, tessendo una trama di fughe costanti da una minaccia che si direbbe essere praticamente invisibile - gli ultracorpi non sono altro che doppioni degli stessi esseri umani - o presente, per l’appunto, soltanto nel proprio Sé. Uomini in fuga da loro stessi, dalle loro stesse figure o sembianze. Una riflessione decisamente più morale che politica. Il film è considerato uno dei migliori esempi di fantascienza, quella cosiddetta di serie B dell’epoca, in seguito oggetto anche di un ulteriore remake - meno riuscito dell’azzeccato, e forse ancor più inquietante, lungometraggio originale - ad opera di Abel Ferrara.
I tre giorni del condor (Sydney Pollack, 1975) è invece un capolavoro di spionaggio che si incastona perfettamente nel mezzo degli anni Settanta, dentro quella paranoia, tutta americana, che aveva cominciato a cogliere nel segno, figlia di avvenimenti politici catalizzatori e di una serie di disordini di natura sociale (o per meglio dire, sociopatica). Joseph Turner, detto il Condor, che rivela una delle interpretazioni (se non la) più convincenti di Robert Redford, è un impiegato che lavora in una delle sedi newyorkesi dei Servizi Segreti Americani. A seguito di un’irruzione da parte di alcuni misteriosi individui che uccidono praticamente tutti gli impiegati dell’ufficio (per una pura coincidenza, Joseph è l’unico a salvarsi), si mette in fuga, letteralmente braccato, da un meticoloso sicario (impersonato dal glaciale Max Von Sydow) che gli dà la caccia. La sensazione di non essere al sicuro in qualsiasi situazione, che sia interna, nell’apparente riparo di un inavvertito focolare domestico (la casa rifugio della donna), o esterna, per le strade di una New York minacciosa, viene perfettamente restituita grazie ad una sceneggiatura (Lorenzo Semple Jr. e David Rayfiel) e una regia esemplari, connaturate da intensa emotività nervosa e sequenze di raffinata e non stilizzata violenza.
Ronin (John Frankenheimer, 1997), thriller d’azione, è un vero e proprio schizzo, veloce e adrenalinico, di caratteri in corsa per la parvenza di una gloria economica. Il classico colpo (o heist-movie). Le sequenze di azione sono state ottimamente girate con accelerazioni e stringatezze tipiche della vecchia scuola, e la narrazione sa prendersi le sue pause utili ad approfondire le motivazioni dietro ai personaggi, ben resi dalle interpretazioni di un cast di livello: De Niro, Jean Reno, Natasha McElhone, Stellan Skarsgard, Sean Bean, Michael Lonsdale. Anche in questo caso, come per molti altri film, una valigetta diviene il fulcro dell’azione, il motivo scatenante. Una valigetta protetta da sofisticati sistemi di sicurezza. Il film è scritto da David Mamet, drammaturgo e sceneggiatore, anche regista, non a caso di discreti thriller psicologici come House of Games (1987), Homicide (1991), Heist (2001).
Codice d’onore (Rob Reiner, 1992) si lascia ricordare, oltre che per una sceneggiatura di ferro, per le straordinarie interpretazioni di Tom Cruise, Jack Nicholson e Demi Moore. L’ambito è quello del thriller legale, generatore anche di altri film thriller, impastoiati con il giallo, come Suspect (Peter Yates, 1987), o la commedia, My Cousin Vinny (Jonathan Lynn, 1992), il cui padrino è pur sempre l’ennesimo Hitchcock de Il caso Paradine (1947). Il film di Reiner si svolge in un ambiente opprimente, facilitato da un impianto di ascendenza teatrale, che ci dice tanto riguardo le dure regole militari e la spietatezza ideologica della Corte Marziale. Si deve far luce sul caso dell’omicidio di un marine all’interno della base americana di Guantanamo, frutto di un’azione disciplinare denominata “codice rosso”, ordinata da uno spietato colonnello. Il film si lascia ammirare a colpi di difese astutamente preparate e disposte dal protagonista, il tenente Daniel Kaffee (Tom Cruise) che con coraggio e determinazione arriva a scontrarsi con la corruzione e l’ingiustizia. Si ha costantemente la sensazione di un controllo perverso che arriva dall’alto, dai piani di potere, e si inizia presto a parteggiare con una gradevole sensazione di giustizia. Ci si mette nelle mani di Daniel, convinti che grazie alla sua incorreggibile tenacia, si possa riuscire a far luce sul caso. E sulla fiducia, non ci si può sbagliare. Ammirabili anche le parti più riflessive, quelle nelle quali i difensori del povero innocente, cercano privatamente, nel prepararsi al processo, di studiare strategicamente le soluzioni migliori dalla difesa. Una solidissima struttura e un affiatato gioco di squadra, contribuiscono simultaneamente alla esemplare riuscita del film, forse il più potente fra quelli appartenenti al sottogenere processuale.
Attrazione fatale (Adrian Lyne, 1987) rientra energicamente nella trama di disordine romantico. La classica storia d’amore, nella quale due coniugi entrano in crisi a seguito del tradimento di lui con una squinternata, ma seducente, dirigente editoriale conosciuta ad un party. Inconsapevole dei pericoli scaturiti dall’incontro con un’anima irrequieta e severamente in pena, Dan Gallagher (Michael Douglas al meglio delle sue capacità), procuratore legale di un importante studio di New York, si troverà ad affrontare gravi conseguenze. Dan crede che si tratti soltanto della classica avventura passeggera, ma la traumatizzata Alex è di parere opposto. Comincia a perseguitarlo, mettendo a rischio la sua incolumità e quella dei suoi familiari. Si solidarizza rapidamente con la famiglia, come la stessa Alex sembra voglia fare, rivelandosi poi il malcelato tentativo di provocare e sottomettere Dan. È attraverso questa dinamica che si può riconoscere una sottile e acida critica nei riguardi della credibilità e rapidità con la quale, oggi ancor più di allora, si mette in piedi una famiglia.
The Lawnmower Man (Il tagliaerbe, Brett Leonard, 1992), liberamente tratto da un racconto di Stephen King, nell’ambito del particolare techno-thriller (thriller tecnologico), narra la storia di un medico dei laboratori per la ricerca della tecnologia cibernetica rapportata al funzionamento del cervello umano, che decide di sperimentare i frutti delle sue assidue ricerche nei riguardi di un, diversamente abile, giardiniere di mestiere. Gli effetti saranno devastanti, mettendo a repentaglio la vita di diverse persone e di conseguenza, persino la sua stessa salute. Mente umana e tecnologia sono due binari che si scontrano in maniera sconvolgente, tramutando le, tutto sommato, tranquille esistenze di due uomini e di coloro che sono loro vicini, in un incubo ad occhi letteralmente sbarrati.
Per North by Northwest (Intrigo internazionale, 1959) occorre fare un ultimo salto indietro in modo da riassumere, e focalizzare, l’essenza della dinamica thrilling nella storia dei film. In un plot ben ingegnato, di mascherature e doppi, l’agente di pubblicità Roger Thornhill, interpretato da Cary Grant, si rende conto di essere stato catapultato in una girandola impazzita di avvenimenti. E lo stesso si può dire del pubblico, che ammira la maestria con cui Hitchcock riesce a coinvolgerlo raccontando una storia che è un abilissimo intrigo di suspense, mistero e spionaggio.
Non è l’unico film con cui il cineasta si dà all’avventura. Gli esempi sono innumerevoli e si tratta sempre di vicissitudini diverse. Quello che però rende, più di ogni altra cosa, l’esempio migliore di film di genere thriller, è l’esercizio del brivido, innescato da contesti ambientali che ne esaltano le strategie della suspense. Si parte dal mistero, per giungere poi ad uno svelamento. La verità viene a galla a poco a poco, e le conseguenze sono piuttosto elettrizzanti. Roger viene scaraventato su più piani in diversi contesti figurativamente rappresentativi ed esemplari. Si passa da una prateria, inseguito da un biplano che prende lunghe rincorse (una vera e propria strategia della suspense che fa leva sul tempo e sul silenzio), per arrivare ad una spettacolare arrampicata finale sui ritratti dei presidenti americani scolpiti sui monti Rushmore.
Questi continui spostamenti dell'azione fanno capire chiaramente che è il contesto nel quale l’uomo si trova, a innescare il meccanismo del brivido. E può valere tanto per una grande casa nel quale si viene intrappolati, quanto per un spazio vasto, apparentemente privo d’insidie. Un po' il discorso che fa Christopher Nolan nel suo sottovalutato Insomnia (2002), nel quale è l’Alaska, con la sua assenza di oscurità, a donar vigore a quel che proprio nel buio della notte, rintraccia occasioni svisceranti. Torbide e sconvolgenti reazioni/emozioni, nevralgie di un genere ponte che dissemina molecole, come schegge impazzite, di tutti i generi esistenti.